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Rai, altro che canone serve un disarmo
Il servizio pubblico radiotelevisivo è più rilevante che mai
Mina lascia la svizzera Suisa e aderisce alla Siae
Il problema Rai non è il canone ma semmai la sua privatizzazione
Facebook si accorda con Sony/Atv sulla musica
Tempi riparte come mensile con la coop dei giornalisti
Rai, altro che canone serve un disarmo
Il Fatto Quotidiano
Massimo Fini
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Lo scontro fra il Pd e il ministro Calenda sul canone televisivo è grottesco. Ma solo in via minore perché era stato il governo Renzi ad abbinare il canone alla bolletta elettrica, per costringere a pagare anche i riottosi e ora invece propone di abolirlo. Perché la questione della Rai è tutt’ altra. Una rete tv pubblica controllata dal governo, com’ è la Bbc inglese, considerata una delle migliori del mondo, non solo è utile ma necessaria. Per due motivi. Perché solo una tv pubblica può fornire servizi appunto di pubblica utilità ai quali le tv private non sono interessate. E perché anche il governo, che rappresenta comunque il Paese, ha il diritto e il dovere di dare un suo indirizzo culturale e in senso lato anche politico alla cittadinanza. Ma il fatto è che la Rai non è pubblica ma è in mano ai partiti che se la suddividono a seconda della loro consistenza o di chi in quel momento è al governo. Nella Prima Repubblica la situazione era più evidente. La prima rete andava alla Dc, la seconda al Psi, la terza al Pci. Che la situazione fosse questa lo disse apertis verbis, all’ inizio di Mani Pulite, Bruno Vespa, allora direttore del Tg1: “Il mio editore di riferimento è la Democrazia cristiana”. E fu, forse, l’ unica volta che in vita sua disse la verità. Naturalmente fu mazzolato da tutti quelli che avevano la coda di paglia. Mi ricordo, in particolare, l’ indignazione di Sandro Curzi che, come direttore del Tg3, faceva ciò che faceva Vespa, per il Pci. Oggi con lo spappolamento dei partiti tradizionali la situazione è più confusa ma nella sostanza è rimasta la stessa. Le varie formazioni politiche si spartiscono la Rai pubblica. Fanno riferimento a questo o a quel partito tutti i direttori di rete, tutti i direttori e vicedirettori dei Tg, tutti i capi struttura. Nel Consiglio di amministrazione siedono uomini dei partiti, magari mascherati da giornalisti di quart’ ordine o da sindacalisti. Idem, e anche peggio, nella commissione di Vigilanza i cui membri sono nominati direttamente dai partiti con un rigoroso manuale Cencelli. Cioè i controllati sono anche i controllori. Se per avventura entra in Rai, in una posizione apicale, un giornalista indipendente ne viene quasi subito estromesso, perché è un corpo estraneo. Come è stato il caso di Carlo Verdelli. Come si risolve questa situazione? Non si risolve finché i partiti, questo autentico cancro della democrazia, faranno il bello e il cattivo tempo non solo in Rai ma nell’ intero Paese. Una risposta, almeno parziale, potrebbe venire da quello che in altri tempi si chiamava “disarmo bilaterale”. Cioè alla Rai pubblica rimane una sola rete, sul modello della Bbc inglese, le altre due vengono messe sul mercato e vendute a privati che non siano possessori di altri network in Italia. Ma contemporaneamente anche Mediaset mette sul mercato, nello stesso modo, due delle sue reti. Perché una sola rete pubblica non potrebbe reggere l’ urto di un network privato che ne ha tre. È vero che oggi ci sono Sky, che però è a pagamento, e La7. Ma anche La7, pur potendo contare su quel genio televisivo che è Mentana, fa una fatica boia a competere in termini di share e raccolta pubblicitaria con i due supercolossi. Quindi finché i partiti avranno in mano il pallino e Berlusconi, per soprammercato, sarà contemporaneamente imprenditore televisivo e uomo politico in un colossale conflitto d’ interessi che non esiste in nessun Paese democratico e forse anche non democratico (negli Stati Uniti un uomo politico non può possedere nemmeno una free press) non se ne farà nulla. A meno che i Cinque Stelle, come hanno promesso, non facciano piazza pulita e sempre che, come spesso avviene, una volta arrivati al potere non diventino più tracotanti di coloro che li hanno preceduti.
Il servizio pubblico radiotelevisivo è più rilevante che mai
Il Sole 24 Ore
LETTERA FIRMATA
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Gentile Fabi, vorrei intervenire nel dibattito sull’ eventuale abolizione del canone per la tv pubblica, portando una breve riflessione su quello che accade in Svizzera. Sono di lingua italiana e vivo da anni a Zurigo dove si ricevono i due programmi della televisione della Svizzera italiana oltre a quelli di lingua francese e tedesca. La televisione pubblica è finanziata da un canone obbligatorio, tra l’ altro uno dei più alti d’ Europa, che ora rischia di essere abolito compromettendo l’ esistenza dell’ azienda, la Ssr, cioè la Rai svizzera, che gestisce i programmi radiotelevisivi. Il 4 marzo ci sarà uno dei tanti referendum popolari che contraddistinguono la democrazia elvetica: i cittadini sono chiamati a esprimersi sul finanziamento della tv pubblica attraverso il canone. L’ iniziativa si chiama “No Billag”, dal nome della società (Billag, appunto) che gestisce la riscossione. I sondaggi indicano una leggera prevalenza dei voti favorevoli a un cambio di sistema con l’ introduzione di un divieto al finanziamento pubblico delle televisioni. Se vincessero i sì dal 1° gennaio 2019 le società televisive dovrebbero finanziarsi solo attraverso la pubblicità e questo vorrebbe dire ridurre la loro attività. Con ripercussioni anche per le radio e le tv private che ora possono contare su una pur piccola parte del gettito del canone. La realtà svizzera è certamente diversa da quella italiana, ma sono convinto che in entrambi i casi il servizio pubblico, pur con tutti i limiti e le critiche che si possono fare, costituisca un elemento importante per la coesione nazionale e per la crescita culturale e democratica dei cittadini. Luigi Crivelli Zurigo Caro Crivelli, la realtà italiana è certamente diversa da quella svizzera su questo fronte. Ma sono personalmente d’ accordo nel rilevare che il servizio pubblico radiotelevisivo, nella tradizione dei Paesi europei, costituisca uno dei punti forti di una democrazia con la partecipazione responsabile di tutti i cittadini. Certo la Rai italiana, così come la Ssr svizzera, possono essere criticate e suscitare perplessità: anche perché il poter contare su un finanziamento sicuro e obbligato può portare a sentirsi al riparo da verifiche di qualità e affidabilità. Ma non dobbiamo dimenticare che siamo in un momento in cui il sistema radiotelevisivo vive dappertutto profondi cambiamenti: la tv on demand, basata sulla possibilità di vedere quello che voglio nel momento che voglio, sta prendendo il sopravvento, soprattutto tra i giovani, sui tradizionali schemi basati su di una programmazione rigida e predefinita. Ma questo rende ancora più importante l’ esistenza di un servizio pubblico di qualità che si possa muovere senza dover rispettare i vincoli di un mercato dove, ahimè, l’ informazione cattiva rischia troppo spesso di scacciare quella buona. La sua lettera, caro Crivelli, ci invita a riflettere: anche per ricordarci che la sera del 4 marzo sarà interessante valutare non solo le elezioni per il rinnovo del Parlamento italiano, ma anche il futuro che i cittadini svizzeri sceglieranno per la propria televisione. gianfranco.fabi@ilsole24ore.com Politica, non promesse/1 Il 4 marzo si vota: vorrei proporre ai politici di non fare comizi, passerelle elettorali in ogni dove e azioni di marketing pubblicitario. Serve altro: prendete un banchetto, sedetevi in una piazza e ascoltate la voce della gente, prendete appunti, tutto il resto verrà di conseguenza. Fabrizio Floris Politica, non promesse/2 La campagna elettorale mi sembra partita nel peggior modo possibile: i partiti fanno a gara nel proporre abolizione di leggi e provvedimenti in essere (in particolare quelli di tipo fiscale) e tralasciano di esporre dei programmi basati sulle cose da fare, non solo su quelle da disfare. E così è una rincorsa all’ abolizione della legge Fornero, dell’ Imu, della tassa di circolazione, del canone Tv e per ultimo, delle tasse universitarie. Sarebbe auspicabile che fossero esposte idee precise (e non solo slogan) su economia, lavoro, istruzione, sicurezza, politica estera, ambiente, e sui tanti temi che ci assillano. Basterebbero poche pagine (inutile scrivere ponderosi libri dei sogni che si tradurrebbero in bugie il giorno dopo le elezioni) con i provvedimenti, il loro costo, la loro copertura finanziaria, i tempi di realizzazione. Gianluigi De Marchi Var o non Var? Nelle ultimi giornate di campionato vari episodi controversi hanno portato il Var sul banco degli imputati: è vero, sbaglia anche la video assistenza arbitrale ma finora, in campionato, quante meno polemiche inutili e quanto più calcio. Lettera firmata.
Mina lascia la svizzera Suisa e aderisce alla Siae
Il Sole 24 Ore
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Dopo le uscite illustri di Enrico Ruggeri e J-Ax, passati entrambi a Soundreef la scorsa settimana, Siae va al contrattacco e annuncia l’ adesione alla Società autori ed editori di Pdu Music&Production, l’ etichetta di Mina (a destra nella foto con Adriano Celentano) precedentemente iscritta alla collecting svizzera Suisa. «Siamo molto orgogliosi di dare il benvenuto in Siae a Pdu Music&Production, che vanta un catalogo di grandissimi successi», ha commentato il presidente di Siae Filippo Sugar. Per Massimiliano Pani figlio e produttore della Tigre di Cremona, Siae è Siae «tra le società europee che hanno lavorato di più e meglio in questi ultimi anni». Il catalogo editoriale di Pdu, label discografica ed editoriale fondata nel 1967, è composto da più di 900 brani e abbraccia diversi stili musicali che vanno dal pop al rock, dalla musica classica al jazz e al tango. Fanno parte del catalogo grandi successi di Mina e degli Audio 2, oltre a musiche originali composte per il cinema e per fiction televisive. «Ringrazio gli 86.516 autori ed editori che hanno deciso di restare nella loro casa, e sono orgoglioso di dare il benvenuto agli 11.180 nuovi iscritti degli ultimi 12 mesi – ha aggiunto Sugar -. Si tratta di un record assoluto nella storia di Siae».
Il problema Rai non è il canone ma semmai la sua privatizzazione
Italia Oggi
PIERLUIGI MAGNASCHI
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Non si capisce perché Matteo Renzi abbia voluto lanciare la proposta di togliere, dalle bollette telefoniche, il canone Rai, per attribuire tutto questo onere al sistema fiscale. Lo strano però è constatare che la stessa persona (Renzi, appunto) che poco tempo fa aveva messo il canone in bolletta, adesso lo voglia togliere. Siamo al gioco delle tre tavolette. Un gioco che però si conclude sempre in un’ alluvione di finanziamenti a favore delle Rai. Il vero problema infatti non è come pagare il canone (dopo poco che è stato ingigantito attraverso l’ eliminazione dell’ evasione) ma il problema è quale sia il ruolo della Rai nel 2018. In uno stato democratico e liberale dovrebbe essere certo che almeno la scelta del modo con il quale una persona decide di informarsi e divertirsi appartiene sicuramente al singolo cittadino che ha diritto di esprimere, senza condizionamento alcuno, le sue scelte. Il contrario è tipico di uno stato totalitario. Non a caso, durante il fascismo c’ era, a scuola, il libro di Stato e i film erano sostanzialmente obbligati dalla onnipresente censura. Il canone Rai obbligatorio, per chi non ha gli occhi foderati dall’ abitudine, assomiglia a un abbonamento a la Repubblica o all’ Osservatore romano (scelgo due testate a caso) deciso autoritariamente dal potere politico centrale (anche se con i soldi del cittadino destinatario della pubblicazione per lui considerata più congeniale). Come mai, un allucinante principio di questo tipo, ha potuto prendere piede anche in paesi come la Gran Bretagna, dove il rispetto della libertà del cittadino, non solo viene da più lontano ma è anche molto più alto che da noi? La deriva illiberale parte da quando l’ Italia e la Germania si mettono a usare abilmente le loro radio per fare propaganda ai due regimi. Lo strumento (la radio, appunto), usato su una popolazione in maggioranza analfabeta, diede dei risultati di consenso impressionanti. Da qui, la convinzione (che oggi farebbe ridere) che la radio aveva la possibilità di lavare il cervello della gente. Se questo era l’ effetto (il lavaggio del cervello della gente) allora era evidente che lo Stato doveva impossessarsi subito delle radio, nazionalizzandole subito, immediatamente. Questo convincimento era rafforzato, in Uk e in Francia, dalla vicinanza e dalla pericolosità delle due dittature, nazista e fascista. Questo approccio non attecchì invece, assolutamente, negli Stati Uniti dove (sia allora, che oggi) la possibilità che lo Stato metta la mani sui media (di carta o via etere o via web) viene considerata come una inaccettabile eresia politico-sociale. Essendo la tv figlia della radio, lo stesso atteggiamento statalista di metterle un guinzaglio proseguì, nei paesi europei, anche, e a maggior ragione, sugli schermi televisivi. Ma oggi, nel tempo delle tv globali, delle radio di ogni dove ascoltabili ovunque, del web che penetra liberamente in tutti gli smartphone, il monopolio radiotelevisivo (e il conseguente canone obbligatorio) non dovrebbero più esistere. Oltretutto, il monopolio Rai non è più nemmeno, tecnicamente parlando, un monopolio, visto che la sua audience consiste in una risibile minoranza rispetto all’ audience complessiva. Di monopolistico quindi esiste solo il canone, non certo il ruolo. La Rai inoltre, anche se tutti lo negano, nonostante l’ accecante evidenza, è un organo al servizio dei partiti (ecco perché, nella sostanza, non la aggredisce, e nemmeno la discute, nessuno). Anzi, con il passare del tempo, la Rai è diventata più forte dei partiti. È la Rai infatti che ormai distribuisce la carte. Una legge dello stato, ad esempio, prevede che le retribuzioni negli enti statali, o riconducibili allo stato, non debbano superare i 240 mila euro annui? E chi l’ ha detto? La Rai sfonda il tetto retributivo posto da una legge dello stato, non spingendo il Parlamento alla modifica della legge, ma facendola interpretare in modo diverso. Con la platonica approvazione da parte di tutti. La Rai, inoltre, anche se tutti fingono di non accorgersene, cresce a dismisura, senza che nessuno, al di fuori di essa, eccepisca, dibatta, delimiti, decida. Si ricorderà che, all’ inizio della stagione televisiva, in Italia c’ era un solo canale Rai. Poi, non per fornire un miglior servizio, ma solo per accontentare una nuova forza politica che nel frattempo era entrata nell’ area di governo con l’ affermarsi del centrosinistra (i socialisti), fu costruita una rete apposta per loro. La seconda rete Rai, appunto. In seguito, con l’ affermarsi del compromesso storico venne inventata la terza rete Rai per sistemarvi all’ ingrosso i giornalisti di Paese sera e dell’ Unità, più la meglio della nomenclatura del Pci di allora. Con tre reti pubbliche c’ era da pensare che l’ occupazione dello spazio da parte della Rai si fosse completato. Anche perché i partiti titolari della prima e della seconda rete (la Dc e il Psi) erano nel frattempo esplosi. E quindi c’ era spazio per fare entrare i nuovi inquilini politici. Invece la Rai è continuata a crescere come una metastasi senza freni e senza che nel paese, fra i partiti, nelle istituzioni, o anche nella sola società civile, maturasse un dibattito sul nuovo ruolo della Rai e sullo spazio di cui essa avrebbe dovuto poter godere. Per capire questo silenzio complice a favore della Rai e del suo dilagare, assistito da un canone senza fine, basti accertare quante grandi firme del giornalismo godono di sontuose collaborazioni con la tv di Stato. Non tutti sono complici, certo, ma molti sì. Oggi, la Rai, ai classici tre canali Rai1, Rai 2 e Rai3 (che era un bouquet già sproporzionato) ha aggiunto Rai5 (canale 23 del digitale terreste), Rai Movie (canale 24), Rai Premium (canale 25), Rai Gulp (canale 42), Ray yoyo (43), Rai News 24 (48), Rai storia (54), Rai sport 1 (57), Rai sport 2(58). E si potrebbe proseguire. Come se ciò non bastasse, la Rai dispone anche di un Tg per ogni regione che è al servizio (vero, anche se negato) del presidente della Regione che, non a caso, ne dispone ad libitum. E siccome anche queste tv regionali sono pagate dal canone e rastrellano ambiti locali pubblicitariamente più poveri, esse hanno spazzolato vie quasi tutte le coraggiose emittenti locali che per lungo tempo (e per tutti gli anni Novanta) avevano costituito una valida alternativa regionale alla Rai che aveva contribuito a creare molti nuovi posti di lavoro, e ad allargare la democrazia e la partecipazione, sfuggendo alla presa della politica ma che oggi, non potendosi battere con lo strapotere della Rai, anche in periferia, sono spesso ridotte a larve di emittenti. Nella bulimia di canali che ha infettato la Rai, l’ emittente di Stato si è dimenticata di fare un canale tv 24 ore su 24, solo in lingua inglese, destinato a portare nel mondo le idee, la politica, i prodotti, la cultura, i dibattiti italiani. Canali all news e all time in inglese ce li hanno tutti i paesi (persino il piccolo Israele: il suo iNews, bellissimo, lo si può vedere sul canale 537 di Sky, assieme ad altri canali di questo tipo, tutti illuminanti per chi vuole collegarsi in diretta col mondo pur non conoscendone tutte le lingue). Ma siccome fra i molti raccomandati o raccomandabili Rai non sono molti quelli che conoscono perfettamente l’ inglese, a livello madre lingua, a che pro fare un canale di questo tipo che servirà al paese ma non certo alla nomenclatura capitolina. Intanto la Francia (che pure è morbosamente legata alla sua lingua ma si rende conto che non è più capibile in tutto il mondo che conta) non solo ha da anni un canale all news 24/24 in inglese (e questo si vede sul canale 542 di Sky) ma, da un paio di mesi, ne ha varato anche uno in spagnolo. Con tanti saluti ai nostri televisivi all’ amatriciana. Pierluigi Magnaschi.
Facebook si accorda con Sony/Atv sulla musica
Italia Oggi
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Nuova intesa di Facebook con una società di edizioni musicali. Questa volta, dopo aver firmato qualche settimana fa con Universal Music Group, il social network si è accordato con Sony/Atv Music Publishing, la società del gruppo Sony che gestisce i diritti d’ autore di molti artisti. L’ accordo pluriennale e multi-territorio con Sony/Atv copre un catalogo di oltre 3 milioni di brani, inclusi quelli di star come Taylor Swift, Ed Sheeran, Drake, The Chainsmokers, Sam Smith, Sia e Kanye West. Sony/Atv ha fatto sapere che l’ accordo ha fornito ai suoi cantautori «un’ opportunità unica di guadagnare royalties dall’ uso della propria musica su Facebook e Instagram». In base all’ accordo, gli utenti potranno caricare e condividere video su Facebook, Instagram e Oculus che contengono composizioni concesse in licenza dal catalogo Sony/Atv e personalizzare i loro post con le canzoni del catalogo. Il social network, che dichiara 2 miliardi di utenti attivi mensili, sta quindi proseguendo sulla strada di riconoscere agli artisti e alle etichette i compensi per l’ utilizzo della musica. In precedenza di fronte alle segnalazioni dell’ uso senza licenza della musica da parte degli utenti Facebook si limitava semplicemente a far eliminare i post. L’ intesa per Sony/Atv significa la possibilità di monetizzare l’ utilizzo della propria musica da parte di una grande platea sia su Facebook che Instagram. «Siamo entusiasti che nel firmare questo accordo Facebook riconosca il valore che la musica apporta al loro servizio e che i nostri cantautori beneficino ora dell’ uso della loro musica su Facebook. Attendiamo con impazienza un rapporto lungo e prospero», ha detto il presidente e ceo di Sony/Atv, Martin Bandier. Mentre Tamara Hrivnak, responsabile business development e partnership music di Facebook, ha detto che la sua società è entusiasta «di lavorare con il più grande editore musicale al mondo per portare canzoni incredibili che approfondiscano le connessioni tra amici e fan». Sono ormai molto mesi che Facebook sta negoziando con i detentori dei diritti musicali nel tentativo di risolvere i contenziosi e poter permettere agli utenti un utilizzo libero della musica. Dopotutto la parte video è cresciuta enormemente negli ultimi anni e come insegna YouTube è la musica uno dei contenuti più utilizzati. Ora dopo Universal e Sony il prossimo accordo dovrebbe riguardare Warner Music.
Tempi riparte come mensile con la coop dei giornalisti
Italia Oggi
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Il settimanale Tempi, che aveva terminato le pubblicazioni lo scorso ottobre, torna come mensile su abbonamento. Cinque giornalisti del giornale, spiega una nota sul sito, hanno infatti costituito a dicembre la cooperativa Contrattempi, a cui è stata concessa in godimento la testata, con l’ obiettivo di riprendere la pubblicazione «anche grazie agli impegni e alle garanzie forniti dai soci di Etd Digital, la piena disponibilità di Valter Mainetti, a capo del gruppo Sorgente, e di Claudio Sonzogno, presidente di Musa Comunicazione. L’ editore Etd Digital aveva deciso la messa in liquidazione del settimanale per la mancanza di prospettive, ora la prima copia del mensile sarà spedita a casa dei vecchi abbonati, ma soltanto quella, anche se i redattori spiegano che faranno «il possibile per venire incontro» alle loro richieste. Al mensile la cooperativa vorrebbe affiancare altri contenuti, servizi e iniziative, oltre al lavoro su tempi.it, il sito che quotidianamente pubblicherà interventi delle firme di Tempi e dei suoi collaboratori. In programma un incontro pubblico in occasione di ogni uscita del mensile, mentre la cooperativa si propone anche come service per «altre testate o servizi di comunicazione ad aziende e associazioni». Oltre ai cinque giornalisti che hanno costituito la cooperativa (Emanuele Boffi, Rodolfo Casadei, Caterina Giojelli, Leone Grotti e Pietro Piccinini), continueranno a scrivere su Tempi fra gli altri Luigi Amicone, Guido Clericetti, Pippo Corigliano, Marina Corradi, Renato Farina, Simone Fortunato, Alfredo Mantovano, Roberto Perrone, Aldo Trento. Per la ripresa i giornalisti lanciano una campagna di raccolta fondi che parte dagli abbonamenti alle quote sostenitori.
La bolla dei news media digitali rischia di scoppiare. Reuters Institute: pesante la dipendenza da pubblicità e social
Prima Comunicazione
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L’ informazione digitale è una bolla di contenuti destinata a scoppiare se non si troveranno modelli di business più sostenibili e diversificati: è la sconfortante conclusione a cui giunge una ricerca appena pubblicato dal Reuters Institute for the Study of Journalism dell’ università di Oxford. Il titolo è ‘The Global Expansion of Digital-Born News Media’; gli autori sono Tom Nicholls, Nabeelah Shabbir e Rasmus Kleis Nielsen. Rasmus Kleis Nielsen Lo studio prende in esame sette media nativi digitali di cinque Paesi (Stati Uniti, Francia, Germania, Olanda e Regno Unito): Business Insider, Mashable, Vice, Huffington Post, Quartz, Brut e De Corrispondent. Tutti media globali o con l’ aspirazione a diventare tali che, grazie al venture capital o a finanziatori particolarmente ricchi, hanno puntato su una strategia di espansione orientata alla crescita dell’ audience. La dipendenza dalla pubblicità digitale come principale fonte di ricavi e dalle piattaforme, soprattutto Facebook, rappresentano gravi rischi per la sopravvivenza di questi media, affermo lo studio. Quello della pubblicità display digitale è infatti un mercato sempre più difficile a causa del passaggio al mobile, della crescita del programmatic advertising, della concorrenza delle grandi piattaforme e della diffusione degli ad-blocker. Il modello dei contenuti a pagamento, che molti quotidiani hanno adottato o stanno adottando come via di uscita dalla crisi, è poco diffuso tra i media nativi digitali. Il risultato è che questi media sono ancora in fase di investimenti e non sono capaci di generare consistenti profitti e in qualche caso gli investitori cominciano a perdere la pazienza. Il Reuters Institute non ha preso in considerazione media company basate in Italia. Sarebbe stato interessante analizzare i casi di Populis e Blogo, dove la bolla sembra già essere scoppiata. Il report completo si può scaricare dalla pagina al seguente link: http://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/our-research/global-expansion-digital-born-news-media.