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Rassegna Stampa del 10/01/2018

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Indice Articoli

Così Facebook sfida Youtube (ed evita la grana copyright)

Par condicio, ok in Vigilanza: «salvi» Vespa e Fazio

Tedeschi favorevoli alle tasse

Deejay tv, da lunedì casa nuova

Sanremo, budget 16,4 mln, dagli spot già 25 mln

chessidice in viale dell’ editoria

Audience, misurarla è un rebus

Debutta su InBlu Radio ATuXtv, il programma di critica televisiva condotto da Mariano Sabatini

Così siamo più vulnerabili alle fake news

Bastano dieci like per svelare il tuo vero io

Informazione politica nell’ era digitale Web battuto, la tv resta regina

“No alla guerra ai talk Anche i servizi di cronaca influenzano gli elettori”

La Rai pronta a mollare La Formula 1 tutta a Sky

I COSTI DELLA RAI E IL FALSO MITO DEL CANONE

Così Facebook sfida Youtube (ed evita la grana copyright)

Il Fatto Quotidiano
Virginia Della Sala
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Nel mondo digitale non esistono automatismi, soprattutto quando si parla di diritti d’ autore. Ecco perché in meno di venti giorni Facebook ha siglato il suo secondo accordo per permettere agli utenti di utilizzare liberamente brani musicali da associare ai propri video ed evitare da un lato di perdere milioni di dollari in contenziosi per la violazione del copyright, dall’ altro di eliminare contenuti che dovessero violarlo. L’ ultima intesa è con la Sony Music, di cui non si conoscono i dettagli economici, ma quelli pratici: gli utenti di Facebook (ormai oltre due miliardi) possono attingere al catalogo Sony/ ATV Music Publishing per le colonne sonore dei loro video. Tre milioni di brani (tra cui, spiega Bloomberg, anche la musica di Ed Sheeran o Taylor Swift) e la possibilità per gli artisti di guadagnare in royalties anche sul social network di Zuckerberg. Il 22 dicembre, l’ azienda aveva chiuso un altro accordo con la Universal Music Group, la major controllata dalla francese Vivendi (la stessa che da agosto è azionista di riferimento di Tim) per un accesso progressivo al suo catalogo musicale. Già allora si parlò della volontà di sfidare Youtube e quindi Google (o meglio, l’ azienda madre Alphabet) nel campo della musica, dei video e quindi della pubblicità. Non dovrebbe mancare molto, secondo i rumors, a quello con la Warner. Accordi che non riguardano solo la platea di Facebook ma anche Instagram (la piattaforma di condivisione foto su cui spopolano le Stories, brevi sequenze foto e video) e Oculus, che invece nasce per la realtà virtuale. Secondo gli ultimi dati, solo nel 2017 Facebook ha ricevuto 224.464 segnalazioni di contenuti che violavano la proprietà intellettuale. Segnalazioni che hanno portato alla rimozione di quasi 2 milioni di contenuti, 1.818.794 per essere precisi. Su Instagram le segnalazioni sono state 70.008 e hanno portato alla rimozione di 685.996 contenuti. A luglio la piattaforma aveva acquisito una startup specializzata nel riconoscimento della proprietà intellettuale nei contenuti generati dagli utenti. Anche in questo caso, il riferimento è la tecnologia già sviluppata ed utilizzata da Youtube (Content Id). Secondo gli esperti, ora Facebook ha tutte le basi per sfondare tanto come piattaforma video che come piattaforma di streaming musicale (ipotizzando così anche la gara con Spotify). Quali che siano i piani futuri, con queste nuove mosse nel mercato digitale prosegue l’ era di adeguamento e competizione. Se nel campo musicale tradizione e innovazione sembrano incrociarsi e provare ad andare d’ accordo – complice la necessità di evitare le violazioni – tra i big dello streaming video (animazione, film, telefilm e documentari) è in corso una battaglia feroce: a metà dicembre la Disney ha comprato per 52 miliardi di dollari la 21st Century Fox, incluse le attività cinematografiche, i canali televisivi negli Usa, in Asia e in Europa, dove ha rilevato il 39 per cento di Sky Europe della famiglia Murdoch e anche il 60 per cento della piattaforma di streaming video, Hulu. L’ obiettivo è lanciare una piattaforma che faccia concorrenza a Netflix e Amazon (anche rimuovendo i propri prodotti dai loro database) entro il 2019. Già definita come un’ operazione che rischia di generare un oligopolio mediatico, la fusione dovrà comunque essere approvata nel 2018 dal Dipartimento di Giustizia americano. “Ma mi aspetto che vedremo la stessa cosa che si è verificata in passato quando i regolatori hanno tentato di controllare la struttura proprietaria di altri conglomerati dei media – ha spiegato a The Conversation Margot Susca, docente all’ American University School of Communication – : una massiccia campagna di lobbismo. La Disney spende già milioni di dollari ogni anno per esercitare pressioni sul Congresso, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la Federal Communications Commission e l’ Ufficio del Rappresentante degli Stati Uniti”.

Par condicio, ok in Vigilanza: «salvi» Vespa e Fazio

Il Sole 24 Ore
A. Bio.
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La Commissione di Vigilanza Rai ha dato ieri il via libera al regolamento sulla par condicio per le prossime elezioni del 4 marzo. Un regolamento che, in sostanza, ha di fatto “salvato” Porta a Porta e Che tempo che fa, vista la bocciatura al momento della votazione finale degli emendamenti presentati dal M5S per escludere dalle trasmissioni del servizio pubblico che possono andare in onda durante la campagna elettorale quelle condotte da Bruno Vespa e Fabio Fazio. «Sarebbe stato un precedente discrezionale, “ad personam”, senza alcuna base normativa, lesivo dell’ autonomia della Rai», ha commentato il relatore di maggioranza Verducci (Pd). Nel mirino di 5 Stelle è finito il contratto da artista che ha consentito ai due conduttori di derogare al tetto ai compensi di 240mila euro. Tra le novità c’ è un elenco dettagliato di trasmissioni che dovranno attenersi alla par condicio e tra queste anche le rassegne stampa. Nelle interviste sarà poi dato spazio specifico al “capo della forza politica”, figura introdotta dal Rosatellum. A completare il quadro arriverà il regolamento Agcom per le tv private. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Tedeschi favorevoli alle tasse

Italia Oggi
DA BERLINO ROBERTO GIARDINA
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A due mesi dalle elezioni, in Italia tutti promettono di abolire questa o quella tassa. In Germania, nel 2005, Angela Merkel riuscì a battere il macho Schröder pur avvertendo che, se avesse vinto, avrebbe aumentato le tasse. I tedeschi sono tutti masochisti, o sono d’ accordo con lo scomparso Tommaso Padoa-Schioppa, il quale si lasciò sfuggire in un’ intervista che «pagare le tasse è bello»? No e, se possono, anche loro cercano di evadere. Più difficile che da noi, ma non impossibile. Anni fa, la popolare Bild Zeitung pubblicò un sondaggio sorprendente: il 67% era contrario alla riduzione delle tasse. Semplicemente, i tedeschi sono in genere più informati, e non si lasciano sedurre dai politici imbonitori. Se le casse sono vuote, argomentavo, dove prenderà i soldi lo stato? Se il fisco incassa di meno, verranno tagliati i servizi, dall’ assistenza sociale alla sanità, e così via. E, a rimetterci, sarebbero stati i meno fortunati, pensionati e quanti hanno uno stipendio fisso. Tutto qui. Pagare le tasse non sarà eccitante, ma può essere accettabile se si riceve qualche cosa in cambio. Per la casa, Imu o quello che è, pago a Roma dieci volte più che a Berlino, e il mio appartamento in Prussia è in centro, grande il doppio di quello romano. Inutile aggiungere che la capitale tedesca è ordinata, pulita, e mi permette di usare il meno possibile la mia auto. Non si tratta di tasse, ma il biglietto in bus o in metro costa 2,80 euro, quello dell’ Atac appena 1,50 euro. Ma qui i mezzi pubblici funzionano. Renzi contraddice se stesso e, dopo aver messo il canone tv nella bolletta della luce, ora propone di abolirlo. Ma la Rai verrebbe finanziata dallo stato, quindi sempre a spese dei contribuenti. Che cosa cambierebbe? In Germania, chiunque viva in un appartamento, in una villa o in una capanna sperduta nella Foresta Nera è tenuto a pagare il canone. Non è credibile che nel ventunesimo secolo ci sia qualcuno che viva senza radio o tv o computer, è stata la giustificazione. Bene, qui pago più del doppio rispetto a Roma (dove non ho neanche la tv), ma i programmi sono almeno sei volte migliori di quelli della Rai. E, se si hanno dei problemi, è facile risolverli. Quando mi trasferii da Bonn a Berlino, la Gez, l’ ente di riscossione, mi chiese conto del perché non pagavo un abbonamento. Mi bastò telefonare spiegando che a Bonn avevo una tv in casa e una in ufficio, a Berlino lavoravo da casa. La signora al telefono mi credette sulla parola. Grasso fonda un nuovo partito e risponde a Renzi proponendo di abolire le tasse universitarie. In Germania la situazione varia da land a land (la scuola dipende dalle regioni), alcune facoltà sono in effetti gratuite, in altre, quelle scientifiche, si paga per finanziare i laboratori. Tempo fa, gli studenti si dichiararono contrari a pagare di meno, purché migliorasse la qualità dell’ insegnamento. Da noi si vuole ridurre di un anno la scuola dell’ obbligo soprattutto per ridurre le spese. Ma ottengono la maturità ragazzi che (non sempre per colpa loro) sanno scrivere appena una cartolina senza fare errori di grammatica. Domani, laureati e disoccupati? In Germania le aliquote delle tasse sembrano uguali a quelle italiane. Sembrano: qui si hanno molte più esenzioni. La dichiarazione la compila il mio steuerberater, il commercialista. La sua parcella è in proporzione alle tasse che pago, quindi sta dalla parte del fisco. Se fossi milionario, starebbe dalla mia. Ma questo è un altro discorso. La sua parcella, tuttavia, posso dedurla dalle tasse l’ anno dopo. Anzi, ci pensa lui. Il risultato è che il fisco ha una dichiarazione ben fatta, e risparmia tempo. A novembre, lo steuerberater mi ha informato che avrei avuto diritto a un rimborso di 252 euro e qualche centesimo. Non so perché. Li ho trovati sul mio conto il 4 gennaio. Sarei stato rimborsato anche se fossero stati 252 mila euro. E lo stato paga i suoi debiti subito alle imprese. © Riproduzione riservata.

Deejay tv, da lunedì casa nuova

Italia Oggi
ANDREA SECCHI
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Lunedì prossimo torna Deejay tv: canale 69 del digitale terrestre appena ricomprato, come anticipato da ItaliaOggi, poi al 714 di Sky7 dove c’ era MyDeejay e in streaming su deejay.it. Elemedia (gruppo Gedi) ha deciso di affidarne la raccolta pubblicitaria a Viacom «forte della sua esperienza sui canali musicali televisivi» (Mtv e gli altri), mentre il fornitore di banda sul digitale terrestre sarà ovviamente Persidera, l’ operatore di rete di Tim in vendita di cui Gedi ha il 30%. «Come vi avevo anticipato», ha annunciato Linus lunedì su Instagram, «gli amici di DMax ci avevano gentilmente ospitato per l’ autunno, in attesa che fosse pronta la nostra nuova, piccola casa. Il rogito lo abbiamo fatto, il mutuo anche, le chiavi le abbiamo, ci sono soltanto gli imbianchini che stanno finendo. Entriamo lunedì prossimo, alle dieci». Domanda. Linus, gli imbianchini hanno finito? Che colore ha scelto? Risposta. (Ride, ndr) Abbiamo scelto colori neutri, anche perché non vogliamo fare tanto gli sbruffoni all’ inizio. D. La nuova Deejay tv avrà tanta musica e una colonna portante… R. Sì, ci sarà Deejay Chiama Italia al mattino che possiamo tornare a replicare anche la sera, accontentando finalmente quegli ascoltatori che ce l’ hanno sempre chiesto. Poi ci sarà la classifica pomeridiana 30 Songs e pillole sparse nel palinsesto con i personaggi della radio: riproposizioni di interviste, piccoli sketch. E a fondo schermo, un rullo con le notizie di Repubblica. D. La replica di Deejay Chiama Italia sarà una sintesi come in passato? R. No, sarà integrale, anche se stiamo cercando di renderla più viva e allegra nei fuori onda. Abbiamo l’ idea di una camera che si muove nello studio, un dietro le quinte con un incursore. Stiamo valutando a chi farlo fare ma sarà uno dei ragazzi della radio. D. Niente radiovisione? R. Con tutto il rispetto per chi la fa, a me fa abbastanza orrore. Non è né carne né pesce: se fai radio fai radio, se fai tv fai tv. Il mio programma che va anche in video è motivato dal fatto che essendo direttore ho consapevolezza diversa rispetto agli altri speaker. Non vogliamo una sequenza di piccoli interventi parlati poi musica e così via. Non voglio essere irrispettoso rispetto a Rtl, ma la radiovisione non ci interessa. D. Cos’ altro ha in mente per il futuro? R. Penso che sia meglio che andiamo per gradi e voliamo basso. La tv ha scottato molta gente, inutile fare proclami. Anche perché, avendoci picchiato il muso, abbiamo l’ esperienza per sapere cosa si può e non si può fare.. D. Prima avete venduto le numerazioni, ora ne avete ricomprata una. Cosa vi ha spinto? R. Deejay Chiama Italia in video ha un grande seguito e potenziale e purtroppo a un centro punto siamo rimasti senza casa. Non mi piaceva elemosinare lo spazio. Certo sono grato a Discovery, ma sei sempre ospite a casa un altro e mi rendo conto che la nostra trasmissione sia una cosa poco congrua per una tv generalista. C’ era la possibilità di ricomprare uno dei canali, che peraltro ha un numero buffo e facilmente memorizzabile, e così abbiamo fatto. Ma non ci ha spinto una particolare strategia televisiva. D. Tutte le altre radio hanno un canale tv… R. Tolto Rtl, che ci investe anche parecchio, negli altri casi non mi sembra che abbia dato grandi risultati, anzi. Devi avere qualcosa da mettere dentro un canale. Devo dire che noi abbiamo personaggi che possono farlo. D. Cosa ha pensato quando è stato venduto il 9? R. Mi sono dispiaciuto moltissimo, ma alla fine era meglio così. La tv non ti perdona di non avere il potenziale economico per farla. Allo spettatore non gliene frega niente del tuo budget e per fare vera tv ci vogliono investimenti che quelle dal 10 in poi non si possono permettere. Non a caso quelle che sopravvivono hanno gli archivi di Sky, Mediaset, Discovery. Noi con il 9 eravamo a metà strada, avevamo un grande gruppo alle spalle ma non la potenza di Sky e degli altri. Onestamente il prodotto era al di sotto delle aspettative del marchio. D. Come va con gli ascolti della rilevazione Ter? R. L’ ultimo anno è andato abbastanza bene. Devo dire che non è facile dare un dato credibile: l’ 80% degli italiani ha un numero di cellulare, e dietro a quel numero c’ è il mistero. Se ho bisogno di avere campione regione per regione fascia d’ eta, sesso, attraverso il cellulare si va a sparare nel mucchio e spesso si finisce per chiamare i numeri fissi a cui rispondono gli anziani che non sono il riferimento di molte radio. Allora i dati facciamo finta che vadano bene. D. Avete un’ app curata, oggi però sul digital audio siamo agli inizi in termini di valorizzazione del mercato. Come la vede? R. Ci credo molto. L’ app è moderna ed efficace, dopodiché tutto questo viene frustrato perché delle decine di migliaia di persone che ti ascoltano dall’ estero non rimane traccia nelle rilevazioni. Un giorno spero che si riuscirà a rilevare anche questi dati. © Riproduzione riservata.

Sanremo, budget 16,4 mln, dagli spot già 25 mln

Italia Oggi

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Il budget di Rai 1 per la 68esima edizione del Festival di Sanremo è pari a 16 milioni e 400 mila euro, lo stesso dell’ anno scorso, e la raccolta pubblicitaria è già a quota 25 milioni, a un milione dai 26 incassati lo scorso anno. Lo ha detto il direttore della rete ammiraglia Angelo Teodoli durante la conferenza stampa dal Salone del Casinò di Sanremo. Mancando circa un mese all’ inizio della manifestazione (si svolgerà dal 6 al 10 febbraio) è prevedibile, ha spiegato Teodoli, che quella soglia dei 26 milioni entrati nelle casse Rai nel 2017 attraverso i ricavi pubblicitari possa essere raggiunta, se non superata. «Speriamo in un 40% di share…», ha affermato invece Teodoli a proposito delle aspettative di ascolti. Il direttore ha anche sottolineato che questa edizione per come è preparata «è cosa completamente nuova», e comunque detto del primo tetto-obiettivo di ascolti, «cercheremo anche di superarlo». Con Claudio Baglioni, direttore artistico del Festival, ci saranno sul palco dell’ Ariston Michelle Hunziker e Pierfrancesco Favino. In questa edizione del festival non ci sarà però spazio per le star hollywoodiane e nessuna passerella neanche per i politici, visto che la kermesse andrà in scena a meno di un mese dalle elezioni, in piena campagna elettorale.

chessidice in viale dell’ editoria

Italia Oggi

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Plebiscitato Franco Bechis. L’ assemblea dei redattori del Corriere dell’ Umbria, del Corriere di Rieti, del Corriere di Viterbo, del Corriere di Siena e del Corriere di Arezzo, riunita a Perugia la mattina di martedì 9 gennaio, ascoltate le dichiarazioni programmatiche del direttore Franco Bechis, ha votato con scrutinio segreto la fiducia con 48 sì, nessun voto contrario e nessun astenuto. Nel suo discorso, Bechis ha spiegato che i quotidiani resteranno fortemente legati al territorio, con modifiche flessibili ai contenuti, una riforma grafica che li semplifichi, una collaborazione con l’ Università di Perugia per nuove iniziative sul web, l’ apertura di una sezione economica per raccontare personaggi ed eccellenze dei cinque territori e altre nuove iniziative in cantiere che uniscano cartaceo e i 5 siti internet dei Corrieri. Le Monde rettifica: infondate accuse contro Berlusconi e Fininvest. Fininvest ha preso atto della rettifica con cui il quotidiano Le Monde, nell’ edizione di ieri, ha corretto quanto aveva scritto su Silvio Berlusconi e sulla Fininvest. La rettifica si riferisce a due articoli, del 4 agosto 2015 e del 10 luglio 2017, rispettivamente intitolati «Quando Berlusconi viene a patti con la Piovra» e «Quando Berlusconi trattava con Cosa nostra». Nella precisazione che ieri è comparsa sia sull’ edizione cartacea del quotidiano parigino sia sul sito, ha spiegato una nota del gruppo Fininvest, si riconosce che in Italia «sono stati avviati diversi procedimenti penali per verificare se Berlusconi e il suo gruppo Fininvest avessero utilizzato capitali di provenienza mafiosa, ma dopo approfondite indagini, finalizzate soprattutto ad analizzare le dichiarazioni dei pentiti e i flussi finanziari di Fininvest, questi procedimenti hanno portato a provvedimenti di non luogo a procedere o di assoluzione». «In queste sentenze definitive», riconosce Le Monde nella rettifica, non c’ è «alcuna prova che Fininvest e Silvio Berlusconi abbiano potuto beneficiare di somme di origine mafiosa, o che si siano dedicati a riciclare tali somme». La community Vatican News oltre i 4 mln di utenti. Una community che supera 4 milioni di utenti tra Facebook, Twitter, YouTube e Instagram. È il risultato della riorganizzazione dei canali social della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede unificati sotto il logo Vatican News lanciato nelle settimane scorse. In particolare il varo di una global page su Facebook ha consentito di aggregare oltre 3 milioni di follower, che hanno la possibilità di consultare le pagine delle sei lingue attualmente disponibili (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese). I social media di Vatican News sono coordinati dalla direzione editoriale e dalla direzione teologico-pastorale della Segreteria per la Comunicazione. Ad un team della Segreteria per la Comunicazione, in sinergia con la Segreteria di Stato, sono affidati gli account social del Papa: @Pontifex su Twitter (oltre 44 milioni di follower in 9 lingue) e @Franciscus su Instagram (oltre 5 milioni di follower sul canale unico multilingue). Tv, ricostituito il Comitato media e minori presso il Mise. È stato ricostituito il Comitato media e minori del ministero per lo sviluppo economico, cui è affidato il compito di verificare il rispetto del relativo Codice di autoregolamentazione, varato il 29 novembre 2002, da parte delle emittenti televisive. Nel prendere atto della caratura professionale dei componenti scelti dal ministero e dall’ Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, oltre che dal Consiglio nazionale degli utenti, lo stesso Cnu auspica che il neoeletto Comitato possa insediarsi e avviare i propri lavori al più presto, dopo due anni di interruzione. Una particolare attenzione alla qualità delle trasmissioni televisive, che si auspica siano sempre più rispettose della sensibilità di un pubblico di minori, è infatti la richiesta più pressante che perviene dalle associazioni, dalle famiglie e dagli utenti.

Audience, misurarla è un rebus

Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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I sistemi di misurazione del successo o meno di un prodotto o servizio sono fondamentali per una corretta allocazione delle risorse. Tuttavia la rivoluzione digitale e le opportunità tecnologiche stanno mettendo in discussione molti dei sistemi di misurazione che finora hanno guidato gli investimenti. Soprattutto nel mondo dell’ editoria e dello show-biz più in generale. Per esempio, tutti i sistemi che valutano le audience della radio, della tv, del web, della carta stampata, sono stati sottoposti ad ampie revisioni, che, tuttavia, ancora non soddisfano molti soggetti, e in particolare larghe fette di investitori pubblicitari. Tanto per dire: la riuscita o meno di un programma televisivo va valutata in base agli ascolti del giorno di messa in onda, oppure sui sette giorni, o su un periodo più lungo, o su determinati target? Un tempo non c’ era alcun dubbio. Ma, con la diffusione degli ascolti on demand e differiti, questo è un tema che coinvolge sempre più in profondità l’ attendibilità dei sistemi di misurazione. Per il cinema vale, ma non ancora per molto, il parametro del box office: se una pellicola ha un buon successo nelle sale, viene poi venduta a prezzi più alti alle varie piattaforme, in streaming, in pay, in chiaro. E se anche il botteghino in sé già non rappresenta ormai più la fonte principale di ricavi di un prodotto cinematografico, è tuttavia la base da cui si parte per poi migliorare la performance. Anche in questo comparto, però, siamo di fronte a una rivoluzione copernicana: Netflix compra o produce film originali (saranno 80 nel 2018), ma salta il passaggio in sala, e trasmette i titoli, di cui detiene il 100% dei diritti, direttamente sulla piattaforma in streaming a pagamento. Il box office, perciò, non c’ è più. Come valutare, quindi, la riuscita o meno di una pellicola? Per esempio, il film Bright, con Will Smith, costato oltre 90 milioni di dollari (75,2 mln di euro), è stato rilasciato su Netflix lo scorso 22 dicembre. In tre giorni, dal 22 al 24 dicembre, ha intercettato, secondo stime Nielsen, una audience di oltre 11 milioni di spettatori. Sono tanti? Sono pochi? Ripagano Netflix dell’ investimento (una serie dura, in genere, 10-12 puntate, ha ascolti spalmati nel tempo, se funziona può allungarsi su più stagioni. Un film, invece, viene consumato in due ore e poi stop)? È ancora difficilissimo dirlo. Ad esempio, la secondo stagione di Stranger things, sempre su Netflix, nei primi tre giorni di programmazione (dal 27 al 29 ottobre) ha avuto, secondo Nielsen, una audience di 15,8 milioni di spettatori. Il fatto è che la stessa Netflix respinge al mittente le misurazioni di Nielsen, spiegando che non sono né corrette né complete. E, insomma, pure per i film, che almeno avevano una base oggettiva da cui partire per valutare il successo o meno del prodotto, si aprono ora gli scenari di congetture, voli pindarici, qualità del target, giorno della settimana, invasione delle cavallette e quant’ altro, tipici degli altri mezzi di comunicazione. Netflix nel 2018 investirà circa otto miliardi di dollari (6,7 mld di euro) in contenuti originali ed esclusivi, tra cui ben 80 film. Dopo Bright (per il quale è già previsto un sequel), ci sarà un altro blockbuster made in Netflix in uscita nei prossimi mesi: il kolossal The Irishman di Martin Scorsese, con Robert De Niro e Al Pacino, costato oltre 120 milioni di dollari (100,3 mln di euro). E a decidere se questi prodotti potranno essere considerati o meno dei grandi successi cinematografici non saranno più i botteghini, ma solo l’ algoritmo, tutto fuorché trasparente, che lega i 109 milioni di abbonati a Netflix nel mondo. © Riproduzione riservata.

Debutta su InBlu Radio ATuXtv, il programma di critica televisiva condotto da Mariano Sabatini

Prima Comunicazione
PAOLO RUFFINI, PAOLA GALLO
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InBlu Radio, il network delle radio cattoliche della Cei, lancia il programma ‘ATuXTv’, ideato e condotto da Mariano Sabatini, giornalista e critico televisivo, che andrà in onda dal 6 gennaio 2018 ogni sabato pomeriggio alle ore 18.15. In questo programma radiofonico il palinsesto delle grandi reti e dei network (Rai, Mediaset, La7, Sky, Netflix) verrà messo sotto la lente d’ ingrandimento. La rubrica settimanale, spiega una nota, si occuperà di tutti i palinsesti e le piattaforme, sempre nella convinzione che la tv, conclude Sabatini, “va presa a piccole dosi, ma soprattutto scegliendola bene”. “Sono molto felice – afferma Sabatini – di intraprendere questa nuova avventura professionale in un momento in cui si assottiglia la voglia di ascoltare o leggere voci dissenzienti applicate al piccolo schermo. Non a caso quasi tutti i quotidiani hanno espunto spazi di questo genere, preferendo lisciare il pelo ai teledivi. Fare critica televisiva in una zona franca, su una radio fortemente radicata sul territorio nazionale come InBlu è davvero una prospettiva esaltante, di questo ringrazio Paolo Ruffini e Paola Gallo”.

Così siamo più vulnerabili alle fake news

La Stampa
LINDA LAURA SABBADINI
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Tanti, troppi cittadini non si informano di politica. Soprattutto donne ma anche uomini. Per mancanza di interesse,dicono, ma in modo crescente anche per sfiducia. Se non ci si informa adeguatamente è più difficile scegliere in libertà a chi dare in mano le redini del Paese. È più difficile far vivere realmente la democrazia nel suo momento più alto, quello della scelta dei rappresentanti del popolo. E allora dobbiamo preoccuparci del 37% delle donne che non si informa mai o quasi mai di politica e del 24% degli uomini. Come potranno scegliere chi votare? Aggiungiamo un altro elemento alla riflessione. Attraverso quali canali ci si informa di politica. Ebbene sembrerà strano ma non è affatto internet il veicolo principale. Il 31% lo utilizza, ma solo la metà di questi attraverso i social, cioè solo il 15% di chi si informa di politica. I canali sono sostanzialmente quelli tradizionali, si sconvolge il panorama politico, ma non quello dei mezzi dell’ informazione: al primo posto la tv, usata dal 90%, seguita dai quotidiani che, seppure in calo, mantengono un ruolo rilevante per l’ informazione politica con il 39%, superiore a internet, seguiti dalla radio e dai canali informali, soprattutto amici e parenti, particolarmente per i giovani. La televisione mantiene il primato, ma non tanto per i dibattiti politici, che sono in forte declino negli ascolti e coinvolgono il 14% delle donne e il 23% degli uomini, quanto perché si ascoltano le notizie in trasmissioni come i tg o altre. Il che può anche voler dire che solo un segmento più piccolo di popolazione utilizza canali adeguati per approfondire e comprendere la posta in gioco e le posizioni in campo. Gli altri si accontentano, magari, di poche notizie e sono, quindi, più facilmente preda dell’ uscita a effetto di qualche leader. Un po’ come è successo recentemente in Gran Bretagna, molti elettori hanno votato per la Brexit «con la pancia» senza sapere a che cosa andavano incontro. Non ci serve un’ altra Brexit in Italia, non ci serve un voto di rabbia in questo momento, ci porterebbe allo sfascio. E allora è necessario un richiamo alla responsabilità di tutti, in primis ai partiti, ma anche ai cittadini. I partiti siano chiari e non demagogici nelle proposte, non approfittino di questa situazione. Abbiamo bisogno di un confronto serio sulle proposte. I cittadini siano esigenti. Pretendano programmi chiari e praticabili. Soprattutto le donne, escano dal silenzio e con la loro tradizionale concretezza pretendano ricette chiare per il rilancio del Paese. Se le donne si informano meno è perché la politica è lontana da loro, non se ne è occupata adeguatamente. Usciamo, a fatica, solo da poco, da una crisi dolorosa, è un momento cruciale per il Paese. Possiamo uscirne risanando le ferite della crisi e con un salto in avanti, oppure dilaniandoci in una guerra di ultras da stadio. Mai come ora serve un’ informazione responsabile e obiettiva e una politica che metta in campo progetti chiari, concreti e di grande respiro per l’ Italia e che permetta ai cittadini di scegliere informati e in coscienza sul futuro di tutti noi. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

Bastano dieci like per svelare il tuo vero io

La Stampa
MARCO PIVATO
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Tutto è cominciato con l’ analisi «analogica» su manoscritti poetici: già dagli anni Settanta del XX secolo linguisti europei e statunitensi fondano la linguistica cognitiva, una «scienza della letteratura» che da un testo sia in grado di trarre informazioni non esplicite sulla personalità dell’ autore – per esempio un poeta o un antico cronista – e sul suo tempo. All’ inizio del nuovo secolo questa disciplina si evolve nella psicometria digitale, che si avvale di software, è condotta da informatici e cognitivisti e non si applica più ai testi poetico-letterari ma ai «like» che un utente lascia a un contenuto su Facebook e a parole chiave digitate sulla barra di Google. Cosa più importante, lo scopo da puramente conoscitivo diventa strategico, commerciale e politico. La ricerca Ci siamo arrivati grazie a ricercatori come lo psicologo americano James Pennebaker, chino sui dati di personalità dei suoi studenti collezionati dal 1999 al 2004, informatici come i britannici Jon Oberlander & Scott Nowson, primi nel 2006 a eseguire analisi di personalità dai vecchi blog, e François Mairesse che usando i dati di Pennebaker ottiene il primo risultato di predizione di personalità da testo, nel 2007. Nasceva così, una decina di anni fa, l’ economia dei Big Data fondata sul commercio dei profili che (quasi solo) i colossi di Internet vendevano alle aziende di prodotti, un mercato dapprima elitario ma che oggi è sostenuto da una miriade di grandi, medie, piccole imprese e start-up in tutto il mondo che vale miliardi di dollari. La svolta è arrivata con applicazioni come «MyPersonality», sviluppata nel 2008 da Michal Kosinski, psicologo ed esperto in ricerche sociali nei laboratori di Psicometria dell’ Università di Cambridge. Con i successivi aggiornamenti lo strumento diventa in grado di produrre inferenze sul credo religioso, colore della pelle, orientamento politico e tratti come estroversione, altruismo, livello di nevrosi. Ulteriori progressi, sempre certificati in questi anni dalle riviste internazionali specializzate, sono firmati ancora da Kosinski, questa volta in forze all’ Università di Stanford. Già in «Computer-based personality judgments are more accurate than those made by humans», pubblicato su «Pnas» nel 2015 Kosinski scrive che sulla base di 10 «like» i suoi algoritmi possono conoscere una persona meglio dei suoi colleghi, mentre 150 ne bastano per conoscerla meglio dei genitori, 300 meglio del partner. I software Lo scienziato si spinge allora più in là, per molti troppo, quando a settembre scorso pubblica su «Journal of Personality Social Psychology» uno studio che dimostra come il suo nuovo software «Vgg-Face» sappia distinguere fra omosessuali ed eterosessuali nell’ 91% dei casi quando si tratta di elaborare immagini di uomini e nel 83% nel caso di donne. Un esperimento che ha ispirato duri commenti da parte dei media occidentali, a partire dall’«Economist», primo a divulgare la ricerca, fino ai fan che hanno imbeccato il ricercatore direttamente sulla sua pagina Facebook. L’ Intelligenza artificiale applicata alla predizione dei trend sta avendo una ulteriore e sostanziale rivoluzione nell’ ultimo biennio, da quando società private hanno cominciato a utilizzare Big data «sociali» a scopo di marketing politico, elaborando mappe dei possibili elettori da intercettare con messaggi mirati. L’ inglese Cambridge Analitica, per esempio, è stata consulente, nel 2015, dell’ Istituto Leave.Eu, tra i più importanti a lavorare in favore della Brexit. Nello stesso anno la società si è anche dedicata al candidato Ted Cruz alle primarie Usa del Partito Repubblicano e dopo il ritiro di questo alla campagna presidenziale di Donald Trump. Il futuro Considerati gli interessi la psicometria digitale oggi è un campo in continua innovazione capace di spostare grandi capitali. Per fornire una misura sappiamo che la raccolta pubblicitaria, in gran parte acquisita monetizzando i dati dei Social nel 2017, è valsa a Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre (+45% sull’ anno precedente) secondo il rapporto «Facebook Reports Second Quarter 2017 Results», mentre la holding americana Alphabet, cui fa capo Google Inc, fondata nel 2015 e guidata da Larry Page e Sergey Brin, ha messo da parte 26 miliardi (+21% sull’ anno precedente) come annunciato da un comunicato della stessa azienda. In testa, nel rincorrere il nuovo mercato della predizione digitale, ci sono quindi gli Stati Uniti, con le big company già citate ma anche con Ibm e la sua app Personality Insights, disponibile anche in versione demo, creata per fornire abitudini dei clienti a livello individuale e su vasta scala. L’ Europa in generale è meno competitiva, anche se può contare su importanti aziende come la londinese VisualDNA, specializzata nel fornire i dati di ascolto di brand, agenzie ed editori e la francese Praditus. L’ Italia ha invece precorso i tempi nell’ agganciare il mercato, sia con la ricerca sia con il trasferimento tecnologico. In testa i gruppi di Informatica delle Università, da Bari a Torino e da Bolzano a Trento, in particolare, dove sono attivi il Mobile and Social Computing Lab della Fondazione Bruno Kessler (Fbk) e ancora un’ altra costola della Fbk, lo spin-off Profilio. Sebbene l’ azienda sia nata da pochi mesi i suoi fondatori, già dal 2008, all’ epoca dei successi di Kosinski, hanno dato il via allo sviluppo dei primi strumenti di predizione della personalità in assoluto. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

Informazione politica nell’ era digitale Web battuto, la tv resta regina

La Stampa
FRANCESCO GRIGNETTI
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Al gran mercato della politica c’ è chi si affaccia con entusiasmo per la prima volta. Ma i 500 mila neo-diciottenni che il 4 marzo voteranno per la prima volta, la mitica classe ’99 a cui il Presidente della Repubblica ha dedicato un pensiero affettuoso nel discorso di fine anno, forse non sanno quanto i loro comportamenti siano studiati minuziosamente dagli analisti. Quanto e se s’ informano di politica, con quale frequenza, come, attraverso quale canale. A raccontarci la propensione degli italiani a informarsi e partecipare alla politica, per i giovani come per tutte le classi d’ età, ci sono le tabelle dell’ Istat. Che ci dicono, ad esempio, che anche qui esistono due Italie: c’ è un 62,1% che si informa molto, tutti i giorni o quantomeno qualche volta a settimana; all’ opposto, c’ è un 36,6% che non si informa mai, o soltanto qualche volta a settimana, al massimo qualche volta al mese. E si badi che dieci anni fa si oscillava tra 57,4% e 40,3%. Andava peggio. C’ è anche una differenza di genere nel ripudio verso la politica: il 27,7% delle donne non si informa mai contro il 16,7% degli uomini. Attenzione alle medie e alle statistiche, però. È l’ eterna questione dei polli di Trilussa. Se si approfondiscono i numeri e i trend, si scopre che i divoratori di politica, quelli che non lasciano passare un giorno per informarsi, sono appena il 13,1% dei diciottenni contro il 31% dei trentacinquenni, il 38,9% dei quarantacinquenni, il 46% dei cinquantacinquenni. Fino ad arrivare al 49,3% dei sessantenni che s’ informa tutti i giorni. Più cresce l’ età, dunque, più monta la necessità di saperne. E viceversa. Così sono brutali le risposte quando si tratta di spiegare perché tanto disinteresse. Di quella frazione del 24,5% degli italiani che dichiara di «non informarsi mai di politica» (cioè un cittadino su quattro) il 61% ha fatto questa scelta perché la politica «non interessa», il 30% per «sfiducia nella politica», il 10% perché «è un argomento complicato», il 6% perché «non ha tempo». I numeri non sono meccanicamente sovrapponibili, però è evidente che questa del disinteresse e della sfiducia è anche l’ area dell’ astensione. E come ci si informa? Ovviamente qui c’ entrano le abitudini e l’ età. I quotidiani restano il canale privilegiato dell’ informazione politica per il 27,6% dei diciottenni (percentuale che si alza al 40% oltre i trentacinque anni). Ma nel tempo, si sa, il peso specifico della carta stampata è diminuito. Dieci anni fa, solo per restare ai diciottenni, i quotidiani pesavano per il 50%. Di contro, per informarsi di politica, i giovanissimi contano immensamente di più sugli amici (45,2%), i parenti (42,4%) e i conoscenti (17,8%). Un’ influenza, quella dell’ ambiente in cui si vive, che cala con il crescere della maturità. A cinquantacinque anni, gli amici contano per il 24,5%, i parenti per il 15,3%, i conoscenti per il 12,3%. La televisione, insomma, resta la regina incontrastata dell’ informazione politica d’ Italia. Come canale d’ informazione – ci dice l’ Istat – il piccolo schermo pesa ancora per il 90,4% ed è un dato abbastanza uniforme tra le diverse classi d’ età, passando dall’ 84,2% dei diciottenni fino al 93% dei sessantenni. I tg non hanno affatto perduto il loro ruolo di informazione di massa. E non solo loro. Ha destato polemica che la Rai abbia ricondotto persino il Festival di Sanremo alle regole della «par condicio». Polemizza il dem Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai: «Aver inserito tra le deroghe anche la presenza di esponenti regionali è un refuso, come è auspicabile, oppure corriamo il rischio di ritrovarci sul palco il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti?». Non meraviglia questa attenzione spasmodica alle tv da parte di tutti i partiti. Compresi i grillini che già diversi anni fa hanno abolito il veto sulla partecipazione dei loro leader ai talk-show (sia pure subordinandola alle loro regole). Anche se poi l’ appeal di questi programmi d’ approfondimento politico sembra davvero in caduta libera. Se la tv pesa tantissimo, l’ ascolto di un dibattito politico è sempre più marginale come canale d’ informazione: appena l’ 11,7% nella fascia che va da venticinque a quarantacinque anni (e soltanto un anno fa pesavano per il 14-15%); risale un pochino di più, al 21%, oltrepassati i cinquantacinque anni. L’ età conta, eccome, per quelli che s’ informano di politica attraverso Internet. Ed era prevedibile: sono il 47-48% per i giovani fino a 34 anni, si passa al 31% dei cinquantacinquenni, si scende ancora al 25% dei sessantenni, e al 14% per gli ultrasessantacinquenni. In questo universo, i social contano per circa la metà, i siti di informazione per il resto. Non è una percentuale così disprezzabile, anche se forse sopravvalutata dal sistema dell’ informazione. E allora si spiega perché l’ arzillo ottantenne Silvio Berlusconi due mesi fa abbia avviato il suo profilo Twitter. E ieri twittava, alla maniera di Trump: «Cedere il Milan è stata una scelta inevitabile, nel calcio dei petrodollari. Anche se vederlo giocare con un modulo sbagliato mi fa venire il mal di stomaco». Vuoi mica abbandonare quella frazione (piccola o grande che sia) di elettorato che vive di calcio e Twitter? BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

“No alla guerra ai talk Anche i servizi di cronaca influenzano gli elettori”

La Stampa
MICHELA TAMBURRINO
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La televisione lui la sente talmente tanto da percepirne il più minimo cambiamento d’ odore. Bruno Vespa, già direttore del più autorevole telegiornale italiano e oggi padrone di casa a Porta a Porta, in quella che dai tanti politici ospiti viene definita senza tema di smentita la terza Camera, non si stupisce più di tanto a sentire che, secondo i dati Istat, la tv resta la regina incontrastata dell’ informazione politica in Italia. Vespa, se lo aspettava un tale successo di audience, senza differenza di genere e, quasi, anche di età pure se i programmi di approfondimento invece patiscono una certa flessione? «Non mi stupisce affatto ma devo anche dire che in questo momento la politica è tornata alla grande anche nelle trasmissioni di approfondimento. Dati alla mano. Ed è normale perché la gente è interessata a quello che succede, se il panorama è combattuto allora si va benissimo con ascolti importanti». Perciò dove è la flessione? «Bisogna ragionare in termini di orario. Un programma di prima serata, a meno di un disastro, non vedrà mai una curva scendere molto. Dopo le 23,30 c’ è un calo fisiologico, di pubblico ma non di share». Eppure voi per primi avete deciso di mettere in menu diversi argomenti abolendo la puntata monotematica. «Abbiamo capito in anticipo sugli altri che la politica non reggeva più un’ intera trasmissione. Ma nulla regge più un’ intera trasmissione. Il nostro approccio si è fatto molto veloce e serve un cambio di passo. Infatti gli altri ci hanno seguito. Floris inizia con la politica e poi c’ è il nutrizionista e l’ avvocato dei consumatori». Così lei tiene, la politica, in pole position. Continuerà? «Certo, i primi 40 minuti e c’ è un ascolto fortissimo. Ieri sera abbiamo avuto Di Maio, poi avremo Renzi, Berlusconi, Grasso, Minniti, Meloni, Salvini. Male che vada avranno 1 milione e 800 mila telespettatori, mica male no?». Perché la tv è ancora, come affermava lei tempo addietro, strumento di orientamento? «Sicuro, infatti Berlusconi che l’ aveva sempre capito ci è diventato ricco. E ha sempre saputo come funzionava. Nell’ incontro con Prodi del 2006 negli ultimi 30 secondi di trasmissione tirò fuori l’ abolizione dell’ Imu e recuperò nel confronto. A differenza di quanto avviene in America, in Italia i confronti li fa chi insegue, ogni volta te la giochi». E adesso? Chi gioca con chi? «Infatti ho chiesto a Di Maio chi avrebbe sfidato e lui mi ha risposto: “I candidati premier”. Ma ora non ce ne sono». Dai dati risulta che i telegiornali sono una fonte di approvvigionamento politico primaria. «I Tg sono fonti decisive, in ogni caso, da che mondo è mondo, la politica non si fa marcando il territorio con una battuta da venti secondi. Si fa con la cronaca». In che senso? «Un pezzo forte sui rifiuti a Roma, diventa un pezzo politico e sarà più devastante di qualsiasi dichiarazione a freddo. L’ orientamento politico non deriva dalla bontà dei 15 secondi parlati ma dal contesto generale. Nei talk vai nello specifico della politica e hai l’ ospite nudo che si gioca la pelle». I social tra i ragazzi risultano essere una fonte di notizie anche politiche. Bene o Male? «Male. Sono pericolosissimi, ci trovi un numero enorme di fake news, l’ obiettività è scomparsa. I social sono strumenti di propaganda e possono disorientare chi non ha le capacità per decriptare il messaggio. Infatti gli inventori di Google e dei grandi motori di ricerca si stanno ponendo il problema proprio in questi giorni». Nella lettura dei quotidiani si sente più forte il divario generazionale comunque, a differenza delle riviste, tengono. Bene? «Molto bene. I giornali sono un momento importante di approfondimento e anche i giornali infatti cambiano e aggiustano il tiro. Basta con le paginate dedicate alla politica, non vanno più. Invece bisogna legarsi ai problemi della gente, questo sì. Perché la politica è sangue e vita, è tasse, è pensioni, è livello di standard qualitativi. Così ci si riposiziona in questo senso». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

La Rai pronta a mollare La Formula 1 tutta a Sky

Corriere della Sera
d. spa.
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Dopo il disimpegno dai Mondiali in Russia (senza Italia) la Rai è pronta a mollare anche la F1. Le possibilità di assistere alla sfida fra Ferrari e Mercedes solo su Sky crescono ogni giorno di più. La tv pubblica per rilanciare gli ascolti in prima serata punta sul calcio, ai diritti in chiaro della nuova Champions (in mano a Sky). Liberty ritiene inadeguata l’ offerta di Viale Mazzini per la F1 e non ci sono stati rilanci. Sky, se la Rai continuerà a non mostrare interesse, si terrà tutto il pacchetto trasmettendo alcune gare in chiaro.

I COSTI DELLA RAI E IL FALSO MITO DEL CANONE

La Repubblica
Roberto Perotti
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Può darsi che un euro pagato sotto il nome di “Irpef” faccia perdere meno voti di un euro pagato sotto il nome di “canone”. Purtroppo, abolire il canone non fa niente per risolvere il vero problema di fondo, quello di una azienda enormemente sovradimensionata e inefficiente. Il costo medio del lavoro in Rai è del 20 per cento più alto che in Bbc, che peraltro produce programmi e documentari di altissima qualità, riconosciuti e acquistati in tutto il mondo. Il personale Rai è quasi identico a quello del 2002, mentre da allora quello della Bbc è sceso del 35 per cento. La Rai ha la metà del bilancio ma una volta e mezza il numero di dirigenti della Bbc. Dal 2011 in Bbc il numero totale dei dirigenti è sceso di oltre il 25 per cento; in Rai è rimasto invariato. In Bbc 31 dirigenti sono pagati più di 200mila euro; in Rai sono 86. In Rai un giornalista su cinque è dirigente, probabilmente un record mondiale. Come se non bastasse, il canone in bolletta del 2016 ha fatto un ulteriore, enorme regalo alla Rai. Anziché pensare a una necessaria cura dimagrante, il governo ha fatto esattamente l’ opposto: ha messo gentilmente a disposizione della Rai una marea di soldi inattesi. Così, nel 2016 il bilancio della Rai è aumentato di 300 milioni. La Rai non ha perso tempo: dopo anni di sacrosante riduzioni il personale ha ripreso ad aumentare, grazie ad una infornata di dirigenti. Il segretario della Commissione di vigilanza della Rai alla camera Michele Anzaldi scrive: «Se tagliamo 1,5 miliardi di spesa pubblica ed eliminiamo il canone Rai, i cittadini pagano meno». Se comprendo bene, questo tweet sembra suggerire che l’ abolizione del canone porterebbe automaticamente a una equivalente riduzione delle spese della Rai. A parte la piroetta a soli due anni dal canone in bolletta, sarebbe interessante capire come. La Rai ha un bilancio di 2,8 miliardi, finanziato per 700 milioni dalla pubblicità e il resto dal canone (più altre piccole entrate). Supponiamo di abolire il tetto e di raddoppiare i minuti di pubblicità (un aumento enorme): guadagniamo 700 milioni. Mancherebbero ancora all’ appello 1,4 miliardi. Cosa facciamo? La realtà è che nessun politico si è mai peritato di dare un’ occhiata a un bilancio Rai e a uno della Bbc, e di rifletterci sopra. Nessuno ha mai fatto proposte concrete per ridurre i costi esorbitanti della Rai, e quindi il peso sulle tasche dei cittadini. Tutto il resto, dall’ ennesima riforma della governance dell’ azienda alle interminabili, sottili disquisizioni sulla definizione ontologica di “servizio pubblico”, fino alla contrapposizione tra canone e fiscalità generale, è irrilevante rispetto al problema dei costi. Il canone per tenere in piedi un grande baraccone inefficiente e clientelare è un balzello iniquo e odioso, ma almeno ha il pregio di essere trasparente. Mettere la Rai a carico del bilancio dello stato consentirà invece a chi la controlla di stanziare qualche centinaio di milioni in più o in meno, a seconda che la consideri amica o nemica, senza che si noti troppo. La Rai è un problema aziendale, non di etichette. I politici farebbero bene a studiare ed affrontare i fatti e i numeri. Nessun tweet può sostituire la dura realtà. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Perotti, economista, è professore alla Bocconi. Ha insegnato alla Columbia University di New York. Nel 2015 è stato consigliere economico del presidente del Consiglio. Il suo ultimo libro è Status quo (Feltrinelli, 2016)


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