Indice Articoli
La Vigilanza Rai processa la Maggioni
Repubblica, De Benedetti e la tentazione di lasciare
Dreyfus (Le Monde): il futuro non è nelle tlc che regalano le news
L’ Economist lancia l’ app che traduce in tempo reale gli articoli in cinese
Maggioni, piano news Rai bocciato perché non incisivo
L’ editoria si interroga sul suo futuro
I giornali alla sfida del cambiamento
De Benedetti: ora gli Stati generali
Giornali, ora è tempo di osare
Flessibilità, dialogo, velocità Così si vince la sfida digitale
Qualità e nuovi strumenti per conquistare lettori fedeli
Cambia la tecnologia Puntiamo su creatività e fiducia del pubblico
La forza di un quotidiano sono le idee rivoluzionarie e la comunità che aggrega
La democrazia ha bisogno di giornalismo di qualità
Giovani, web, Trono di Spade «Ecco il futuro dei giornali»
Siglato l’ accordo Rai-France Tv «Forti insieme deboli se soli»
Facci, l’ Ordine e il ruolo dei giornalisti
Il futuro dei giornali
Il manifesto per il futuro
Elkann – Bezos “Serve la fiducia dei nostri lettori”
Ora gli Stati generali dell’ editoria Sfidiamo Google sui dati
Ai tempi di Facebook il buon giornalismo non può essere gratis
«La carta stampata vivrà» Big dell’ editoria a confronto
«La carta stampata non morirà, si trasformerà»
Coni grandi gruppi editoriali si può scommettere sul futuro
I big dell’ editoria mondiale a Torino per chiudere i festeggiamenti dei 150 anni della ‘Stampa’. La tecnologia non sostituirà i giornalisti, ma serve investire più che tagliare. Google e Facebook devono assumersi la responsabilità di ciò che …
COMUNICATO DELL’ EDITORE
La Regione approva il progetto di legge sull’ editoria locale
La Vigilanza Rai processa la Maggioni
Il Fatto Quotidiano
Gianluca Roselli
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Finita, causa dimissioni, la bufera su Antonio Campo Dall’ Orto, altre nubi si addensano sulla Rai, questa volta sulla presidente Monica Maggioni (ieri in audizione in commissione di Vigilanza Rai). Finita nel mirino per una serie di viaggi (almeno una decina) per la presentazione del suo libro a spese di Viale Mazzini. Nel 2015, infatti, viene data alle stampe la sua ultima fatica letteraria, Terrore mediatico, pubblicata da Laterza, saggio sull’ uso dei media da parte dei terroristi islamici e dell’ Isis. Alla pubblicazione, come sempre in questi casi, seguono una serie di appuntamenti in giro per l’ Italia per la presentazione. E fin qui tutto bene. Senonché un articolo de La Verità nel maggio scorso ipotizza che i tour letterari della Maggioni non siano avvenuti a spese sue e nemmeno dell’ editore Laterza, ma a carico di mamma Rai, cioè dei cittadini italiani, che nel frattempo si sono ritrovati pure a dover pagare il canone in bolletta. Ora, perché la tv di Stato dovrebbe finanziare i viaggi della Maggioni per presentare un libro che con la Rai non c’ entra nulla? L’ interrogativo è rimbalzato in commissione di Vigilanza con un’ interrogazione di Mirella Liuzzi del Movimento 5 Stelle. La risposta, però, non è arrivata dalla presidente, ma da una nota di Viale Mazzini, secondo cui “la presenza di personalità aziendali riconoscibili a dibattiti, conferenze, presentazioni e altre occasioni simili, è ritenuta non soltanto quale una componente dell’ incarico affidato ma, ancor di più, elemento di promozione e valorizzazione dell’ immagine della Rai”. Insomma, la tv pubblica ammette di aver pagato i viaggi alla presidente perché tutto ciò valorizza l’ immagine dell’ azienda. “Maggioni deve chiarire. Vogliamo sapere di quanti rimborsi stiamo parlando e quale soggetto li ha autorizzati. Deve restituire quei soldi immediatamente, senza nascondere la polvere sotto il tappeto. Il suo comportamento è un enorme danno d’ immagine alla Rai”, afferma la grillina Liuzzi. Il rischio, per la presidente, è una denuncia alla Corte dei conti per danno erariale. Alcuni giornalisti risolvono il problema pubblicando con Mondadori – Eri Rai, come fa Bruno Vespa. In questo modo Viale Mazzini può sobbarcarsi, insieme a Mondadori, le spese per le presentazioni. Ma Laterza con la Rai non ha nulla a che fare. A parte un piccolo particolare, che riguarda sempre la Maggioni. Karina Guarino Laterza, moglie di Giuseppe Laterza, il patron della casa editrice, è una dipendente Rai. Dopo molti anni al Tg1, come caposervizio e inviata, nel 2013 viene chiamata a fare da caporedattore a Rainews proprio della Maggioni, che ne è direttore. Quest’ anno, poi, Karina Laterza è stata nominata segretario generale del Prix Italia, il celebre concorso Rai per programmi tv, radio e web, giunto alla 69esima edizione, in programma a Milano alla fine di settembre. Un ruolo di grande prestigio e visibilità, molto ambito nelle stanze di vertice tra Saxa Rubra e Viale Mazzini. La nomina spetta al direttore generale, ma su indicazione della presidente, ovvero la Maggioni, che detiene le deleghe alle relazioni internazionali.
Repubblica, De Benedetti e la tentazione di lasciare
Il Fatto Quotidiano
Silvia Truzzi
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A Torino va in scena l’ ultimo atto delle celebrazioni per i 150 anni della Stampa, in una lunga giornata di incontri con molti ospiti internazionali, tra direttori e amministratori di quotidiani. Titolo, anzi title: “The future of newspapers”. A chiudere gli anglofoni lavori, l’ intervento del presidente del gruppo nato dalla fusione di Stampa ed Espresso-Repubblica, Carlo De Benedetti. Forse l’ ultimo discorso dell’ Ingegnere da presidente: voci sempre più insistenti lo dicono stanco e insofferente. E non per l’ età (81 primavere), ma soprattutto per le difficoltà della sua amatissima Repubblica, dove un anno e mezzo fa si è insediato Mario Calabresi, succeduto alle direzioni di Ezio Mauro e del fondatore Eugenio Scalfari, entrambe felicemente longeve. I guai, lo sappiamo, sono sistemici: i giornali perdono copie, l’ emorragia di lettori è un problema comune (ahinoi). Repubblica però perde particolarmente. Secondo i dati Ads, nell’ aprile 2016 il quotidiano di Largo Fochetti vendeva 212mila copie, scese a 181mila a marzo 2017 e a 177mila in aprile. Il diretto concorrente, il Corriere della Sera negli stessi periodi fa numeri diversi: 208mila ad aprile di un anno fa, poi 200mila a marzo scorso e 201mila ad aprile. Secondo molti, fra cui probabilmente anche l’ Ingegnere, la perdita tanto copiosa di copie si deve anche a uno smarrimento identitario del giornale simbolo della sinistra italiana. Nel discorso di ieri De Benedetti ha lanciato una proposta: “Convocare gli stati generali della nuova stampa aperti a ogni categoria che vuole partecipare per ripartire dalla qualità”. L’ intervento è incentrato sul concetto di good enough, l’ abbastanza buono. Di notizie “abbastanza buone” ( e che non costano praticamente nulla) siamo invasi. Come competere? “Nel mondo del buono abbastanza gli editori devono riconquistare la fiducia del pubblico. Nessun modello di business può funzionare se concorre con un prodotto che ha il costo pari a zero. Dobbiamo produrre notizie che facciano la differenza e questo può farlo solo una struttura professionale. Il pubblico deve sapere che nei nostri contenuti può trovare informazione con controllo, trasparenza e ammissione pubblica di errore”. Un passaggio, quest’ ultimo, che è stato letto come una frecciatina nemmeno tanto velata a Mario Calabresi, recentemente protagonista di uno scontro con il Movimento 5 stelle. Giovedì scorso Repubblica dava notizia, in apertura di giornale, di un incontro tra il segretario della Lega Matteo Salvini e Davide Casaleggio. Entrambi hanno categoricamente smentito, sono volate parole grosse. E proprio ieri Casaleggio ha annunciato di aver intentato una causa civile contro il direttore: “Non accetto che dopo aver inviato la rettifica Calabresi mi dia del bugiardo sulla base di presunte ‘fonti certe’ () È passata quasi una settimana e Calabresi si è ammutolito, le fonti certe sono scomparse rendendo chiaro a tutti il ‘metodo Repubblica’: pubblicare notizie false in prima pagina, citare presunte fonti certe, tirarsi indietro davanti a un fact checking pubblico e lasciare il dubbio nelle persone che un fatto possa essere vero anche se non lo è”. Ma se De Benedetti davvero lascia, chi prenderà il suo posto? Non il figlio Rodolfo, cui l’ editoria non è mai interessata. Sembra che l’ Ingegnere l’ abbia chiesto a Ezio Mauro (il che sarebbe l’ implicito commissariamento di una direzione non saldissima). L’ ex direttore avrebbe rifiutato, ma De Benedetti non pare essersi ancora arreso. L’ altra opzione potrebbe essere offrire all’ ex direttore la vicepresidenza. Sarebbe, in ogni caso, il “modello Fattori”: Giorgio (il direttore con cui Mauro cominciò alla Stampa), che nel negli anni Ottanta divenne presidente e ad della Rizzoli. In quel momento il direttore del Corriere era Ugo Stille, ma era il suo vice Giulio Anselmi a “fare” il giornale. E non è un segreto che molte delle decisioni giornalistiche passavano attraverso un’ idea di Fattori. Lo strappo si potrebbe consumare già domani, giorno di convocazione del consiglio di amministrazione. Ma solo a patto che Ezio Mauro pronunci un identitario sì.
Dreyfus (Le Monde): il futuro non è nelle tlc che regalano le news
Italia Oggi
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«Il futuro dell’ editoria non è nelle tlc, con vari operatori di telefonia che offrono gratis articoli di giornali ai loro abbonati»: è categorico Louis Dreyfus, a.d. de Le Monde, che a ItaliaOggi ha spiegato come sia «un’ alleanza che fa male agli editori, perché si diffondono contenuti senza dar loro il giusto valore economico, e fa male anche al settore della telefonia perché, comunque, non aumenta il numero degli abbonamenti». Le Monde vuole invece «una relazione diretta coi suoi lettori» e le scelte strategiche dell’ editrice «hanno portato i conti in positivo. Anche per il 2017 queste decisioni segneranno una crescita degli utili». Dreyfus, quindi, non condivide il modello di business di Patrick Drahi, al contempo editore e imprenditore delle tlc che ha unito sinergicamente i due business. «Per il futuro manterremo gli investimenti nella redazione, rafforzeremo l’ edizione del weekend e lanceremo più video e più contenuti per i mercati esteri che parlano francese, come l’ Africa», ha dichiarato Dreyfus. «I nostri abbonamenti digitali? Crescono e siamo riusciti anche ad aumentare le loro tariffe». A proposito dell’ indipendenza dei giornalisti, Dreyfus ha ricordato che, «pur avendo diminuito la loro partecipazione nel capitale del quotidiano parigino, mantengono sia una golden share sia è stato creato un comitato etico presieduto da un magistrato, a tutela della redazione». © Riproduzione riservata.
L’ Economist lancia l’ app che traduce in tempo reale gli articoli in cinese
Italia Oggi
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I contenuti possono essere anche sexy se servono ai giornali per diffondersi sui cellulari. Non c’ è nulla di male. E anche il native advertising, ossia la pubblicità realizzata su misura dagli editori per gli inserzionisti pubblicitari, va bene purché sia ben distinto dai contenuti giornalisti, ha dichiarato con una certa ironia a ItaliaOggi Mark Thompson, a.d. del New York Times, secondo cui la ricetta migliore per affrontare il futuro comprende notizie approfondite e originali insieme a informazioni di qualità. «Sono i giornalisti a fare la differenza. In questo, complessivamente, non è poi tanto difficile fare soldi», ha aggiunto sorridendo. E di certo non manca d’ inventiva nemmeno l’ Economist, settimanale economico in inglese che per aumentare la sua penetrazione nei paesi dove parlano un’ altra lingua ha lanciato «Global business review, applicazione che traduce in tempo reale gli articoli dall’ inglese al cinese mandarino, e viceversa», ha detto Zanny Minton Beddoes, direttore dello stesso Economist. «È un primo esperimento ma in gioco c’ è la sostenibilità, per noi come per altri, nel lungo periodo». © Riproduzione riservata.
Maggioni, piano news Rai bocciato perché non incisivo
Italia Oggi
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Il piano di riforma delle news Rai proposto dall’ allora direttore generale Antonio Campo dall’ Orto al cda di viale Mazzini è stato bocciato a maggioranza il 22 maggio scorso per «mancanza di incisività rispetto alla riscrittura di un piano industriale legato all’ area news che coinvolgesse l’ intera Rai». A rivelarlo è stata ieri il presidente Rai Monica Maggioni nel corso dell’ audizione in commissione di Vigilanza, dove era presente anche buona parte dei componenti del cda della tv di stato. Il presidente ha aggiunto che «una delle cose non risolte erano i cinque-sette microfoni nello stesso posto davanti alla stessa persona», riferimento a polemiche di qualche tempo fa legate ai diversi inviati dei diversi tg Rai in occasione di un unico evento o appuntamento politico-istituzionale. Una vicenda che in ambienti politici era stata indicata come emblematica di un’ organizzazione del sistema news da rivedere. Sempre secondo la Maggioni, le dimissioni da d.g. di Campo Dall’ Orto «sono state una sua scelta personale», in cda c’ erano divergenze «su alcune questioni significative ma nessuno di noi ha chiesto nulla su questa scelta». Per quanto riguarda i compensi degli artisti e di altre figure inerenti programmi Rai a valore aggiunto, il presidente di Viale Mazzini ha chiarito che un «ruolo chiave lo avrà il d.g. (Mario Orfeo, ndr), al quale viene chiesto di inserire in ognuno dei casi le motivazioni che originano la deroga» al tetto dei compensi stessi. Quello approvato dal cda nei giorni scorsi, ha aggiunto la Maggioni, è un «piano organico di criteri e parametri che rimanda alla figura del d.g. la determinazione delle singole figure e delle ragioni per cui si arriva, dove si arriva, alle deroghe». Il presidente ha ricordato che c’ è differenza tra compensi e stipendi: per questi ultimi «l’ azienda vive con i tetti dal novembre 2016», in linea con l’ entrata in vigore della legge. Quanto ai compensi degli artisti, «come cda abbiamo cercato di essere il più possibile diligenti e attenti in questo senso: la sintesi del nostro lavoro aveva per obiettivo garantire alla Rai una possibilità di esistenza sul mercato e quello di tenere conto della doverosa limitazione dei compensi».
L’ editoria si interroga sul suo futuro
MF
TERESA CAMPO
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La crisi non mollerà la presa, ma giornali e giornalisti riusciranno a sopravvivere all’ avvento dell’ online. Naturalmente cambiando modelli e modalità di realizzazione dei prodotti cartacei, che, tra le tante incertezze che ancora permangono, di sicuro dovranno essere veloci, affidabili, un po’ più locali, possibilmente in inglese. E molto altro. È quindi una realtà dell’ editoria ancora scivolosa quella emersa dall’ incontro «The future of newspapers» tenutosi ieri a Torino in occasione dei 150 anni del quotidiano La Stampa, cui hanno partecipato direttori e vertici di alcune delle principali aziende editoriali mondiali. In prima fila John Elkann, Sergio Marchionne, Jeff Bezos di Amazon e Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, che ha aperto i lavori. Ha spiegato subito che «in un contesto in cui le vendite in edicola e di conseguenza anche la raccolta pubblicitaria sui mezzi tradizionali continuano a calare, mentre le copie digitali stentano a crescere, per sopravvivere servono nuovi modelli di business e nuovi sistemi di pagamento da proporre ai lettori. Ma alla fine da questo periodo di transizione l’ editoria potrà riemergere più ricca». Qualche segnale della possibilità di riemergere comincia forse a vedersi. È vero infatti che dal 1990 a oggi nel mondo sono scomparse 250 mila posizioni nel settore giornalismo, ma è anche vero che «qualcuno aveva previsto che nel 2017 si sarebbe stampata l’ ultima copia del New York Times e invece questo non è accaduto», ha sottolineato il presidente della Fieg Maurizio Costa. Anche perché a favore della carta stampata sembra tornare in auge il tema della credibilità. «Se il pericolo per l’ informazione è rappresentato dalle cosiddette fake news, proprio queste ultime potrebbero spingere l’ auspicato rilancio dell’ editoria», ha spiegato il direttore del Financial Times Lionel Barber. Anzi, «le notizie false sono la cosa migliore che potesse capitare al nostro settore», ha aggiunto Bobby Ghosh, direttore di Hondustan Times. «I lettori stanno tornando a considerare le buone fonti e inoltre chi si occupa di pubblicità ha molto da perdere se sostiene chi diffonde fake news». Ma come dovranno essere quindi giornali e giornalisti nel prossimo futuro? Per Molinari in primo luogo «serve evolvere da una comunità intellettuale a una comunità di servizi intellettuali», ha spiegato. «E per riuscirci non dobbiamo aver paura di reinventarci: magari gli articoli dovranno essere scritti in modo diverso, adattandoli a piattaforme che possono offrire notizie, eventi, orari dei treni; il tempo di lettura dovrà sostituire il numero delle parole nel valutare la qualità di un contenuto e i quotidiani dovranno avere meno pagine. Di certo la nostra forza sta nei marchi, quindi dobbiamo investire nella nostra identità». Barber ritiene invece che occorra ritrovare il tempo per un giornalismo investigativo serio, mentre Ghosh crede in un futuro dei giornali fatto di notizie locali e iperlocali: «crime, class e community, ossia tematiche come cronaca nera, scuola e pendolari». In ogni caso «non ci sarà spazio per più di uno o due giornali in lingua non inglese per ogni Paese», ha aggiunto Mark Thompson del New York Times. Tutti concordano comunque sul fatto che l’ arma principale per fronteggiare l’ online sia la qualità, intesa come capacità di trovare notizie affidabili. «Facebook ha detto di aver assunto centinaia di fact-checker, ossia persone che verificano le notizie che vengono scritte sui giornali di tutto il mondo», ha concluso Barber. Una volta noi li chiamavamo semplicemente giornalisti». (riproduzione riservata)
I giornali alla sfida del cambiamento
Il Sole 24 Ore
Andrea BiondiFilomena Greco
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torino «Sperimentare, concentrarsi sui lettori e avere un’ ottica di lungo termine». Questo per le aziende editoriali. Ma da Jeff Bezos un’ indicazione arriva anche ai giornalisti: «Quando scrivi, scrivi bene, scrivi la verità e chiedi ai lettori di pagare». Il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post è stato uno dei protagonisti – con ogni probabilità anche il più atteso – della conferenza internazionale “The future of newspaper” organizzata dal quotidiano La Stampa per festeggiare i suoi 150 anni di vita. Un’ occasione che ha riunito a Torino il gotha dell’ editoria mondiale. E dalla pubblicità (si è parlato di native advertising e branded content, visti come possibilità, ma da maneggiare anche con molta cura), ai modelli di business, al rapporto con le nuove tecnologie e con gli Over The Top, quello che è emerso in cinque ore di dibattito è un puzzle variegato (anche complicato) che ancora attende una sua composizione e che chiama tutti i protagonisti del settore a riflessioni profonde. A condividere l’ ultimo panel di discussione con Jeff Bezos sul palco c’ era John Elkann, presidente di Editrice La Stampa per il quale oltre alla necessità di una massa critica «fondamentale per la sostenibilità, per questo abbiamo attuato il consolidamento, prima con Secolo XIX e poi con Repubblica», l’ imperativo per il giornalismo è «trovare un numero crescente di lettori fedeli e paganti», tanto più in un momento in cui l’ essere redditizi mette al riparo: «Se si fanno compromessi sulla linea editoriale e se i numeri non stanno in piedi si crea il problema della fiducia nei lettori», dice Elkann. Assicurarsi lettori fedeli e paganti può sembrare come scalare una montagna, in epoca di informazione mordi e fuggi vissuta sempre di più come una commodity. «I lettori – chiosa sul punto Bezos – non sono stupidi, sanno che il giornalismo di qualità costa e va pagato». Giudizio netto, unito però alla consapevolezza che scappatoie non ce ne sono: puntare su «storie originali, approfondimenti, giornalismo investigativo» non ha alternative, soprattutto perché questo serve «ad attirare gli abbonamenti. I soli ricavi della pubblicità non possono mantenere un giornale». Mai banale Bezos. Chi, oltre a lui avrebbe potuto dire che «Leggere un giornale stampato è un’ esperienza diversa, ma un giorno diventerà un prodotto di lusso un po’ esotico, come possedere un cavallo, qualcosa che non hanno tutti»? E in più: «Mi chiedete se continueremo a stampare i giornali nel 2025. Io dico di sì». Il tutto vale, secondo Bezos, solo se ci si rende conto che non ha senso combattere contro le tecnologie, contro i colossi del web che tanto fanno paura: «Google e Facebook? Una delle prime regole del business è che occorre lavorare con il mondo che si ha, senza lamentarsi». Anche perché con Internet la platea è diventata globale. Mark Thompson, ceo del New York Times, parla di «10 milioni di abbonati digitali sono per noi un obiettivo fattibile» indicando «ricavi di carta che per noi a un certo punto andranno a zero». Lingua inglese e sottoscrizioni alla base del business in cui però la stella polare deve essere «investire su contenuti digitali ad alta qualità, che facciano aumentare i lettori, invece di tagliare perché diminuiscono i ricavi dal giornale in edicola». Il tutto poi tenendo presente che la globalizzazione facilitata dal web può aprire scenari ora impensati: per Gary Liu (South China Morning Post) «fra 10 anni la Cina sarà l’ economia numero 1 al mondo e noi il giornale che la racconterà». Il ceo di Le Monde Louis Dreyfus e di Politico Robert Allbritton hanno chiuso un panel seguito a quello in cui a discutere sono stati i direttori di quattro testate. Si va dall’ esperienza puramente digitale dell’ Huffington Post, rappresentata da Lydia Polgreen, ai milioni di lettori dell’ Hindustan Times diretto da Bobby Ghosh, passando per Bloomberg News, la testata con il paywall più alto sul mercato diretta da John Micklethwait, a Lionel Barber editor del Financial Times e Ascanio Seleme del brasiliano O Globo. Qualità, fake news («la cosa migliore che potesse capitarci per tornare a fonti più affidabili» ha detto Ghosh), social network l’ hanno fatta da padrone nella discussione. Va giù ancora duro Barber: «Facebook ha detto che hanno assunto centinaia di fact-checker per verificare le notizie. Una volta noi li chiamavamo giornalisti». Alla fine, a sentire Tsuneo KiTa, presidente di Nikkei – 2,7 milioni di lettori e 50 mila abbonati online, gruppo che ha acquisito il Financial Times – allargare i lettori dei giornali «è necessario per contrastare il processo di trasferimento delle risorse economiche sulle piattaforme». Si torna al punto di partenza. In cui a far la differenza saranno brand e qualità: i plus del giornalismo di domani. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
De Benedetti: ora gli Stati generali
Il Sole 24 Ore
A. Bio.F. Gre.
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torino «Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, vogliamo cercare il modo per rimanere remunerativi perché se muore l’ editoria d’ informazione, non muore solo un settore industriale: muore una funzione essenziale dei sistemi democratici». Carlo De Benedetti, presidente di Gedi, ha concluso così il suo intervento e, nei fatti, ha concluso così l’ incontro che a Torino ieri, in occasione dei festeggiamenti per i 150 anni de La Stampa, ha riunito esponenti di primissimo piano dell’ editoria mondiale per parlare del futuro dei giornali e del giornalismo. Prima del the end dal palco il presidente di Gedi lancia però una proposta che«mi piacerebbe partisse dall’ Italia ma coinvolgesse tutta l’ Europa», vale a dire la convocazione degli «stati generali dell’ editoria aperti a ogni categoria, editori, giornalisti e poligrafici, ripartendo dalla qualità». L’ intervemnto di De Benedetti ripercorre punti che il presidente di Gedi ha toccato in più occasioni pubbliche, ponendosi spesso in aperta e frontale contrapposizione con gli Over the top, quei colossi del web «che ammiro profondamente per quanto hanno immaginato e realizzato. Ma dei quali vedo potenzialità e rischi». Prese di posizione e contrapposizioni molto forti ora fanno dire a De Benedetti che la situazione impone un ripensamento, anche nei rapporti. «Le grandi piattaforme digitali sembrano peraltro essersi ultimamente rese conto che l’ informazione prodotta professionalmente è una condizione essenziale per la sopravvivenza delle moderne democrazie», ha spiegato De Benedetti aggiungendo che «per quanto ci riguarda, noi editori ci siamo resi conto che non dà risultati andare alla guerra contro Google e soci, che pure usano i nostri contenuti senza retribuirci. Hanno mezzi e risorse per respingerci. Tant’ è che siamo passati da una situazione di scontro a una di confronto e, in alcuni casi, di intesa basata sul riconoscimento di principi come quello del diritto d’ autore. Chiediamo di poter fare il nostro mestiere». Una richiesta non da poco se vale la premessa del discorso che il presidente Gedi fa in apertura del suo intervento: «In questi anni è andata confermandosi la mia convinzione che una società democratica non possa fare a meno dell’ informazione professionale. L’ illusione di una totale disintermediazione, in politica come nel campo dell’ informazione, mostra il limite di ogni ideologia millenaristica: la sparizione dei vecchi mediatori crea lo spazio per nuovi ri-mediatori che sfuggono alla verifica collettiva e surrogano i modi ma non le qualità di chi li ha preceduti». C’ è però anche da porsi un interrogativo: «Come devono trasformarsi il giornalismo e l’ editoria in un sistema culturale nel quale l’ atto di “pubblicare” è inteso come il semplice click sul tasto “invio”?». La risposta «può solo essere trovata nella creazione e nell’ offerta di prodotti informativi non fungibili, non replicabili». Conclusione: «In un mondo di informazione “buona quanto basta” a costo zero, gli editori devono essere in grado riconquistare la fiducia dei cittadini. È questo il valore del nostro lavoro». © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Giornali, ora è tempo di osare
Italia Oggi
DA TORINO PAGINA A CURA DI MARCO A. CAPISANI
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Lo scenario dell’ editoria internazionale è vasto e variegato ma ci sono almeno due punti fermi: i ricavi da carta stampata calano e quelli del digitale, perlopiù tramite i social network alla Facebook, rendono 25 cent di dollaro per utente contro i 25 dollari che ogni internauta assicura in media ai big della rete. Quindi i giornali «non devono avere timori a ripensarsi», a sperimentare, magari valutando la fruizione dei loro contenuti anche attraverso nuovi parametri come «il tempo di lettura» e soprattutto iniziando a definirsi come «comunità di servizi intellettuali» con informazioni su attualità, eventi, conferenze e anche gli orari dei treni per raggiungere queste manifestazioni. Ha aperto con questo invito Maurizio Molinari, direttore della Stampa, la giornata «The future of newspapers», organizzata ieri a Torino nell’ ambito delle celebrazioni per i primi 150 anni del quotidiano piemontese. Kermesse a cui hanno partecipato direttori ed editori di testate come Financial Times, New York Times, Huffington Post, South China Morning Post e ancora Washington Post, Bloomberg, Economist, Le Monde e Bild. Per affrontare il futuro, i nodi cruciali sono sempre come rendere profittevole il digitale, se e come lanciare modelli di lettura web a pagamento, il pericolo fake news e la concorrenza dei social ma ogni giornale ha la sua ricetta e cerca la sua strada verso la sostenibilità: così per esempio Lionel Barber, direttore del Financial Times, punta su notizie in esclusiva, che siano differenti da quelle di altri giornali, frutto di giornalismo investigativo anche per raccontare piccole storie che smuovano l’ opinione pubblica, e infine crede nell’ informazione del weekend quando il pubblico ha più tempo a disposizione. Bobby Ghosh, direttore dell’ indiano Hindustan Times, riassume la sua strategia con le tre parole crimine, cambiamenti sociali e lavoro mentre Lydia Polgreen dell’ Huffington Post investe sulla fiducia che i brand giornalistici devono coltivarsi tra i lettori. E in conclusione John Micklethwait al timone di Bloomberg News ha riassunto: «ricordiamoci che alla fine di ogni strategia il risultato dev’ essere farsi comprare», in edicola come sul web. Stessi problemi ma focalizzati da un punto di vista differente è quello degli editori e dei loro a.d., a partire dall’ editore della stessa Stampa (e Secolo XIX) John Elkann che ha annunciato «entro settimana prossima il closing» della fusione con Repubblica del gruppo L’ Espresso, operazione per cui è atteso a breve il via libera della Consob. È grazie a operazioni simili di consolidamento che «siamo riusciti a raggiungere e mantenere una certa redditività», la Stampa «è stata redditizia nel 2016 e faremo utili anche nel 2017». Senza dimenticare l’ investimento che ha portato il gruppo guidato da Elkann a rilevare il controllo dell’ Economist con cui «si può essere d’ accordo o meno ma quello rimane il punto di vista del settimanale. E infatti cresce sia il numero degli abbonati sia il prezzo di copertina». In parallelo, concentrazione sulle esigenze lettore, che poi attira anche inserzioni pubblicitarie, e tecnologia da vendere anche ad altri giornali sono i due punti di forza secondo Jeff Bezos, patron di Amazon e soprattutto editore del Washington Post. «Non avrei voluto fare editoria», ha raccontato Bezos. «Siamo tornati alla redditività scommettendo su un team indipendente di giornalisti. Con le loro storie originali aumentiamo gli abbonamenti. Io sono ottimista per il futuro. Più rafforziamo il nostro paywall più crescono gli abbonamenti». Sulla stessa linea il presidente della Fieg (Federazione italiana editoria giornali) Maurizio Costa, che a margine dell’ evento ha sottolineato come «qualcuno aveva detto che nel 2017 si sarebbe stampata l’ ultima copia del New York Times. Non è accaduto, ma che ci sia un cambiamento nel mix tra carta e digitale è sotto gli occhi di tutti: occorre puntare sulla qualità dei contenuti per renderli originali e credibili. Siamo sempre più guidati da un algoritmo tecnologico; occorre che gli editori rispondano con un algoritmo della credibilità». In particolare Carlo De Benedetti, che presiederà il nuovo gruppo Gedi (Espresso+Itedi di Stampa e Secolo XIX), ha chiamato il settore al rilancio proponendo la convocazione a Torino di nuovi «stati generali dell’ editoria, aperti a tutte le categorie della stampa, a livello italiano ed europeo, e inclusi i big della rete» come Google e Facebook. «Il settore non chiede né assistenza né sussidi ma vuole continuare a essere redditizio». Se invece il settore subirà un tracollo, «sparirà una funzione fondamentale della democrazia», ha concluso De Benedetti. Per un futuro sostenibile, tornando a livello giornalistico, certo è che «le redazioni dovranno affrontare cambiamenti come per esempio diventare più specializzate», ha proseguito Barber del Financial Times, «perché il lettore non è più uno sconosciuto che va in edicola», ossia occorre conoscerlo, capire cosa vuole leggere e ottenerne dei riscontri su quello che ha letto. «I big data possono servire a questo proposito così come i video montati apposta per smartphone possono rendere più attrattive le notizie», ha aggiunto Polgreen che avverte però come «i format tradizionali piacciono ancora» e non vanno dismessi, carta compresa, «ma si possono sperimentare nuovi format di cui è un esempio la realtà virtuale». Del resto, «in quanti nelle redazioni prestano attenzione al format e al design dei loro giornali?», ha sottolineato Barber. A proposito di sfide, piattaforme come Facebook e Google «si devono assumere la responsabilità di quello pubblicano», ha continuato il direttore del Financial Times. Ai giornalisti spetta frenare «la pericolosità dei contenuti postati online, magari solo con l’ obiettivo di acquisire più follower», ha aggiunto Ghosh dell’ Hindustan Times. Unica avvertenza: «tenere sempre da conto che i social servono a tante persone per informarsi, è il loro unico modo per farlo», ha chiosato Polgreen dell’ Huffington Post. E le fake news che circolano online? «Intanto smettiamo di chiamarle news, notizie», è intervenuto Ascanio Seleme, direttore del quotidiano brasiliano O Globo. Poi, ha risolto velocemente la questione Polgreen, «l’ unico argine è proporre solo notizie autentiche. I lettori sono furbi». © Riproduzione riservata.
Flessibilità, dialogo, velocità Così si vince la sfida digitale
La Stampa
NICCOLÒ ZANCAN
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Qualità giornalistica, nuove alleanze industriali e coraggio di innovare. È questa l’ unica direzione possibile per un’ informazione libera ed economicamente sostenibile. La rotta è tracciata, concordano tutti. «È un’ epoca dirompente» dice Tsuneo Kita, 70 anni, il presidente di Nikkei, il giornale finanziario più venduto al mondo. Viene stampato in Giappone, dove su 130 milioni di abitanti, 40 leggono un quotidiano. Ecco perché, ancora nel 2017, riesce a vendere 2,7 milioni di copie al giorno, spesso distribuite porta a porta. Eppure è stato proprio Tsuneo Kita, due anni fa, a volere con forza l’ acquisizione del Financial Times per potenziare e allargare ancora l’ orizzonte del gigantesco gruppo editoriale di cui è anche amministratore delegato. «Dobbiamo mettere sul mercato prodotti di grandissima qualità. Facebook e Google non sono nemici, possiamo trovare nuove forme di alleanze. Il giornalismo stampato è in declino. Per garantire la massima indipendenza editoriale del Financial Times serve un modello di business solido. Così abbiamo rassicurato tutti: non abbiamo bisogno di utili a breve termine. Per tre anni reinvestiremo in nuove tecnologie». Anche Julian Reichelt, 37 anni, direttore della Bild Digital e responsabile editoriale delle redazioni di tutto il gruppo, concorda sulla necessità di cercare nuove alleanze: «Non abbiamo i mezzi per dichiarare guerra a Google e Facebook. Dobbiamo cercare di ottenere il meglio possibile. Si può trovare una forma di collaborazione. La nostra posizione è questa: non resteremo su una piattaforma, se il nostro contenuto non verrà monetizzato». Questo è il punto di vista dell’ industria. Industria e giornali. Tradizione e futuro. Mario Calabresi, il direttore di Repubblica, modera il dibattito. Le domande arrivano da studenti della Columbia University, dell’ Università di Torino e da lettori della Stampa. Ad esempio, questa: «Ho 75 anni, da tempo ho lasciato l’ edizione cartacea della Stampa per quella digitale. Immagino un futuro di giornali solo digitali con un flusso di notizie aggiornate continuamente e una sola edizione quotidiana che dovrebbe concentrarsi su commenti, opinioni, analisi, con un’ attenzione particolare alla cultura, alla salute, ai libri, ai viaggi. Un giornale che non solo informi, ma spieghi. Può funzionare?». Jessica Lessin risponde così: «Forse è una ricetta troppo complessa. Dovremmo, secondo me, cercare un gruppo di lettori fedeli. L’ obbiettivo è essere eccellenti in un campo specifico. Di essere originali, indispensabili». Jessica Lessin è un caso a sé stante nella storia del giornalismo. E forse, proprio con il suo esempio incarna un futuro possibile. A vent’ anni era al Wall Street Journal, dove si occupava di tutto quanto accadeva nella Silicon Valley. Ha finito per scrivere più di mille articoli per la versione cartacea del suo giornale, mentre si accorgeva dell’ importanza sempre crescente di coprire le evoluzioni tecnologiche del distretto digitale. Le strategie di Apple, Google, Yahoo e Facebook, le guerre finanziarie, i nuovi prodotti. Tre anni fa, all’ età di 33 anni, anche grazie alla sua amicizia con Mark Zuckerberg, ha lasciato uno dei più prestigiosi giornali del mondo per fondare un sito di news dedicato proprio a quel mondo specifico: «The Information». Un abbonamento costa 399 dollari all’ anno, offre solo due notizie al giorno molto approfondite. «È la nostra sfida: scrivere articoli che valgano questo denaro. Coinvolgere gli abbonati direttamente, farli partecipare. Organizziamo eventi gratuiti che servono per creare una comunità». Tradizione e innovazione, quindi. Anche Andrew Ross Sorkin è un giornalista perfettamente a cavallo di questa epoca. Da un lato editorialista del New York Times, dall’ altro fondatore di DealBook, un rapporto quotidiano sui temi finanziari pubblicato online dal Times. La domanda che gli rivolge Calabresi va dritta al punto: «Molti millennials non vogliono pagare per gli abbonamenti dei giornali. Hanno anche molti modi per aggirare i pagamenti sul web. Oltre ai social media, qual è il prossimo passo per attirare, crescere e mantenere giovani elettori?». «Dovremo stupirli ogni giorno. Trump ci sta aiutando molto, in questo senso. Per loro dovremo essere l’ equivalente giornalistico di Games of Thrones. Non dico tutti i giorni, ma quasi. E poi, il giornalismo è un business basato sul talento. La sfida più importante per stare nel futuro è proprio questa: cercare nuovi talenti, aggiungere sempre qualità ai giornali». Robert Thomson, ex amministratore delegato del Wall Street Journal, ora è il Ceo di News Corporation, il gruppo editoriale di Rupert Murdoch, uno dei più grandi del mondo. Raggruppa quotidiani, settimanali, libri, televisioni, cinema, radio e pay-Tv da New York all’ Australia, passando per le isole Fiji. Un colosso che fa della diversificazione la sua forza principale. Ma qui si sta discutendo del futuro dei giornali, delle vecchie rotative e di quello che verrà. Ed ecco, infatti, la domanda: «I giornali perdono copie nelle edicole ormai da anni. Meglio spostare soldi e risorse umane verso il digitale o bisogna cercare di resistere? Qual è il modello di business per il futuro?». «Non bisogna essere negativi, ma cercare di portare i quotidiani nelle scuole. Studiare in che modo le persone interagiscono con i media digitali. Sul telefono ci sono sette schermate aperte, il livello di concentrazione è ridotto. Mentre bevendo il caffè, la carta è ancora un’ ottima opportunità di lettura». Le priorità, alla fine. Per Kita: «Rispondere alle necessità dei lettori, usando le nuove tecnologie». Per Lessin: «Fare giornalismo per cui valga la pena pagare». Per Reichelt: «Raccontare le cose senza timore». Per Sorkin: «Andare incontro al futuro». Per Thomson: «Essere al corrente delle tendenze, senza mai essere trendy». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
Qualità e nuovi strumenti per conquistare lettori fedeli
La Stampa
BENIAMINO PAGLIARO
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Fare un giornale appartie ne al tempo stesso a due categorie della vita: è un mestiere ma è anche una passione. Un esercizio rigoroso in costante ricerca di equilibrio tra realtà e progetto, tra cronaca e ambizione, per la comunità, la città, il Paese o il mondo. Fare l’ editore di un quotidiano, sembra un paradosso, richiede la cultura del lungo periodo, e la capacità di anticipare i tempi, soprattutto in un mondo veloce che ha reso tutti (e nessuno) proprietari del sacro potere della stampa. Le storie di John Elkann e Jeff Bezos sono diverse, ma entrambi gli editori citano il «senso di responsabilità» quando Massimo Russo li interroga sul senso di essere editori oggi. Nel 2017 disordinato nemmeno i fatti sono più quelli di una volta. La tecnologia provoca cambiamenti vertiginosi: Internet riduce la geografia e avvicina i nodi, l’ informazione è un fiume in cui siamo immersi, sollecitati dalle notifiche sui nostri telefoni. Così i proprietari dei fatti non sono più gli editori. Forse non lo sono mai stati, si può obiettare, ma fino a ieri chi stampava aveva la tecnologia in grado di trasformare un fatto in notizia. C’ era una volta e non c’ è più. La cavalcata dei gruppi tecnologici ha conquistato l’ attenzione degli utenti, e con questa l’ 85% del mercato pubblicitario digitale. La concorrenza non è solo in edicola ma nel tempo, sempre scarso, delle nostre giornate, mentre l’ informazione è sempre più abbondante perché il costo di trasmissione si avvicina allo zero. «Internet ha preso il modello economico dei giornali e l’ ha cambiato: è un grande dono per svolgere questo lavoro», dice Bezos, che condivide con Elkann la visione sul modello economico essenziale per il giornalismo. Niente beneficenza: l’ editoria deve e può essere sostenibile. «La Stampa è sempre stato un giornale libero perché è stato sostenibile economicamente – dice Elkann -, e ne siamo fieri. È l’ unico modo per essere indipendenti». «La cosa peggiore che avrei potuto fare – aggiunge Bezos parlando del Washington Post – è dire: “Non preoccupatevi dei ricavi”». Il mercato impone una riflessione: la diffusione dei giornali cala, in Italia si è dimezzata negli ultimi vent’ anni. Gli ospiti arrivati a Torino sono però, e non è un caso, punte di eccellenza. Lo storico settimanale The Economist, di cui Exor è il primo azionista, attua un ambizioso piano per raddoppiare gli abbonati. Il Financial Times cresce da anni in doppia cifra. Il New York Times ha superato quota un milione e seicentomila negli abbonamenti digitali. Il Washington Post ha sorpassato i concorrenti per utenti, riportando i conti in attivo. Non sono solo storie di speranza ma frutto di fatica, coraggio e investimenti. Le parole chiave sono due: scalabilità, ovvero la capacità di ampliare il bacino di utenti, perfino superando i confini linguistici, e tecnologia, il motore fondamentale per conoscere i lettori e raggiungere la scalabilità. «Non possiamo più fare un sacco di soldi da pochi lettori, faremo relativamente pochi soldi da molti più lettori», dice Bezos. Elkann risponde spiegando il disegno industriale da cui nasce Gedi, che sarà leader nel mercato italiano e tra i primi in Europa, per cui si aspetta il via libera dell’ operazione dalla Consob entro la prossima settimana. Elkann ne spiega lo spirito tracciando un paragone industriale con il settore dell’ auto. “Così come facendo più modelli da una stessa casa costruttice si possono aumentare i profitti, anche nell’ editoriale la fusione può aiutare a rafforzare più giornali, moltiplicandone la forza”. La parola da tenere a mente è consolidamento. «Il Gruppo avrà diverse testate, ma beneficerà dalle economie di scala», afferma Elkann. Solo così sarà possibile avere la massa critica per affrontare nuovi investimenti e generare nuove linee di ricavi nel futuro. «Dobbiamo trovare – insiste Elkann – un numero crescente di lettori fedeli e paganti. Così il futuro sarà roseo». Bezos condivide la sfida. Da quando ha comprato il Washington Post, tiene una conference call sulla strategia del giornale (non sui contenuti) ogni due settimane. Dal 2013 sono arrivati investimenti, nuovi giornalisti, un nuovo Chief Technology Officer. I giornali diventeranno aziende tecnologiche? La risposta è che lo dovrebbero essere già. Il successo di Bezos parte direttamente dallo studio ossessivo del cliente: «Un giornale e un ecommerce sono diversi – spiega il fondatore di Amazon – ma l’ approccio è lo stesso, e deve avere al centro il lettore-cliente. La pubblicità da sola non funziona: i dati ci dicono che gli abbonamenti crescono grazie alle inchieste della nostra redazione». Per questo, anche se secondo Bezos in futuro il giornale di carta diventerà un lusso, «un po’ come avere un cavallo», l’ editoria troverà un equilibrio. «Lamentarsi non è una strategia – conclude Bezos -, l’ importante è essere avvincenti quando si scrive, essere giusti e chiedere al pubblico di pagare». In parte la sfida dipenderà dalla capacità di conoscere, comprendere, dialogare e trattare con i proprietari della valuta contemporanea: l’ attenzione. Google risponde alle nostre ricerche, Facebook intercetta le nostre preferenze e filtra il mondo in un NewsFeed. Elkann è considerato un dealmaker in settori pesanti come l’ industria dell’ auto, dove ha portato Fca al rilancio e a lavorare sull’ auto driverless con Google. Da Torino l’ editore de La Stampa sposta su un altro livello la conversazione, necessaria, con le over the top: le piattaforme, spiega, dovrebbero aiutare gli editori a facilitare la conversione degli utenti da casuali ad abbonati, a combattere la pirateria e condividere i dati. Per invertire la rotta, cambiare l’ equilibrio con le piattaforme digitali e costruire un business modello di successo “abbiamo una finestra di opportunità di 12-18 mesi – spiega Elkann – perché Google e Facebook hanno un duplice problema, la diminuzione delle entrate pubblicitarie e la caduta di credibilità a causa del fenomeno delle fake news”. Insomma, il cantiere è aperto. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
Cambia la tecnologia Puntiamo su creatività e fiducia del pubblico
La Stampa
ELISABETTA PAGANI
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Notizie rapide per il digitale ma anche notizie lente, su cui investigare per giorni e da pubblicare nel weekend quando il lettore ha tempo per gustarsi la carta. Questo il futuro dei giornali secondo Lionel Barber, direttore del Financial Times . È invece sull’ informazione locale accurata che scommette Bobby Ghosh, numero uno di Hindustan Times , quotidiano indiano in lingua inglese da oltre un milione di copie. «Empatia e originalità in articoli in cui emozioni e grafica abbiano un nuovo predominante spazio» aggiunge Lydia Polgreen, direttrice dell’ Huffington Post . E poi qualità, qualità, qualità, rincara Ascânio Seleme, che dal 2011 dirige il brasiliano O Globo , per un’ informazione che i lettori siano disposti a pagare. I direttori di alcune delle più prestigiose testate del mondo, invitati a Torino dall’ editore della Stampa John Elkann per chiudere i festeggiamenti per i 150 anni del quotidiano, si scambiano idee e strategie in una tavola rotonda nella sala delle bobine del centro stampa di via Giordano Bruno, dove di notte la carta corre a una velocità di 12 metri al secondo per produrre migliaia di copie. Già, le copie del quotidiano di carta. Ma continuerà ad esistere in tempi di diffusione di notizie gratuite sul web? E se sì, in che forma? E che spazio avranno nuovi robot e «vecchi» reporter d’ inchiesta? Queste alcune delle questioni su cui confrontarsi per iniziare a disegnare il futuro. La carta Su un punto i quattro direttori, moderati da John Micklethwait, numero uno di Bloomberg News , concordano: il giornale cartaceo non sparirà ma cambierà. «Dovrà essere facile da leggere e con un ottimo design – osserva Barber – soprattutto nel fine settimana, che diventa, grazie al tempo maggiore a disposizione, una grande opportunità da sfruttare». «Possiamo riconquistare il terreno perduto – gli fa eco Polgreen, da un anno subentrata alla direzione dell’ HuffPost alla fondatrice Arianna Huffington – puntando molto sull’ empatia con i lettori e sulla tecnologia». Tecnologia che – sostengono i direttori – non soppianterà il lavoro del giornalista. I robot e i reporter «A Bloomberg – spiega Micklethwait – stiamo iniziando ad automatizzare alcune notizie». I report sui titoli di Borsa, ad esempio. Ma in futuro succederà per ogni tipo di informazione? No, è la risposta dei direttori dei giornali storici (il più antico «sul palco» è il Financial Times , fondato nel 1888) ma anche di testate online come l’ HuffPost . «La voce è la cosa più importante in un giornale – sottolinea Barber – ecco perché il ruolo dei commentatori, le nostre star, è centrale». «La mano e la mente umana – rafforza il concetto Ghosh – non possono essere sostituite ma i giornalisti devono “studiare” la tecnologia, essere in grado di modificare dati e video direttamente dal cellulare, come all’ Hindustan Times abbiamo iniziato a fare. Soprattutto nel giornalismo locale, perché è lì, secondo noi, che si nasconde il futuro». Un giornalismo di qualità, sia che denunci le criticità del sistema di trasporto locale sia che sveli i grandi scandali politici internazionali. «Il giornalismo investigativo non è soltanto il Watergate – interviene il direttore del Ft – ma è anche quello dei reporter che raccontano angoli d’ Africa in cui le donne subiscono assalti, o la diffusione di malattie». E la regola alla base, in un giornalismo di qualità, è sempre la stessa: «Le fonti di una notizia devono sempre essere almeno due, anche se una è quella del presidente». Per assicurare, in tempi di fake news, un’ informazione corretta e autorevole. Le notizie false «Le fake news – ironizza Ghosh – sono la cosa migliore che potesse capitarci perché hanno spinto le persone a tornare a rivolgersi a fonti più affidabili, a noi». «Pensiamo all’ Arabia Saudita, alla Corea del Nord, pensiamo a come sarebbe il mondo senza la stampa – aggiunge Seleme -. La nostra battaglia a favore dell’ informazione di qualità non è per salvare noi stessi ma la democrazia». Un tema sensibile, quello delle notizie false, faziose o non confermate, su cui i giornali chiamano in causa le grandi aziende del digitale. «Anche Google, Facebook e gli altri giganti del web – incalza Micklethwait – devono essere considerati responsabili, come una testata giornalistica, di ciò che viene pubblicato sulle loro piattaforme?». «Assolutamente sì – risponde Ghosh -. Gli inserzionisti pubblicitari cominciano a dare peso a questo problema e alla fine imporranno una disciplina». «La cura contro le fake news? Il giornalismo valido, che, non dimentichiamolo, è un servizio pubblico» risponde Polgreen. I social network «Facebook dice che ha assunto migliaia di persone con l’ obiettivo di controllare le notizie che circolano sulle sue pagine. Una volta noi li chiamavamo semplicemente giornalisti», ironizza Barber, per cui i social network sono un’ arma a doppio taglio. Più netto il direttore dell’ Hindustan Times , che li definisce «un male necessario», mentre Micklethwait spiega che a Bloomberg c’ è una redazione di 45 persone incaricata di controllare e osservare cosa succede sui social. Il futuro Come si immaginano i direttori di cinque testate e tre continenti – Europa, America e Asia – il domani dei giornali? «Forse le redazioni saranno più piccole – ipotizza Barber – e composte da talenti creativi con conoscenze specialistiche e tecnologiche, in grado di offrire un prodotto originale». «Saranno, e sono già – aggiunge Ghosh – squadre in cui giornalisti e informatici lavorano insieme, gomito a gomito». «Dovranno essere in grado di soddisfare le esigenze dei lettori – sottolinea Polgreen – ma anche avere la forza di proporre loro cose nuove a cui appassionarsi». La domanda più personale arriva in chiusura: «Come può comportarsi ognuno di noi – chiede il numero uno di Bloomberg News – per fare la differenza?». Secondo Barber è una questione di responsabilità individuale: «Deve guardarsi ogni giorno allo specchio e chiedersi come può rendere il proprio giornale diverso e unico». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
La forza di un quotidiano sono le idee rivoluzionarie e la comunità che aggrega
La Stampa
MAURIZIO MOLINARI
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La conferenza internazionale sul Futuro dei Giornali organizzata da «La Stampa» in occasione del suo 150° anno di pubblicazioni vuole affrontare la sfida che tutti abbiamo davanti: come assicurare un futuro di qualità e profitti ai quotidiani. Avere bilanci in attivo è un’ importante garanzia di qualità perché consente ai quotidiani di proteggere la propria libertà. Per affrontare questo argomento abbiamo organizzato un programma articolato in quattro panel per fare discutere fra loro giornalisti, direttori, editori e proprietari dell’ editoria provenienti da quattro Continenti, a cui abbiamo chiesto di raccontarci le loro esperienze, di confrontare i rispettivi risultati, di descrivere i loro progetti e, perché no, anche di rivelarci i loro sogni. Giornalisti, direttori, editori e proprietari, ognuno di noi arriva a questo appuntamento da strade diverse. Ci siamo ritrovati qui assieme per scambiarci idee e progetti, per creare un’ interazione fra noi da cui tutti potranno trarre vantaggio. La sfida La sfida che abbiamo davanti si presenta tutta in salita: la diminuzione delle copie vendute in edicola, il calo delle entrate pubblicitarie, la concorrenza delle piattaforme digitali e la divulgazione dell’ informazione gratuita mettono a rischio il futuro dell’ editoria. Se ogni anno un utente digitale rende in media 25 dollari a Facebook e 25 centesimi ad un editore significa che dobbiamo, tutti, batterci per sopravvivere. Ma è anche vero che i contenuti dei giornali attirano ogni giorno moltitudini di lettori e users, spinti da un mondo in accelerazione a voler conoscere sempre meglio cosa e quanto sta cambiando, dove, come e perché. Hard news e contenuti intellettuali sono i prodotti più richiesti sul mercato globale. E’ questa la ragione per cui l’ industria dell’ editoria può uscire più forte e florida da questa fase di transizione. Rischi e opportunità Per sconfiggere i rischi e cogliere le opportunità abbiamo bisogno di un nuovo modello di business. Un modello capace di portare i lettori ad accettare forme di pagamento e l’ editoria a registrare profitti, invertendo la tendenza attuale. La forza di un quotidiano è la qualità dei suoi contenuti, la credibilità del proprio brand e la dimensione della comunità di lettori che aggrega. Servono dunque formule innovative per trasformare le piattaforme digitali in strumenti attraverso cui si recapitano ai lettori contenuti e servizi non più solo gratis ma anche in cambio di pagamenti. Sottoscrizioni e membership possono trasformare il quotidiano da una comunità intellettuale ad una comunità di servizi intellettuali, capace di offrire ai lettori ogni sorta di contenuti: dalle news ai grandi eventi, dalle informazioni utili alle docu-fiction. Su ogni piattaforma: in carta, sul web, sui social network, sull’ etere, con i video, sulla realtà aumentata e in ogni altra modalità che la tecnologia sarà capace di offrirci. Il percorso È un percorso nel quale non dobbiamo avere timore di ripensarci, reinventarci. Anche in maniera radicale, rivoluzionaria. Forse le nostre redazioni sono organizzate in maniera superata e dobbiamo rivedere il modo di lavorare. Forse gli articoli devono essere scritti adattandosi alle diverse piattaforme: oggi li misuriamo in battute e parole, forse dobbiamo iniziare a farlo considerando il fattore-tempo. Forse i giornali devono essere più compatti, con meno pagine e qualità tali da giustificare prezzi più alti. Forse la nostra forza sono i brand, chi siamo, chi aggreghiamo: l’ identità che ci viene da cosa scriviamo e chi ci legge. Iniziamo da qui la nostra discussione, aprendo il confronto in ogni direzione, convinti che ogni singola idea potrà fare la differenza. E discutere sul futuro collettivo nell’ era digitale all’ interno della nostra tipografia che stampa 100 milioni di copie di giornali l’ anno, circondati da gigantesche bobine provenienti da più Paesi Ue, ognuna delle quali contiene 1600 kg di carta riciclata, ovvero 480.000 pagine di giornale, significa essere convinti che abbiamo l’ esperienza e la determinazione per riuscirci. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
La democrazia ha bisogno di giornalismo di qualità
La Stampa
CARLO DE BENEDETTI
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Quando La Stampa pubblicò il suo primo numero nel 1867, l’ Italia come realtà politica e istituzionale aveva meno di sei anni. Eppure già nel 1848, quando Torino era ancora solo la capitale del Regno di Sardegna, lo Statuto Albertino aveva per primo affermato: «La stampa sarà libera». Sappiamo come quella norma sarà poi maltrattata nella prassi e infine radicalmente negata dal fascismo, ma da quel seme nasce l’ articolo 21 della Costituzione della Repubblica italiana. La libertà di espressione dei cittadini e la libertà di stampa sono le fondamenta delle moderne società democratiche. ‘In questi anni è andata confermandosi la mia convinzione che una società democratica non possa fare a meno dell’ informazione professionale. L’ illusione di una totale disintermediazione, in politica come nel campo dell’ informazione, mostra il limite di ogni ideologia millenaristica: la sparizione dei vecchi mediatori crea lo spazio per nuovi ri-mediatori che sfuggono alla verifica collettiva e surrogano i modi ma non le qualità di chi li ha preceduti. Gli Over-The-Top Nel nostro campo abbiamo visto questo fenomeno ampliarsi con travolgente forza. I nuovi, potentissimi ri-mediatori delle relazioni personali e informative dell’ umanità sono in breve diventati snodi ineludibili. Mi riferisco a Google, a Facebook, ad Apple e agli altri Over-The-Top (OTT): che, sia detto con chiarezza, io ammiro profondamente per quanto hanno immaginato e realizzato. Ma dei quali vedo potenzialità e rischi. I rischi dovuti alle dimensioni degli OTT allertano per ragioni molteplici. Il New York Times ha sottolineato come gli investimenti di Google nell’ Intelligenza Artificiale, dalla quale dipenderà il futuro sociale ed economico globale, «non sono bilanciati da nessuno, a cominciare da quelli dei settori pubblici». Che è come dire che è tra Mountain View e Cupertino, non a Washington o Pechino, che si progetta cosa saremo tra dieci o vent’ anni. Le grandi piattaforme digitali sembrano peraltro essersi ultimamente rese conto che l’ informazione prodotta professionalmente è una condizione essenziale per la sopravvivenza delle moderne democrazie. Per quanto ci riguarda, noi editori ci siamo resi conto che non dà risultati andare alla guerra contro Google e soci, che pure usano i nostri contenuti senza retribuirci. Hanno mezzi e risorse per respingerci. Tant’ è che siamo passati da una situazione di scontro a una di confronto e, in alcuni casi, di intesa basata sul riconoscimento di principi come quello del diritto d’ autore. Chiediamo di poter fare il nostro mestiere. Non siamo più soli Il discorso deve essere assai più ampio, non può essere solo una questione da risolvere con negoziati tra parti – peraltro con un’ enorme differenza di potere. Se siamo qui è perché non crediamo più di vivere una semplice fase evolutiva, ma sappiamo di essere parte di una rivoluzione dei rapporti umani e della produzione. E questa rivoluzione si traduce, per noi, nella scoperta di un fatto semplicissimo: non siamo più i soli a raccogliere, elaborare e fornire informazioni, a connettere persone e istituzioni, a lubrificare l’ economia e i commerci con la pubblicità. Gli editori, i giornalisti e gli altri professionisti che hanno fatto grande il nostro mondo sono oggi parte di un sistema più vasto. Un vero e proprio «ecosistema dell’ informazione», al quale appartengono associazioni, organizzazioni non-profit, imprese commerciali di altra natura, istituzioni pubbliche e private, singoli cittadini e le piattaforme digitali, le infrastrutture che abilitano ma anche fortemente condizionano la libertà di espressione della società del XXI secolo. Dobbiamo ridefinire qual è, in questo nuovo contesto, il ruolo degli imprenditori dell’ informazione, di chi organizza risorse umane e tecniche per creare e distribuire prodotti professionali. La domanda che mi pongo è semplice: come devono trasformarsi il giornalismo e l’ editoria in un sistema culturale in cui l’ atto di «pubblicare» è inteso come il semplice click sul tasto «invio»? La risposta può solo essere trovata nella creazione e nell’ offerta di prodotti informativi non fungibili, non replicabili. Basta «good enough» Tra le leggi che regolano l’ universo digitale c’ è quella del good enough : nell’ abbondanza di contenuti e servizi l’ utente spesso si accontenta di prodotti di qualità media, sufficiente per le necessità del momento. Basta guardare al fenomeno dei file musicali MP3, di qualità estremamente inferiore ad altri formati ma «buoni quanto basta» in un autobus, in auto e in cento altre condizioni di ascolto. Questa legge vale anche per l’ informazione digitalizzata. E non parlo dell’ informazione erronea o fuorviante delle fake news. Parlo dell’ enorme quantità di informazioni prodotta per le più svariate ragioni che è «buona quanto basta», con costo di accesso sostanzialmente pari a zero. Non c’ è modello di business che possa funzionare se il prodotto concorrente ha prezzo pari a zero. E’ evidente perciò che non possiamo pensare di restare sul mercato – in specie quello dell’ attenzione e della rilevanza sociale – producendo anche noi informazioni fungibili, «buone quanto basta». Dobbiamo concentrarci sulla informazione «che fa la differenza», l’ informazione che solo una struttura di eccezionale professionalità può fornire con continuità e peso istituzionale. Un’ informazione ad alto, altissimo contenuto di qualità e di lavoro. In definitiva, a distinguere l’ informazione del giornalismo professionale dall’ informazione non professionale è il metodo. Il cittadino deve sapere con certezza che ciò che trova in tutti i nostri canali di distribuzione è qualificato da un metodo fatto di verifiche, di trasparenza, di opinioni a confronto, di correzioni pubbliche. In un mondo di informazione «buona quanto basta» a costo zero, gli editori devono essere in grado riconquistare la fiducia dei cittadini. E’ questo il valore del nostro lavoro. Tutto ciò che va nel senso dell’ aumento della fiducia, va anche nel senso della sicurezza economica. La qualità e i dati Se concordiamo poi sul fatto che il ruolo della stampa è ancora più essenziale quando alcuni valori fondanti della società sono messi in pericolo da estremismi e populismi, allora ha senso lanciare da Torino la proposta della convocazione degli Stati generali dell’ Editoria d’ Informazione, aperti a ogni individuo, azienda, gruppo o categoria che voglia dare il proprio contributo. E ripartire. Ripartire dalla qualità, come detto, ma anche dai dati. L’ Economist ha pubblicato recentemente uno speciale che metteva in luce come nel mondo digitale i dati siano il vero nuovo mercato rilevante. Non potrei essere più d’ accordo. Tre anni fa, in occasione del congresso WAN-IFRA qui a Torino avevo chiesto alle autorità politiche e regolatorie di riconoscere che i vantaggi ingiusti e anticoncorrenziali dei quali godono i grandi player digitali «sono ora di forma nuova e devono dunque essere affrontati con concetti nuovi». Tra questi concetti avanzavo l’ idea che l’ antitrust potrebbe agire sul mercato dei dati vietando o limitando l’ uso di quelli raccolti in una linea di business a beneficio di un’ altra o al servizio dello stesso gruppo imprenditoriale. L’ Economist segue la stessa strada e propone che si cominci a immaginare la «condivisione» dei dati, o almeno di alcuni. Per esempio – aggiungo io – cominciando con quelli generati dalla interazione degli utenti con i contenuti degli editori che sono linkati, citati o fatti propri dalle piattaforme digitali. Noi abbiamo già a disposizione i dati che si producono sulle nostre piattaforme dalla interazione degli utenti con i contenuti che pubblichiamo. Ma sono prodotti da nostri contenuti anche i dati che si generano su piattaforme di terzi, come Facebook. Mi piacerebbe che questo fosse riconosciuto. In ogni caso i dati sono il centro delle attività e degli interessi di tutti i grandi attori mondiali dell’ economia digitale – lo sono tanto che il 30 maggio l’ Autorità Antitrust, l’ Autorità per le Garanzie e nelle Comunicazioni e l’ Autorità Garante per la protezione dei dati personali hanno avviato un’ indagine conoscitiva congiunta per individuare i problemi connessi all’ uso dei Big Data e definire un quadro di regole che promuovano e tutelino la protezione dei dati personali, la concorrenza dei mercati dell’ economia digitale, la tutela del consumatore e il pluralismo nell’ ecosistema digitale. Noi parteciperemo attivamente a questa iniziativa, poiché i dati sono diventati il centro delle attività anche per gli editori d’ informazione e per i giornalisti. Stati Generali dell’ Editoria Amo appassionatamente il mestiere di editore, ma è evidente che a me e ai colleghi della mia generazione difettano a volte i riferimenti culturali per affrontare i problemi che abbiamo di fronte e che ridefiniscono il nostro campo ben al di là della tradizionale industria verticalmente integrata quale era il settore dei giornali. Dobbiamo discutere, aprirci agli apporti di altre culture e competenze. Cominciamo dall’ Italia convocando gli Stati generali dell’ Editoria d’ Informazione, ai quali invitare i portatori di interesse come i rappresentanti delle categorie della filiera (editori, giornalisti, poligrafici, ecc.), aprendosi ai contributi di altri, OTT compresi. L’ Italia dovrebbe essere solo l’ inizio: mi piacerebbe che questa si trasformasse in una iniziativa che coinvolga l’ intera Europa. Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, vogliamo cercare il modo per rimanere remunerativi perché se muore l’ editoria d’ informazione, non muore solo un settore industriale: muore una funzione essenziale dei sistemi democratici. Grazie. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
Giovani, web, Trono di Spade «Ecco il futuro dei giornali»
Corriere della Sera
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Per celebrare i 150 anni de «La Stampa» si sono incontrati ieri a Torino i vertici di alcune delle testate più importanti del mondo (dal «New York Times» al «Financial Times»). Al centro del dibattito i giornali di domani, soprattutto nell’ era delle «fake news» e del ruolo sempre più rilevante di una piattaforma come il social network Facebook. DAL NOSTRO INVIATO TORINO Qual è il futuro dei giornali? La Stampa compie 150 anni e sceglie un compleanno pensoso. Invita a Torino molti protagonisti dell’ informazione internazionale, che portano preoccupazioni, offrono intuizioni e tentano qualche profezia. Ecco una personale selezione. «Il rapporto tra i nostri media, Facebook e Google? Loro sono i padroni di casa, noi siamo gli inquilini. Ci stanno alzando l’ affitto» (A.R.Sorkin, columnist, The New York Times ). «Ho comprato The Washington Post perché è un’ istituzione. È il giornale della capitale degli Usa! Ci tengo molto. Mi sento un missionario, ma non un filantropo. Rispetto l’ indipendenza della newsroom, ma deve mantenersi da sola. Se avessi detto ai giornalisti: “Non preoccupatevi di perdere soldi!”, avrei fatto il loro male» (Jeff Bezos, editore, Washington Post ). «Abbiamo il dovere civico di rendere le notizie interessanti» (Lydia Polgreen, direttrice, The Huffington Post ). «I giornali di carta resisteranno. Certo, sono destinati a diventare esotici. Un po’ come avere un cavallo. Non si tiene per il trasporto, ma perché è bellissimo. Arriverà qualcuno, vedrà un giornale di carta e dirà: “Wow! Posso provarlo?”» (Jeff Bezos, cit.). «Il weekend è un’ ottima opportunità: la gente ha tempo di leggere» (Lionel Barber, direttore, Financial Times ). «Smettiamo di guardare i millennials. Li conosciamo già. Guardiamo ai ragazzi tra i dieci e i tredici anni. Loro ci indicano dove andare» (Gary Liu, 33 anni, Ceo, South China Morning Post ). «Non puoi diventare grande se ti restringi. Devi investire e assumere». (Jeff Bezos, cit.). «Diciamo al FT di non guardare al breve termine. Per tre anni non abbiamo bisogno di dividendi. Guardino al lungo termine» (Tsuneo Kita, presidente di Nikkei, proprietaria del Financial Times ). «Puntiamo a 10 milioni di abbonati nel mondo. Ce la possiamo fare. Gente istruita, che sa l’ inglese, ce n’ è» (Mark Thompson, Ceo, The New York Times ). « The Economist è speciale, perché offre ogni settimana una visione del mondo. La platea potenziale? Ottanta milioni di “curiosi globali”» (John Elkann, editore, La Stampa e The Economist ). «Nei giornali dobbiamo ricreare ogni giorno “Il trono di Spade”: una storia così interessante che non possiamo restare fuori» (A.R.Sorkin, cit). «Facebook e Google non sono interessati alla news industry. Noi, invece, siamo ossessionati da loro. Preoccupiamoci delle nostre piattaforme, invece» (Jessica Lessin, fondatrice di The Information ). «Le redazioni saranno più piccole, agili, non formate necessariamente di soli giornalisti» (Lionel Barber, cit). «L’ indipendenza editoriale è fondamentale, ma giornalisti e aziende devono imparare a lavorare insieme». (Zanny Minton Beddoes, direttrice, The Economist ). «Parliamo spesso del business dei giornali come fosse solo un’ industria. Ma è soprattutto un business di talenti. Trovarli e coltivarli è la chiave di tutto» (A.R.Sorkin, cit). «Le chiedevo di Snapchat e mia figlia di 13 anni mi ha risposto: “Adesso non posso, mamma, sto leggendo The Economist “» (Zanny Minton Beddoes, cit).
Siglato l’ accordo Rai-France Tv «Forti insieme deboli se soli»
Corriere della Sera
Emilia Costantini
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«Siamo forti insieme, deboli se soli». Il dg di France Televisions Xavier Couture sintetizza così l’ accordo siglato ieri mattina con la Rai, alla presenza della presidente Monica Maggioni e del dg Mario Orfeo: un contratto quadro di coproduzione che prevede annualmente una serie di progetti, per arricchire con contenuti di matrice europea la programmazione nazionale e la distribuzione internazionale. «Un’ alleanza strategica nell’ ottica di servizio pubblico – precisa Orfeo – una collaborazione sistematica in un momento in cui l’ Europa è attraversata da venti di tempesta, che mettono in pericolo il mondo aperto cui siamo abituati». È già in cantiere un primo ambizioso progetto che riguarda la storia, ma non recente. Anticipa Couture: «È un documentario che attiene più all’ Italia che alla Francia: la prima pietra di un edificio che spero diventi grande e importante. D’ altronde i nostri due Paesi sono molto prossimi sul piano culturale, è fondamentale unirci. Siamo colonizzati da altri Paesi molto forti: i nostri giovani conoscono più le strade di Los Angeles che quelle di Roma o Parigi e non va bene. Unire le forze significa avere più soldi per diventare protagonisti, ma non è solo una questione di marketing: l’ Europa è la nostra importante famiglia». Aggiunge Mario Orfeo, riferendosi alle recenti elezioni d’ Oltralpe: «Dalla Francia arrivano segnali che ci fanno ben sperare in un’ inversione di rotta».
Facci, l’ Ordine e il ruolo dei giornalisti
Corriere della Sera
Pierluigi Battista
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Caro direttore, nella sua rubrica settimanale Par-ticelle elementari , il col-lega Pierluigi Battista critica senza appello l’ operato del Consiglio di disciplina del-l’ Ordine dei giornalisti della Lombardia, nei confronti di Filippo Facci, per un articolo sul terrorismo islamico. E rin-cara la dose lanciando accuse allo stesso Ordine. Ci sono al-cune osservazioni sull’ utilità o meno dell’ Ordine, che trovo (almeno in parte) condivisi-bili. Per fortuna pochi mesi fa è arrivata una legge (la 198, fortemente sostenuta dai Con-sigli regionali) che ridimen-siona numeri e competenze del Consiglio nazionale. L’ al-ternativa, in mancanza di un segnale di cambiamento, sa-rebbe stata, inevitabilmente, la chiusura dell’ Ordine. Ac-compagnata da un coro di consensi di chi vuole lasciare campo libero a un’ informa-zione senza regole, che ali-menta blog e social, assecon-dando senza vincoli una schiera di editori avventurieri e tutti i desideri degli uffici marketing. Al di là di questi dettagli, anch’ io, come Battis-ta, non vorrei entrare nel me-rito della vicenda che ha visto coinvolto Facci (anche se in-vocare il diritto all’ odio credo sia contro la Costituzione). E mi piace ricordare un inse-gnamento: «Il giornalista deve saper respingere la tentazione di fomentare lo scontro, con un linguaggio che soffia sul fuoco delle divisioni, piutto-sto favorisca la cultura dell’ in-contro». Parole che non ven-gono né da destra né da sinis-tra, ma da papa Francesco. Non riesco a capire quale ine-sattezza avrei compiuto. Con-tinuo a ritenere moralmente illegittima la funzione censo-ria di un organismo nato, appunto, in epoca fascista.
Il futuro dei giornali
La Repubblica
RICCARDO STAGLIANÒ
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TORINO Dalla solidità delle bobine tipografiche, una tonnellata e mezzo l’ una a incorniciare il palco, all’ impalpabilità dei tweet che commentano l’ evento. L’ alfa e l’ omega del giornalismo, così come l’ abbiamo conosciuto sino a oggi. Ma nella storica tipografia della Stampa, in occasione della conclusione dei festeggiamenti per il suo centocinquantesimo anniversario, ci si interroga su quello che succederà domani. The future of newspapers è il titolo della conferenza internazionale cui partecipa il meglio dell’ editoria mondiale. Quattro panel, una ventina di relatori, quattrocento persone in sala. Con le parole finali affidate a un confronto tra John Elkann, editore della Stampa e Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, prima della conclusione di Carlo De Benedetti, presidente del neonato Gedi Gruppo Editoriale che mette insieme Repubblica e il quotidiano torinese. L’ interrogativo principale su cui si esercitano direttori, amministratori delegati ed editori è lo stesso che angustia l’ industria dell’ informazione dalla nascita del web: dove trovare i soldi per il giornalismo di qualità? Con alcuni corollari più recenti, che hanno che fare con lo strapotere pubblicitario dei social network. O, per dirla col direttore padrone di casa Maurizio Molinari, «è giusto che un utente significhi 25 dollari di pubblicità all’ anno per Google e solo 25 centesimi per noi?», quando magari sulla piattaforma legge proprio i nostri articoli. C’ è chi però, dal mondo delle istituzioni, resta ottimista. Come il premier Paolo Gentiloni che giunge in serata, per partecipare alla cena di gala a Palazzo Reale: «Il futuro del giornalismo dipende dal fattore umano – sostiene, in un breve discorso – dobbiamo evitare interpretazioni catastrofiche». Ma torniamo al convegno. Il primo giro di opinioni è tra direttori. John Micklethwait di Bloomberg News avverte che hanno già automatizzato le trimestrali delle aziende, affidate all’ intelligenza artificiale. «Ma nessun robot sostituirà mai commentatori come Martin Wolf», ribatte Lionel Barber del Financial Times, citando una firma pregiata della sua squadra. Quello che trova incomprensibile, e masochistico, piuttosto è scoprire che un suo giornalista fa uno scoop prima su Twitter che sul giornale. Quanto all’ ultima piaga, le fake news, una bella risposta baldanzosa viene da Bobby Ghosh, dell’ Hindustan Times: «Sono la cosa migliore che poteva capitarci. Più aumentano, più la gente torna da noi». La sua ricetta per il successo è semplice: «Puntare sulle notizie iperlocali e seguire le tre C che interessano alla gente: crimine, classe (scolastica) e commuting, la vita dei pendolari». Le soddisfazioni maggiori, scommette Barber, verranno dalle edizioni del fine settimana, quando la gente ha finalmente tempo per leggere. Di denaro e di dove trovarlo parlano gli amministratori delegati, moderati dalla direttrice dell’ Economist Zanny Minton Beddoes. E qui la distanza tra America e Europa è ancora notevole. Il numero di abbonati digitali del New York Times, spiega l’ ad Mark Thompson, è ormai il doppio di quelli cartacei (due contro un milione), con l’ ambizione «assolutamente ragionevole di arrivare a 10 milioni complessivi » nel futuro prossimo. Futuro cui il Times si sta preparando mettendo in conto che la carta possa anche andare a zero. Mentre a Le Monde, dice Louis Dreyfus, «l’ 80 per cento delle entrate arriva ancora dal cartaceo». In ogni caso bisogna guardare avanti, anche oltre i venti-trentenni, invita a fare Gary Liu, del South China Morning Post: «Dopo i millennials ci sono i ragazzi di dodici anni che vanno su Snapchat. Quella è la generazione che dobbiamo vincere». La Beddoes, pur non pienamente convinta, si è adeguata e ora quando dice alla figlia di lasciar stare il telefono la ragazzina gli risponde a tono: «Sto leggendo l’ Economist». Gli elefanti che riempiono questa sala dai soffitti immensi restano Facebook e Google. Le domande degli studenti di giornalismo cui dà voce il direttore di Repubblica Mario Calabresi lo fanno capire bene. La diplomazia che ha retto sin qui si incrina. Inizia Andrew Ross Sorkin del New York Times: «Non sono sicuro che noi e loro siamo amici. Non mi sembra una relazione amicale quella in cui uno ha le mani intorno al collo dell’ altro». I social network sarebbero i padroni di casa, i giornali gli inquilini. »E allora traslochiamo!» propone Jessica Lessin, fondatrice del sito The Information che si fa pagare 400 dollari dagli abbonati per avere in cambio due articoli al giorno di altissimo livello sul mondo della tecnologia. Anche Robert Thompson, di NewsCorp, non la manda a dire: «Se qualcuno ruba una merce e tu non lo denunci diventi complice». La merce rubata, in questo caso, sono gli articoli ripostati sulle piattaforme. Tanto più, prosegue, che i giornali mantengono un grosso vantaggio rispetto ai social: «Online ti dividi tra tanti schermi. Con un foglio in mano al massimo ti distrai con un caffè. Questa qualità di attenzione va valorizzata». Solo Tsenuo Kita, presidente di Nikkei, invita alla calma zen: «Né amici né nemici, ma indispensabili ». Il messaggio che Calabresi affida alla to-do list finale è questo: «Dobbiamo concentrarci su contenuti originali, necessari e di sostanza. Meno deskisti ma più cronisti e molta più rilevanza». La chiusura spetta al presidente del Gruppo Gedi Carlo De Benedetti. L’ ingegnere denuncia “l’ illusione di una totale disintermediazione, in politica come nell’ informazione” e segnala, con un neologismo efficace, i rischi posti da “nuovi ri-mediatori che sfuggono alla verifica collettiva” senza avere né la qualità né il metodo di chi li ha preceduti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO: ©ALESSANDRO DI MARCO/ANSA.
Il manifesto per il futuro
La Repubblica
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EFFICACIA Quando scrivete, siate efficaci, scrivete cose esatte e chiedete alle persone di pagare Loro sono disposti, ma dovete chiederlo JEFF BEZOS EDITORE WASHINGTON POST LEALTÀ Solo il giornalismo di cui ci si può fidare sarà in grado di trovare un crescente numero di lettori leali e disposti a pagare JOHN ELKANN PRESIDENTE ITALIANA EDITRICE RILEVANZA Dobbiamo concentrarci su contenuti originali: meno deskisti ma più cronisti e molta maggiore rilevanza MARIO CALABRESI DIRETTORE LA REPUBBLICA COMUNITÀ Bisogna trasformare i giornali da comunità intellettuale a comunità di servizi intellettuali. Usando tutte le piattaforme MAURIZIO MOLINARI DIRETTORE LA STAMPA CONTENUTI Concentriamoci sulla rilevanza dei contenuti e sulla fiducia. Non stare sulla difensiva, la sostenibilità verrà di conseguenza MASSIMO RUSSO DIRETTORE DIV.DIGITALE GEDI NOVITÀ Sfruttare le novità tecnologiche per distribuire giornalismo di qualità in formati che vanno incontro alle necessità del lettore TSUNEO KITA PRESIDENTE NIKKEI.
Elkann – Bezos “Serve la fiducia dei nostri lettori”
La Repubblica
ALESSIO SGHERZA
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TORINO «Bisogna scrivere bene, scrivere la verità e chiedere ai lettori di pagare. Loro sanno che il buon giornalismo non è gratis». La ricetta per salvare i giornali Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario da quattro anni del Washington Post, la sintetizza in due frasi, al termine dell’ incontro a Torino con John Elkann, editore della Stampa, in occasione della conferenza sul futuro dell’ editoria organizzata per i 150 anni del quotidiano torinese. Ricetta che trova d’ accordo il presidente di Exor: «La chiave è trovare una platea crescente di lettori leali e pronti a pagare». Elkann e Bezos sono saliti sul palco per un faccia a faccia moderato da Massimo Russo, direttore della Divisione digitale del gruppo editoriale Gedi. Si sono stretti la mano, sorridenti, e hanno risposto alle domande sui rischi del giornalismo oggi, sulle sfide economiche da affrontare ma anche sulle prospettive future. Ed entrambi si sono detti “ottimisti”. «Nel 2013 – ripercorre Bezos – comprare il Washington Post non era nei miei progetti. Dicevo: “Non so nulla di giornali”. Ma era quello di cui avevano bisogno. È una sfida molto eccitante. La prima cosa che abbiamo fatto è stata impostare il Post come Amazon, mettendo al centro l’ utente, che per il giornale è il lettore. No, non la pubblicità. Semplicemente perché i pubblicitari vogliono più lettori, quindi mettendoli al centro si va incontro alle esigenze della pubblicità». Ma un giornale deve essere profittevole, altrimenti non può reggere nella sua indipendenza. Un punto su cui Elkann e Bezos sono pienamente d’ accordo. «La soluzione – dice Elkann – non è mai riversare su un’ azienda soldi a fondo perduto. Sono certo che nessuno è contento di lavorare in un giornale in perdita». Annuisce il padre di Amazon: «Io non ho obiettivi filantropici. La cosa peggiore che avrei potuto fare sarebbe stata dire “non vi preoccupate dei ricavi”. Io voglio un giornale in salute e indipendente». E sottolinea il suo mantra, che ripete almeno tre volte: «Non si può tagliare per raggiungere profitti», è un modo perdente di procedere. Perché la qualità è nell’ altra direzione, e solo con il giornalismo di qualità si cresce. Così Bezos, approdato alla guida del giornale, ha assunto più di cento reporter e molti sviluppatori: «L’ obiettivo del Post è raccontare il governo degli Stati Uniti e fare giornalismo d’ inchiesta: solo in questo modo puoi convincere la tua audience potenziale ad abbonarsi ». Chiosa Elkann: «Solo un giornale che è in attivo può permettersi di essere indipendente ». Ma le aziende editoriali si trovano in uno scenario difficile, con la torta pubblicitaria, spostatasi in maniera rilevante verso tech company come Google e Facebook, che in Italia controllano i due terzi del mercato. Denaro che una volta andava agli editori. Elkann spiega: «Con la fusione tra Stampa, Secolo XIX e i giornali del Gruppo L’ Espresso riusciremo a ridurre i costi, sfruttando gli elementi comuni delle molte testate che continueranno ad avere la loro riconoscibilità. Speriamo entro la prossima settimana di concludere l’ operazione». Il problema della fiducia nei media e quello dei ricavi sono connessi: «I giornali sono profittevoli se hanno la fiducia del lettore», se il lettore è disposto a pagare, se i conti sono a posto. «Nel momento in cui inizi a cercare soluzioni per un modello economico che non regge, quando inizi a fare compromessi con l’ indipendenza del tuo giornalismo, se usi il native advertising, stai rovinando il tuo rapporto con chi ti legge». E non può bastare la pubblicità per fare giornalismo “originale” e “d’ inchiesta”. Spiega Bezos: «Per tenere in piedi una testata solo con la pubblicità dovresti tagliare sui contenuti di prima mano, riutilizzare il materiale di altre testate, ridurre i giornalisti. Per il tipo di giornalismo che voglio al Post devi investire e devi convincere le persone a pagare. E ho le prove che posso essere ottimista: i nostri abbonamenti stanno crescendo velocemente ». «Io credo – riprende la parola Elkann – che per i giornalisti oggi sia fondamentale comprendere il problema economico che l’ industria affronta. Fino ad oggi si è pensato che Chiesa e Stato dovessero essere separati nettamente, che i giornalisti non dovessero interessarsi della gestione economica. Non è più così: capire è fondamentale anche per difendere la fiducia che i lettori ripongono nei reporter ». La domanda sul futuro dei giornali arriva poco prima della fine dell’ incontro. Nel 2025 il Washington Post avrà ancora una versione cartacea? «Credo che la carta non scomparirà – dice Bezos – ma diventerà un oggetto di lusso, anche se non in tempi così brevi. Sarà come comprare un cavallo: oggi nessuno compra un cavallo come mezzo di trasporto, ma perché è bello. E gli amici quando lo vedranno potranno dire “wow”». ” ELKANN “Solo una testata che è in attivo può permettersi di essere davvero libera” ” ” ELKANN “Per i giornalisti deve diventare fondamentale interessarsi alla gestione economica” ” ” BEZOS “Ho impostato il Washington Post come Amazon mettendo al centro l’ utente” ” ” BEZOS “La carta diventerà un oggetto di lusso. Sarà come comprare un cavallo come mezzo di trasporto” ” DIALOGO John Elkann ( a sinistra ) e Jeff Bezos.
Ora gli Stati generali dell’ editoria Sfidiamo Google sui dati
La Repubblica
CARLO DE BENEDETTI
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In questi anni è andata confermandosi la mia convinzione che una società democratica non possa fare a meno dell’ informazione professionale. L’ illusione di una totale disintermediazione, in politica come nel campo dell’ informazione, mostra il limite di ogni ideologia millenaristica: la sparizione dei vecchi mediatori crea lo spazio per nuovi ri-mediatori che sfuggono alla verifica collettiva. Nel nostro campo abbiamo visto questo fenomeno ampliarsi con travolgente forza. I nuovi, potentissimi ri-mediatori delle relazioni personali e informative dell’ umanità sono in breve diventati snodi ineludibili. Mi riferisco a Google, a Facebook, ad Apple e agli altri Over-The-Top: che, sia detto con chiarezza, io ammiro profondamente per quanto hanno immaginato e realizzato. Ma dei quali vedo potenzialità e rischi. Il New York Times ha sottolineato come gli investimenti di Google nell’ Intelligenza Artificiale, dalla quale dipenderà il futuro sociale ed economico globale, «non sono bilanciati da nessuno, a cominciare da quelli dei settori pubblici». È tra Mountain View e Cupertino, non a Washington o Pechino, che si progetta cosa saremo tra dieci o vent’ anni. Per quanto ci riguarda, noi editori ci siamo resi conto che non dà risultati andare alla guerra contro Google e soci, che pure usano i nostri contenuti senza retribuirci. Hanno mezzi e risorse per respingerci. Tant’ è che siamo passati da una situazione di scontro a una di confronto e, in alcuni casi, di intesa basata sul riconoscimento di principi come il diritto d’ autore. Il discorso deve essere assai più ampio, non può essere solo una questione da risolvere con negoziati tra parti peraltro con un’ enorme differenza di potere. La domanda che mi pongo è semplice: come devono trasformarsi il giornalismo e l’ editoria in un sistema culturale nel quale l’ atto di “pubblicare” è inteso come il semplice click sul tasto “invio”? La risposta può solo essere trovata nella creazione e nell’ offerta di prodotti informativi non fungibili, non replicabili. Tra le leggi che regolano l’ universo digitale c’ è quella del good enough: nell’ abbondanza di contenuti e servizi l’ utente spesso si accontenta di prodotti di qualità media. Basta guardare al fenomeno dei file musicali Mp3, di qualità inferiore ad altri formati ma “buoni quanto basta” in un autobus, in auto e in cento altre condizioni di ascolto. Questa legge vale anche per l’ informazione digitalizzata. E non parlo dell’ informazione erronea o fuorviante delle fake news. Parlo dell’ enorme quantità di informazioni prodotta per le più svariate ragioni che è “buona quanto basta”, con costo di accesso sostanzialmente pari a zero. Non c’ è modello di business che possa funzionare se il prodotto concorrente ha prezzo pari a zero. È evidente perciò che non possiamo pensare di restare sul mercato producendo anche noi informazioni “buone quanto basta”. Dobbiamo concentrarci sulla informazione “che fa la differenza”, l’ informazione che solo una struttura di eccezionale professionalità può fornire con continuità e peso istituzionale. Un’ informazione ad alto, altissimo contenuto di qualità e di lavoro. Ripartire dalla qualità, ma anche dai dati. L’ Economist ha pubblicato uno speciale che metteva in luce come nel mondo digitale i dati siano il vero nuovo mercato rilevante. Non potrei essere più d’ accordo. Noi abbiamo già a disposizione i dati che si producono sulle nostre piattaforme dalla interazione degli utenti con i contenuti che pubblichiamo. Ma sono prodotti da nostri contenuti anche i dati che si generano su piattaforme di terzi, come Facebook. Mi piacerebbe che questo fosse riconosciuto. In ogni caso i dati sono il centro delle attività e degli interessi dell’ economia digitale – lo sono tanto che il 30 maggio l’ Autorità Antitrust, l’ Autorità per le Garanzie e nelle Comunicazioni e l’ Autorità Garante per la protezione dei dati personali hanno avviato un’ indagine conoscitiva congiunta per individuare i problemi connessi all’ uso dei Big Data. Noi parteciperemo attivamente a questa iniziativa. Cominciamo dall’ Italia convocando gli Stati generali dell’ Editoria d’ Informazione, ai quali invitare i portatori di interesse come i rappresentanti delle categorie della filiera (editori, giornalisti, poligrafici, ecc.), aprendosi ai contributi di altri, OTT (Over-The-Top) compresi. L’ Italia dovrebbe essere solo l’ inizio: mi piacerebbe che questa si trasformasse in una iniziativa che coinvolga l’ intera Europa. Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, vogliamo cercare il modo per rimanere remunerativi perché se muore l’ editoria d’ informazione, non muore solo un settore industriale obsoleto: muore una funzione essenziale dei sistemi democratici. ” IL PROGETTO Dall’ Italia all’ Europa confronto con tutti gli operatori del settore ” FOTO: ©A. CONTALDO.
Ai tempi di Facebook il buon giornalismo non può essere gratis
La Repubblica
RICCARDO STAGLIANÒ
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TORINO DALLA solidità delle bobine tipografiche all’ impalpabilità dei tweet che commentano l’ evento. L’ alfa e l’ omega del giornalismo, così come l’ abbiamo conosciuto sino a oggi. Ma nella storica tipografia della Stampa, in occasione della conclusione dei festeggiamenti per il suo centocinquantesimo anniversario, ci si interroga su quello che succederà domani. The future of newspapers è il titolo della conferenza internazionale cui partecipa il meglio dell’ editoria mondiale. ALLE PAGINE 32 E 33 Il convegno a Torino.
«La carta stampata vivrà» Big dell’ editoria a confronto
L’Eco di Bergamo
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La carta stampata non morirà, ma il giornale del futuro, incalzato da internet e dai social network, sarà molto diverso: avrà un formato più piccolo e accattivante, una grafica nuova, avrà più rilievo durante i week end e sarà iperlocale. Le ricette sono tante, ma i big dell’ editoria mondiale – direttori, amministratori delegati ed editori, convocati a Torino da John Elkann, a conclusione dei festeggiamenti per i 150 anni della Stampa – concordano: nessun funerale da celebrare. La stessa convinzione del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che invita a «evitare le interpretazioni catastrofiche» sul futuro del settore. E, ricordando l’ importanza di non sprecare la verità perché «è la cosa più di valore che abbiamo», sottolinea l’ importanza del «fattore umano». Forse, come dice Jeff Bezos, fondatore di Amazon ed editore di The Washington Post, «un giorno il giornale diventerà un prodotto di lusso un po’ esotico, come possedere un cavallo, qualcosa che non hanno tutti». La qualità sarà sicuramente un punto di forza e, per ripartire da qui, Carlo De Benedetti, presidente di Gedi, propone la convocazione degli «Stati Generali dell’ editoria aperti a ogni categoria del settore, editori, giornalisti e poligrafici. Un’ iniziativa che dall’ Italia potrebbe coinvolgere tutta l’ Europa». All’ incontro nella storica tipografica della Stampa anche l’ amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne. «Il giornalismo deve trovare un numero crescente di lettori fedeli e paganti. Se si otterrà questo il futuro sarà roseo», sottolinea Elkann che annuncia per la prossima settimana il closing per il gruppo Gedi, nato dalla fusione tra Itedi e l’ Espresso. Secondo Elkann, nei prossimi 12-18 mesi si aprirà una finestra di opportunità per trovare un nuovo rapporto con i big tecnologici come Google e Facebook «per individuare un metodo di pagamento che funzioni». L’ editoria oggi «lotta per sopravvivere», ma dal cambiamento «può emergere più forte e ricca che mai. Non dobbiamo avere paura di reinventarci anche con idee rivoluzionarie», sottolinea il direttore della Stampa, Maurizio Molinari. Per Lionel Barber, numero uno del Financial Times, «i robot non soppianteranno i giornalisti, ma i giornalisti dovranno imparare a utilizzare meglio le tecnologie».
«La carta stampata non morirà, si trasformerà»
Gazzetta del Sud
AMALIA ANGOTTI
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Amalia Angotti TORINO La carta stampata non morirà, ma il giornale del futuro, incalzato da internet e dai social network, sarà molto diverso: avrà un formato più piccolo e accattivante, una grafica nuova, avrà più rilievo durante i week end e sarà iperlocale. Le ricette sono tante, ma i big dell’ editoria mondiale – direttori, amministratori delegati ed editori, convocati a Torino da John Elkann, a conclusione dei festeggiamenti per i 150 anni della Stampa – concordano: nessun funerale da celebrare. La stessa convinzione del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che invita ad «evitare le interpretazioni catastrofiche» sul futuro del settore. E, ricordando l’ importanza di non sprecare la verità perché «è la cosa più di valore che abbiamo», sottolinea l’ importanza del «fattore umano». Forse, come dice Jeff Bezos, fondatore di Amazon ed editore di The Washington Post, «un giorno il giornale diventerà un prodotto di lusso un po’ esotico, come possedere un cavallo, qualcosa che non hanno tutti». La qualità sarà sicuramente un punto di forza e, per ripartire da qui, Carlo De Benedetti, presidente di Gedi, propone la convocazione degli «Stati Generali dell’ editoria aperti a ogni categoria del settore, editori, giornalisti e poligrafici. Un’ iniziativa che dall’ Italia potrebbe coinvolgere tutta l’ Europa». All’ incontro anche l’ amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne, e tra gli altri il direttore di Repubblica Mario Calabresi, dell’ Ansa Luigi Contu, dell’ Huffington Post Italia Lucia Annunziata. «Il giornalismo deve trovare un numero crescente di lettori fedeli e paganti. Se si otterrà questo il futuro sarà roseo», sottolinea Elkann che annuncia per la prossima settimana il closing per il gruppo Gedi, nato dalla fusione tra Itedi e l’ Espresso. Secondo Elkann, nei prossimi 12-18 mesi si aprirà una finestra di opportunità per trovare un nuovo rapporto con i big tecnologici come Google e Facebook «per individuare un metodo di pagamento che funzioni». L’ editoria oggi «lotta per sopravvivere», ma dal cambiamento «può emergere più forte e ricca che mai. Non dobbiamo avere paura di reinventarci anche con idee rivoluzionarie», sottolinea il direttore della Stampa, Maurizio Molinari. Per Lionel Barber, numero uno del Financial Times, «i robot non soppianteranno i giornalisti, ma i giornalisti dovranno imparare a utilizzare meglio le tecnologie». Fondamentale è investire nei brand perché conta molto «la voce del giornale, quindi il ruolo dei commentatori» e la credibilità («ai miei giornalisti dico che servono sempre due fonti indipendenti anche se chiama la Casa Bianca», dice). Si parla di social network: per il direttore del giornale indiano Hindustan Times, Bobby Ghosh, sono «un male necessario», mentre Barber osserva «Facebook ha detto che hanno assunto centinaia di fact checker che verifichino le notizie, una volta li chiamavamo giornalisti». E c’ è la sfida che nasce dalle fake news. «Le notizie false son la cosa migliore che potesse capitarci: si cerca di tornare a fonti più affidabili, si comincia a selezionare di più e per chi diffonde notizie verificate». «La cura per le notizie false sono le notizie vere», afferma Lydia Polgreen, direttrice del The Huffington Post, mentre per il direttore del brasiliano O Globo, Ascanio Seleme, «il buon giornalismo richiede investimenti, giornalisti di qualità e talentuosi».
Coni grandi gruppi editoriali si può scommettere sul futuro
Il Secolo XIX
BENIAMINO PAGLIARO
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TORINO. Fare un giornale appartiene al tempo stesso a due categorie della vita: è un mestiere ma è anche una passione. Un esercizio rigoroso in costante ricerca di equilibrio tra realtà e progetto, tra cronaca e ambizione, per la comunità, la città, il Paese o il mondo. Fare l’ editore di un quotidiano, sembra un paradosso, richiede la cultura del lungo periodo, e la capacità di anticipare i tempi, soprattutto in un mondo veloce che ha reso tutti (e nessuno) proprietari del sacro potere della stampa. Le storie di John Elkann e Jeff Bezos sono diverse, ma entrambi gli editori parlano di «responsabilità» quale motivazione principe, quando Massimo Russo li interroga sul senso della sfida. Nel 2017 disordinato nemmeno i fatti sono più quelli di una volta. La tecnologia provoca cambiamenti vertiginosi: Internet riduce la geografia e avvicina i nodi, l’ informazione è un fiume in cui siamo immersi, sollecitati dalle notifiche sui nostri telefoni. Così i proprietari dei fatti non sono più gli editori. Forse non lo sono mai stati, si può obiettare, ma fino a ieri chi stampava aveva la tecnologia in grado di trasformare un fatto in notizia. C’ era una volta e non c’ è più. La cavalcata dei gruppi tecnologici ha conquistato l’ attenzione degli utenti, e con questa l’ 85% del mercato pubblicitario digitale. La concorrenza non è solo in edicola ma nel tempo, sempre scarso, delle nostre giornate, mentre l’ informazione è sempre più abbondante perché il costo di trasmissione si avvicina allo zero. Il sentiero per investire sul giornalismo appare stretto ma Elkann e Bezos non sono in quest’ industria per filantro pia, bensì perché credono l’ editoria possa essere sostenibile. «La Stampa è sempre stato un giornale libero perché è stato sostenibile economicamente -dice Elkann-,e ne siamo fieri. È l’ unico modo per essere indipendenti». «Il Washington Post non è un’ opera filantropica- aggiunge Bezos-, un giornale sano deve essere sostenibile ed è un obiettivo raggiungibile. La cosa peggiore che avrei potuto fare per il giornale è dire: “Non preoccupatevi dei ricavi”». Il mercato impone una riflessione: la diffusione dei giornali cala, in Italia si è dimezzata negli ultimi vent’ anni. Gli ospiti arrivati a Torino per disegnare «The Future of Newspapers» sono però, e non è un caso, punte di eccellenza. Lo storico settimanale The Economist, di cui Exor è il primo azionista, attua un ambizioso piano per raddoppiare gli abbonati. Il Financial Times cresce da anni in doppia cifra. Il New York Times ha superato quota un milione e seicentomila negli abbonamenti digitali. Il Washington Post di Bezos ha sorpassato i concorrenti per il traffico, riportando i conti in attivo nel 2016. Non sono solo storie di speranza: c’ è fatica, coraggio, lavoro ein vestimenti. Le parole chiave sono due: scalabilità, ovvero la capacità di ampliare il bacino di utenti, perfino superando i confini linguistici, e tecnologia, il motore fondamentale per conoscere i let tori e raggiungere la scalabilità. L’ idea di dare vita a un nuovo gruppo editoriale, leader nel mercato italiano e tra i primi in Europa, come sarà Gedi, nasce per rispondere a questa doppia sfida. La parola da tenere a mente è consolidamento. «Il Gruppo avrà diverse testate, ma beneficerà dalle economie di scala», afferma Elkann. Solo così, aggiunge, sarà possibile avere la massa critica per affrontare nuovi investimenti e generare nuove linee di ricavi nel futuro, convincendo gli utenti a pagare per l’ informazione. Il contesto non è semplice, ma Elkann rivendica però «un certo ottimismo della ragione per l’ informazione affidabile e di qualità». Bezos condivide la sfida. Non è difficile immaginare che il fondatore di Amazon sia già impegnato nella crescita del colosso dell’ ecommerce. Ma da quando ha comprato il Washington Post, tiene una conference call sulla strategia del giornale (non sui contenuti) ogni due settimane. Dal 2013 sono arrivati investimenti, nuovi giornalisti, un nuovo Chief Technology Officer. I giornali diventeranno aziende tecnologiche? La risposta è che lo dovrebbero essere già. Il successo di Bezos parte direttamente dallo studio ossessivo del cliente: «Un giornale e un ecommerce sono diversi – spiega il fondatore di Amazon – ma l’ approccio è lo stesso, e deve avere al centro il lettore cliente. La pubblicità da sola non funziona: i dati ci dicono che gli abbonamenti crescono grazie alle inchieste della nostra redazione». Ora questo metodo può aiutare anche il giornalismo? Molto dipenderà dalla capacità di conoscere, comprendere, dialogare e trattare con i proprietari della valuta contemporanea: l’ attenzione. Google risponde alle nostre ricerche, Facebook intercetta le nostre preferenze e filtra il mondo in un NewsFeed. Elkann ha già la fama di maestro della trattativa ed è uno stimato dealmaker in settori pesanti come l’ industria dell’ auto, dove ha portato Fca al rilancio e a lavorare sull’ auto driverless con Google. Da Torino l’ editore de La Stampa sposta su un altro livello la conversazione, necessaria, con le over the top: le piattaforme, spiega, dovrebbero aiutare gli editori a facilitare la conversione degli utenti da casuali ad abbonati, a combattere la pirateria e condividere i dati sul consumo di informazione. Il cantiere è aperto. L’ obiettivo è eliminare la frizione, riorganizzare la complessità del mondo frammentato. Nella redazione di un quotidiano la sfida di ogni sera si sublima nel tentativo di racchiudere in una prima pagina il flusso di una giornata. Nell’ editoria ci vuole la sapienza di un disegno industriale per garantire la sostenibilità del modello. Ma quando l’ ostacolo della piattaforma sarà rimosso, quando la transizione da un’ epoca all’ altra sarà completata e studiata nei libri di scuola, in redazione il focus si sposterà di nuovo sui contenuti. Potremo tornare a occuparci dei fatti, pronti al giudizio più prezioso. Quello dei nostri lettori. CREATIVITÀ. Il giornale cartaceo in futuro cambierà: secondo i direttori delle più prestigiose testate del mondo, riuniti a Torino, dovrà essere facile da leggere, originale e con un ottimo design MATTEO MONTALDO.
I big dell’ editoria mondiale a Torino per chiudere i festeggiamenti dei 150 anni della ‘Stampa’. La tecnologia non sostituirà i giornalisti, ma serve investire più che tagliare. Google e Facebook devono assumersi la responsabilità di ciò che …
Prima Comunicazione
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I big dell’ editoria mondiale sono a Torino per discutere sul futuro dei giornali. A fare gli onori di casa è John Elkann che ha invitato direttori, editori ma anche amministratori delegati di gruppi editoriali al grande evento che chiude i festeggiamenti per i 150 anni della Stampa. In tutto 400 le persone riunite in un luogo simbolo per il quotidiano, la sala delle Bobine di via Giordano Bruno dove si trova la tipografia della ‘Stampa’. Social, fakenews, futuro della carta stampata, ma anche rapporti con gli advertiser al centro del primo panel #futureofnewspapers pic.twitter.com/Hno9S47zHE – Primaonline.it (@Primaonline) June 21, 2017 In platea, tra gli altri, Luigi Contu, direttore dell’ Ansa, Lucia Annunziata, direttore ‘Huffington Post’ Italia, Francesca Guerrera del ‘Wall Street Journal’. L’ evento si conclude a Palazzo Reale con una cena di gala nel salone degli Svizzeri, alla quale partecipa il premier Paolo Gentiloni. All’ incontro ‘The future of the newspapers’ partecipano direttori di quotidiani anche cartacei – come Mario Calabresi (‘la Repubblica’) e Maurizio Molinari (‘La Stampa’) – e di giornali online come Lydia Polgreen (‘Huffington Post’), in arrivo dall’ Europa ma anche da America e Asia. Ci saranno Tsuneo Kita, presidente del gruppo editoriale giapponese Nikkei che ha rilevato il ‘Financial Times’, Ascanio Seleme, editore del quotidiano brasiliano ‘O’ Globo’ e Bobby Ghosh, editore del giornale indiano ‘Hindustan Times’. Momento clou il confronto finale tra Elkann e Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon ma anche editore del Washington Post. Conclude i lavori Carlo De Benedetti, presidente di Gedi. Da sinistra: Mark Thompson, Robert Allbritton, Louis Dreyfus e Gary Liu “La tecnologia non sostituirà i giornalisti, ma i giornalisti devono imparare a usarla meglio”, ha detto Bobby Ghosh, editore del ‘Hindustan Times’. E per il futuro, secondo il ceo del ‘New York Times’, Mark Thompson, “bisogna investire più che tagliare, per produrre contenuti di qualità attirando lettori e abbonati”. I “Contenti esclusivi”, ha ricordato Louis Dreyfus, ceo di ‘Le Monde’, “servono ad attirare lettori e abbonati. Ora dobbiamo capire come fidelizzarli, facendoli sentire parte di una comunità”. Di più. Secondo il fondatore di Politico, Robert Allbritton, “in futuro dovremo cercare di prevedere i bisogni dei nostri lettori, ancora prima che loro li esprimano”. E quanto ai big della rete, secondo Lionel Barber, editor del ‘Financial Times’, “Facebook e Google devono assumersi la responsabilità di quel che passa sulle loro piattaforme”. L’ incontro ‘The future of the newspapers’ prosegue affrontando il rapporto tra abbonamenti e ricavi adv, il ruolo dei video e le aspettative per il futuro. Ma si parla anche di social e fake news. Sul profilo Twitter @primaonline il live twitting dell’ evento. Hashtag #futureofnewspapers.
COMUNICATO DELL’ EDITORE
Il Sole 24 Ore
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Nel corso delle riunioni del 15 e 16 giugno u.s., l’ Azienda ha illustrato alle Organizzazioni Sindacali, la propria disponibilità ad un percorso negoziato per la gestione della riorganizzazione in presenza di crisi per il personale non giornalistico. Dopo ampio confronto, le parti, pur dando atto degli avanzamenti registrati al tavolo, non sono riuscite a trovare una soluzione complessiva condivisa su alcuni punti del piano. L’ Azienda, preso atto di tale impossibilità e della inderogabilità dei tempi per l’ avvio del piano al fine di conseguire il risanamento aziendale, ha avviato le procedure amministrative per il riconoscimento delle misure di integrazione al reddito, auspicando comunque che nella fase amministrativa della procedura si possa arrivare ad un accordo.
La Regione approva il progetto di legge sull’ editoria locale
Corriere di Romagna
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RIMINI La Regione ha approvato il progetto di legge sull’ editoria locale. «Il principale obiettivo è fornire risposte alle diverse segnalazioni di disagi che fin dalla scorsa legislatura sono emersi dal settore dell’ editoria locale – spiega Giorgio Pruccoli, primo firmatario -. La contrazione dei finanziamenti nazionali e la riduzione degli introiti derivanti dalla raccolta pubblicitaria hanno infatti creato una situazione di difficoltà nel comparto e la messa in pericolo dell’ attività informativa. Questa proposta di legge si basa sul principio che l’ informazione è un presidio di democrazia e partecipazione attiva dei cittadini». A partire da questa considerazione, spiega il consigliere regionale del Pd, il testo si propone quindi di «sostenere lo sviluppo e la crescita del sistema dell’ informazione in ambito locale, favorendo e consolidando il pluralismo dei centri di informazione». Sono, pertanto, previsti interventi che tendono a favorire l’ innovazione organizzativa e tecnologica, salvaguardando al contempo i livelli occupazionali; contrastare la precarizzazione del lavoro giornalistico, tutelandone la qualità e la professionalità; incentivare l’ avvio di imprese di giovani giornalisti. Il testo definisce gli ambiti delle imprese potenzialmente beneficiarie degli interventi della Regione. Fra i requisiti che le imprese dovranno necessariamente dimostrare per accedere a contributi e altri incentivi è previsto che il personale che svolge attività giornalistica sia iscritto all’ Albo dei giornalisti e abbia un rapporto di lavoro «disciplinato secondo la contrattazione collettiva del comparto o retribuito mediante equo compenso e in regime di correttezza retributiva e contributiva». Inoltre, dovrà esserci una significativa quota di informazione locale autoprodotta. Sono esclusi gli editori di televendite, quelli che trasmettono o promuovono programmi vietati ai minori, nonché le imprese riconducibiliapartitie movimentipolitici, organizzazioni sindacali, professionali e di categoria.