Indice Articoli
La retromarcia di Renzi. “Canone Rai da abolire”
Piano impossibile: senza l’ imposta l’ azienda non regge
Dopo Fedez, J-Ax e Ruggeri abbandonano la Siae e passano alla Soundreef
La retromarcia di Renzi sul canone Rai
Proposta dem: abolire l’ imposta. Calenda: presa in giro, meglio privatizzare. È scontro
Ma siamo ancora alla legge Gasparri
Il segretario «Si può garantire il servizio pubblico facendo pagare di meno»
Premio Posillipo sulla cultura del mare
Netflix ha superato i 110 milioni di abbonati e incassa ormai più di 3 miliardi a trimestre, con …
Via il canone Rai, lite Pd-Calenda Poi Renzi frena: lo ridurremo
Amazon rilancia sul calcio: assalto alla Premier League
Ruggeri passa a Soundreef. Siae: «Incomprensibile»
Chessidice in viale dell’ Editoria
Google, stop a pubblicità invasive
Il Pd spara: «Via il canone Rai» In bolletta l’ hanno messo loro
È Alberto Angela l’ unica certezza Rai
I quasi sei milioni di Alberto Angela danno un senso alla tv pubblica
La retromarcia di Renzi. “Canone Rai da abolire”
Il Fatto Quotidiano
Luciano Cerasa
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Il canone, ultima carta da giocare per pretendere dalla Rai di tenere in piedi quel poco che è rimasto del servizio pubblico radiotelevisivo, è entrato nel mercato dei “bonus” elettorali, come il bollo sulla prima auto e l’ Iva sulla sabbietta dei gatti (proposte da Berlusconi). Il tentativo di sparigliare la gara a distanza tra chi la spara più grossa, è ancora una volta di Matteo “bomba” Renzi che, memore dei benefici degli 80 euro – distribuiti a chi meno ne aveva bisogno – sui risultati del Pd alle ultime Europee, fa finta di lanciare un guanto di sfida sul tavolo del patto del Nazareno per raccattare voti. Secondo un’ indiscrezione riportata ieri da Repubblica, Renzi proporrà nella prossima direzione del partito di cavalcare l’ abolizione del canone di servizio – inserito nel 2016 nella bolletta della luce proprio da lui nel tentativo di farlo pagare a tutti – e di trasferire “provvisoriamente” l’ onere del mantenimento della tv pubblica direttamente sul Tesoro, in attesa che sia in grado di mantenersi da sola con la pubblicità. Una mossa, sottolinea il quotidiano, volta a sfidare anche il potere di Berlusconi, perché salterebbero contestualmente i tetti alla pubblicità Rai che finora hanno favorito Mediaset. Il primo a saltare sulla sedia alla lettura della notizia è stato il ministro per lo Sviluppo, Carlo Calenda, che reagisce duramente su Twitter: “Spero che non sia la proposta del Pd per la campagna elettorale. I soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro”. Quindi meglio non finanziare la Rai per niente. Calenda infatti ci torna a stretto giro di posta per rintuzzare il fuoco di fila dei renziani e rincara: “È un peccato che si debba ricadere sulla linea delle promesse stravaganti a tutti su tutto”. “Se si vuole affrontare la questione del canone – chiarisce il ministro – allora si ragioni su privatizzazione Rai altrimenti è presa in giro”. La polemica all’ interno della ex maggioranza di governo a questo punto si infiamma. “Caro Calenda, se tagliamo 1,5 miliardi di spesa pubblica ed eliminiamo il canone Rai i cittadini pagano meno. Altro che presa in giro: serve processo modernizzazione ed eliminazione sprechi unici in panorama tv con un risparmio immediato di 500 mila euro, come con stop Imu”, scrive su Twitter il deputato del Partito democratico Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai. Lo stesso Renzi, intervenuto in giornata, la butta in proclama: “Si può garantire il servizio pubblico abbassando il costo per i cittadini: mi sembra giusto e doveroso. Abbiamo iniziato ad andare in questa direzione. Continueremo. Non ci interessano i proclami e le polemiche di giornata: per noi parlano i fatti. Avanti, insieme”. Per l’ Usigrai, il sindacato dei giornalisti della tv pubblica, l’ attacco elettorale alla Rai è un copione già visto: “Segnaliamo che laddove si è abolito il canone, il servizio pubblico è stato fortemente ridimensionato. A tutto vantaggio dei privati. Se questo è l’ obiettivo basta dichiararlo apertamente”. “Senza canone o altro genere di finanziamenti, penso che sia difficile fare servizio pubblico dovendo reperire tutte le risorse dal mercato”, afferma la consigliera d’ amministrazione di Viale Mazzini, Rita Borioni. “Il punto non è tanto e non solo il canone, ma fornire ai cittadini un servizio pubblico di alta qualità, recidendo il filo tra la politica e la concessionaria pubblica, riformando le modalità con cui si scelgono i vertici Rai“, rimarca Roberto Fico, presidente M5S della Vigilanza Rai. Il senatore di Fi Maurizio Gasparri, autore dell’ ultima riforma, definisce la proposta “farsesca”: “Si rimetta mano alla Rai seriamente, con una graduale privatizzazione, ma confermando un nucleo forte di servizio pubblico”.
Piano impossibile: senza l’ imposta l’ azienda non regge
Il Fatto Quotidiano
Carlo Di Foggia
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Il piano di Matteo Renzi per abolire “l’ odiata tassa” segue due direzioni, gentilmente recapitate a Repubblica: “‘Lo Stato supplirà al canone trasferendo tra un miliardo e mezzo e due miliardi all’ azienda. È la stessa cifra che chiedevamo ai cittadini’ () Cifra che dovrà ridursi fino a scomparire, appena la Rai si sarà consolidata nel nuovo mercato pubblicitario, libero dai tetti del passato”. I tetti sarebbero quelli pubblicitari imposti alla Rai dalla legge. Problema: senza il canone la Rai non reggerebbe, e già così non se la passa bene. I conti. Nel 2016 il governo Renzi ha inserito il canone nella bolletta elettrica prevedendo di destinare l’ extragettito per il 67% alla Rai (dal 2017 è sceso al 50%) e trattenendo il resto. Sono stati incassati due miliardi (+16% sul 2015), con l’ evasione passata dal 30 al 6%. Alla Rai sono arrivati 1,88 miliardi, 272 milioni in più rispetto alla media storica, di poco inferiore agli 1,7 miliardi. Nel 2017 la quota di extra-gettito si è ridotta e il canone è sceso da 100 a 90 euro (nel 2015 era di 113). A conti fatti, il governo ha fatto cassa e alla Rai rimarranno 1,6 miliardi e dispari, più o meno come prima della riforma. L’ incasso totale del canone dovrebbe essere di 1,8 miliardi, per il 2018-2019 le previsioni sono al ribasso. Il tetto. Per farla vivere di sola pubblicità, Renzi vuole far saltare il tetto oggi imposto alla Rai, mandando così un messaggio bellicoso a Mediaset e a Silvio Berlusconi. Le cose sono più complesse. Oggi Viale Mazzini ha un doppio limite agli spot fissato dalla legge Gasparri (governo Berlusconi II ): uno orario (il 12%) e uno settimanale (il 4%) per il quale però si considerano Rai1, Rai2 e Rai3 nel loro insieme. Mediaset vuole invece che il tetto settimanale sia rispettato da ogni canale, con l’ obiettivo di drenare pubblicità a Rai 1 (vale circa 100 milioni di euro di spot). Prima di Natale l’ Agcom, l’ authority per le comunicazioni, ha discusso un ordine del giorno del consigliere forzista Antonio Martusciello che va in questa direzione. La decisione finale non è ancora arrivata. Il Biscione lamenta che il tetto al 4% è troppo alto, ma non è vero: era stato giustificato con la rivoluzione digitale che avrebbe moltiplicato i canali riducendo la ristrettezza di frequenze dell’ analogico, ma non ha prodotto soggetti forti oltre Rai e Mediaset (La7 è imparagonabile e non se la passa bene). Gli spot. Non sembra che la Rai possa stare sul mercato e “fare piena concorrenza ai colossi privati come Mediaset” (Repubblica dixit). La raccolta Rai langue. La Sipra – così si chiamava Rai Pubblicità – dieci anni fa incassava oltre un miliardo di euro, nel 2017 punta a fermarsi a 680 milioni, ma nel primo semestre aveva già perso l’ 8%. La discesa sembra inesorabile per l’ invecchiamento del pubblico e l’ offerta televisiva poco appetibile. In generale, il mercato pubblicitario non è in via d’ espansione e tende a contrarsi, il futuro è nella distribuzione mirata, la pubblicità sulla tv generalista è declinante (anche per Mediaset). Con un dettaglio: oggi Cologno Monzese ha il 65% del mercato (e la quota è in crescita), la Rai solo il 30%. Far saltare il tetto non porterà a un boom di raccolta per un’ azienda priva di pay tv e che non è abituata a competere con un colosso che domina il mercato da anni, senza contare che molti utenti, liberati del canone, potrebbero usare i risparmi per sottoscrivere abbonamenti alle tv a pagamento (Mediaset Premium o Sky). In realtà il danno peggiore lo subirebbe l’ editoria, la cui raccolta è scesa del 10% e un ampliamento di quella Rai andrebbe ulteriormente a suo danno. Il risultato. Renzi potrà rivendersi alle urne l’ eliminazione della tassa, sostituendola con un trasferimento statale (finanziato da tagli di spesa o altre tasse) ma non può andare oltre questa partita di giro se non vuole far fallire l’ azienda facendo così un regalo a B.. È evidente che il messaggio è politico. Serve a far sapere a Mediaset (e al suo proprietario) – che spera in un Gentiloni bis, con cui ha ottimi rapporti – che sulla tv decide lui. Per questo non ha avvisato della sparata il ministro competente, Carlo Calenda (Sviluppo) con cui c’ era stato un riavvicinamento. Da tecnico d’ esperienza Calenda sa bene che il piano di Renzi non sta in piedi. E ieri, irritato, lo ha fatto sapere.
Dopo Fedez, J-Ax e Ruggeri abbandonano la Siae e passano alla Soundreef
Il Fatto Quotidiano
Roberto Rotunno
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La Siae, società che gestisce da monopolista i diritti d’ autore degli artisti, ha perso altri due nomi grossi della musica italiana. Enrico Ruggeri e J-Ax sono passati ieri a Soundreef, seguendo un percorso già intrapreso da Fedez, Rovazzi e Gigi D’ Alessio. “Ringrazio la Siae per gli anni trascorsi assieme – ha spiegato Ruggeri – e inizio una nuova avventura”. Dello stesso tenore il commento dell’ ex cantante degli Articolo 31: “Dopo averne sentito parlare – ha scritto in una nota – ho fatto la mia scelta lasciando Siae”. Sentito dal Fatto, J-Ax non ha aggiunto altro: “È una scelta che faccio senza polemica”. Entrambi, insomma, hanno evitato di caricare di significato “politico” il trasloco alla start up inglese. Resta comunque una chiara scelta di campo. Tra la Società italiana degli autori e degli editori e Soundreef, infatti, è in corso una guerra mediatica. Il tema è la liberalizzazione del servizio di gestione e tutela dei diritti d’ autore. La Siae, in Italia, li gestisce in via esclusiva da oltre un secolo. Negli ultimi anni, però, ha preso sempre più forma un movimento di opinione che sostiene la liberalizzazione di questo mercato. Proprio Fedez – passato a Soundreef un anno fa – ne è uno dei maggiori esponenti e ha spesso accusato il ministro Dario Franceschini di non intervenire essendo in conflitto d’ interessi (sua moglie cura le relazioni esterne di una fondazione culturale legata alla società che gestisce immobili Siae). In favore dei liberalizzatori, ci sono le norme europee della direttiva Barnier, recepita in più passaggi dall’ Italia. Le ultime modifiche sono arrivate con il collegato fiscale. Attualmente, sul suolo nazionale possono operare solo gli organismi di gestione collettiva (ogc) purché senza fini di lucro o controllati dagli stessi artisti (la Siae soddisfa entrambe le condizioni). Le entità di gestione indipendente (come Soundreef) non possono concedere licenze direttamente e per operare devono stringere accordi con uno di questi organismi. Siae sostiene che, anche alla luce delle nuove regole, la sua concorrente continui a essere fuori legge. “La società – ha scritto – sulla base della normativa vigente, opera illegittimamente nel nostro Paese”. Si attende a breve un provvedimento dell’ Autorità garante della concorrenza e del mercato.
La retromarcia di Renzi sul canone Rai
Il Fatto Quotidiano
Giovanni Valentini
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“Io detesto pagare il canone Rai, lo trovo una tassa odiosa. Ma non potendo eliminarlo, almeno per il momento, abbiamo preteso che lo pagassero tutti perché tutti potessero pagare meno” (da “Avanti” di Matteo Renzi – Feltrinelli, 2017 – pag. 72) Va bene che siamo in campagna elettorale e, come a Carnevale, ogni scherzo vale: fa rima anche in questo caso. Ma l’ intenzione di abolire il canone Rai, lanciata come un ballon d’ essai da Matteo Renzi in vista della prossima direzione del Pd, è un’ abiura prima ancora che una proposta propagandistica: tanto più che il gettito dovrebbe essere parzialmente sostituito da un finanziamento statale di 1-1,5 miliardi di euro, sempre a carico dei contribuenti. Questa sarà pure la “tassa più odiata dagli italiani” e tuttavia fu inserita nella bolletta elettrica proprio dalla “riformicchia” del governo Renzi, insieme all’ incostituzionale manomissione del Cda con il direttore generale nominato dall’ esecutivo anziché dal Parlamento e dotato di “pieni poteri”. Ora, dopo appena due anni, l’ ex rottamatore annuncia il proposito di tornare sui propri passi, nel tentativo di compiacere evidentemente la parte più ostile dell’ elettorato e recuperare un po’ di consenso. Una retromarcia, più che un ripensamento; una “conversione sulla via di Damasco” tanto più sorprendente e sospetta a così breve distanza. È vero che intanto il canone è sceso da 113 a 90 euro all’ anno, 12 rate, 7,5 euro al mese. Ma nel frattempo non è cambiato purtroppo il servizio pubblico né tantomeno il contesto generale del mercato pubblicitario, a cui in futuro la Rai dovrebbe attingere al pari dei concorrenti privati e danno di tutti gli altri media. Opportunismo e propaganda a parte, sta proprio qui l’ errore strategico del segretario Pd: cioè nella mancanza di una visione organica e complessiva dell’ intero sistema delle comunicazioni, dominato da una prevalenza della televisione che non ha paragoni nel resto d’ Europa. Una tv che ancora forma e deforma l’ opinione pubblica, influendo sui comportamenti dei cittadini e anche sulle loro scelte elettorali. E che continua a drenare risorse pubblicitarie sempre più scarse, a scapito del pluralismo dell’ informazione e della libera concorrenza, in direzione opposta a quel riequilibrio auspicato fin dal 2004 dal presidente Ciampi nel suo messaggio alle Camere. A causa del macroscopico conflitto d’ interessi che tuttora incombe su Silvio Berlusconi, in quanto leader politico del centrodestra e concessionario pubblico, la mossa di Renzi appare orientata poi a colpire direttamente il suo principale avversario politico e indirettamente altre emittenti private, a cominciare da La7, che hanno legittimamente cercato uno spazio alternativo valorizzando la presenza e l’ attività del Movimento 5 Stelle. Se la Rai dovesse operare sul mercato pubblicitario a parità di condizioni rispetto ai suoi competitor, senza l’ obbligo di rispettare indici di affollamento più bassi, da una parte rinnegherebbe definitivamente la propria funzione istituzionale di servizio pubblico e dall’ altra indebolirebbe ulteriormente gli altri mezzi, dai giornali a Internet. È per tutte queste ragioni che la trovata elettorale di Renzi, al netto della sua carica di populismo e demagogia, equivale a un’ abiura culturale e per così dire ideologica. Perché ripudia il fondamento del servizio pubblico radiotelevisivo e la sua stessa legittimazione. E perché, responso elettorale permettendo, rischia di destabilizzare ulteriormente un sistema che nel suo complesso non garantisce il pluralismo, l’ indipendenza e l’ imparzialità dell’ informazione.
UN POPOLO DI EDITORI
Il Foglio
MICHELE MASNERI
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Baldini & Castoldi, Bollati & Borin- ghieri, Bompiani, Cairo, Carocci, Castelvecchi, De Agostini, Donzelli, Garzanti, Giunti, Guanda, Einaudi, Fabbri, Feltrinelli, Laterza, Longanesi, Marsilio, Mondadori, Sellerio, Sonzogno, Rizzoli, Vallecchi, Vallardi, Zingarelli, Zanichelli. Le case editrici italiane sono probabilmente più dei loro lettori. Secondo l’ Associazione italiana editori, sono 4.877 quelle che hanno pubblicato almeno un titolo nel corso del 2016 (più 5,8 per cento rispetto al 2015) mentre i dati micidiali Istat usciti la settimana scorsa certificano: sei italiani su dieci non leggono – mai – niente. Di fronte a questo scenario gli editori, invece di pensare a mettere su un ristorantino senza glutine, sono tutti in fermento. Fusioni, acquisizioni, rilanci, investimenti, scissioni peggio che nel Pd. Tutto sull’ onda lunga dell’ operazione fine -di -mondo, l’ opera zione “Mondazzoli” che a fine 2015 creò il più grande polo editoriale italiano. Segrate si prese com’ è noto Rcs Libri, e da lì tutto il sistema venne terremotato. Si urlò molto al monopolio e al complotto e alla fine della bibliodiversità italiana. Ci furono indignazioni e appelli e sdegni di prammatica. Il risultato però oggi è che il mercato è più differenziato e dinamico. Come se Mondazzoli avesse liberato in fondo tante energie in circolo: come se da uno Stato unitario e farraginoso ci si fosse scissi in tanti ducati o principati molto più cool e creativi. Certo, mancano i lettori, ma non si può avere tutto: sul lato dell’ offerta, tanti sommovimenti e una giungla di sigle, società, partecipazioni. Ecco una piccola guida: intanto quando alla fine del 2015 Mondadori decise di rilevare Rcs Libri si pose subito il problema Bompiani, che era in pancia alla Rizzoli, e che si ribellò nelle fattezze di Elisabetta Sgarbi. Seguì noto scontro antropologico tra Marina Berlusconi e Sgarbi, e fondazione da parte di quest’ ultima della Nave di Teseo con capitali di provenienza società civile. In poco più di due anni la Nave ha cooptato un mix di autori storici fuggiti da Bompiani – da Paulo Coelho a Andrea De Carlo – insieme a una saggistica politica -pop che va dal romanzo inedito di Giulio Andreotti ai memoir politici -polemici di Ferruccio de Bortoli e di Roberto Napoletano, ai romanzi di Baglioni. La Nave ha rilevato Baldini & Castoldi, e i fumetti di Oblomov. E adesso pare sia alla ricerca di capitali (una ventina di milioni). L’ araldica Bompiani è andata invece a Giunti: anche perché nel frattempo intervenne l’ antitrust a sentenziare che Mondazzoli era troppo grossa, e che doveva cedere alcuni pezzi. Bompiani, che dello scontro antropologico tra Sgarbi e Berlusconi era l’ oggetto del contendere, è finita alla storica casa editrice fiorentina di varia, soprattutto proprietaria della terza catena di librerie italiane. L’ acquisto di Bompiani da parte di Giunti è stato deciso proprio per entrare in un mercato, quello letterario “di fascia alta”, fino ad allora non presidiato. E la gentrification di Giunti è passata anche tramite la cooptazione di due nomi: Antonio Franchini, editor principe di Mondadori, autore di autori come Paolo Giordano, Alessandro Piperno, Roberto Saviano; e Giulia Ichino. Un’ altra repubblica indipendente sorta dalla decolonizzazione di Mondazzoli è Marsilio. La casa editrice fondata negli anni Sessanta, poi entrata nell’ orbita Rcs, e dunque passa ta a Mondadori con la grande fusione, è stata “spinoffata” agli antichi proprietari, la famiglia De Michelis. Che prima si è ricomprata la casa editrice, e poi ne ha ceduto il 40 per cento a Feltrinelli. Una mossa che serve soprattutto ad accelerare le vendite e la distribuzione, raddoppiando la visibilità grazie alle librerie feltrinelliane. Da Rcs Marsilio si è portata il direttore della saggistica Ottavio Di Brizzi – un’ altra conseguenza di Mondazzoli è che il mercato degli editor è diventato più dinamico di quello dei calciatori (un nome che si dà nuovamente in movimento è quello di Alberto Rollo, ex Feltrinelli, per un anno o poco più a Baldini, e proprio in queste ore diretto a Mondadori). Marsilio sta cambiando rapidamente, e molto si punta anche sulla varia “pop” di Sonzogno, marchio storico di Rcs che la casa si era comprato già nel 2010 e che adesso viene rilanciata. Per Feltrinelli l’ interesse in Marsilio pare invece quello di differenziarsi con nuovi marchi: la casa guidata da Carlo Feltrinelli ha infatti un solo marchio, e in un momento in cui tutti cercano di differenziare, pare seguire il mainstream. Che impone anche un certo movimentismo, in una fase in cui tutti si agitano molto. Un altro fenomeno che l’ implosione di Mondazzoli ha causato è la nuova indipendenza di Adelphi, col riacquisto da parte del suo fondatore, Roberto Calasso, che si è ricomprato le sue quote. Insomma “la vendita di Rcs Libri a Mondadori, che doveva creare desertificazione, ha invece generato una molteplicità di soggetti e un entusiasmo molto maggiore rispetto a prima” dice al Foglio Marco Vigevani, agente letterario numero uno in Italia. “Cer to bisognerà stare molto attenti adesso, perché non c’ è più la stessa sicurezza di un tempo” continua Vigevani. “Una volta c’ erano case editrici storiche la cui solidità era fuori discussione. Adesso tutti questi nuovi attori sopravvivranno? Quanto a lungo? Gli scrittori hanno bisogno di stabilità, di orizzonti temporali decennali”. “Certo il mercato è un po’ in crescita”, continua Vigevani. Secondo l’ Istat i titoli pubblicati nel 2016 sono il 3,7 per cento più dell’ anno precedente. “Ma la torta rimane piccola”. Il fatturato globale del libro in Italia non si è mai ripreso dalla grande crisi. I ricavi globali, secondo l’ Associazione italiana editori, sono di 2,561miliardi di euro nel 2016, con una crescita del l’ 1,2 per cento sul 2015, ma molto lontani dal 2011 (3,1 miliardi). Secondo l’ Aie, “il problema dei problemi è il basso indice di lettura”: in particolare le élite italiane leggono meno delle loro colleghe prestigiose estere: il 39 per cento di professionisti e dirigenti non legge alcun libro nel tempo libero, mentre tra i laureati il 25 per cento si astiene. Eppure il mercato italiano di analfabeti aspirazionali continua a far gola, anche agli stranieri: tra le opera zioni recenti ci sono gli spagnoli di Planeta che sono entrati col 50 per cento in una joint venture con De Agostini creando DeA Planeta libri (che comprende anche Utet); mentre gli americani di HarperCollins, secondo gruppo editoriale al mondo, stanno massicciamente investendo sull’ Ita lia creando la divisione italiana affidata all’ ex amministratore delegato di Rcs Libri Laura Donnini. Perché dunque tutto questo interesse? Masochismo commerciale? Un editore ci dice che il mercato attuale non è stabilizzato. “Bisognerà vedere cosa succederà nei prossimi due anni”. Ci si aspettano insomma altre operazioni. Un’ ipotesi affascinante potrebbe essere che Mondadori venda la divisione libri. Mondadori adesso possiede, oltre a sé stessa, Einaudi, Sperling & Kupfer, Piemme, Rizzoli. E’ notoriamente il regno di Marina Berlusconi, ma se un giorno la figlia prediletta del Cav. decidesse di vendere, anche a seguito di vicende ereditarie, di fatto un bel pezzo di mercato italiano del libro tornerebbe improvvisamente sul mercato. Ipotesi di scuola, naturalmente, che dall’ azien da smentiscono. “C’ è grande disordine sotto il cielo”, sospira però la no stra fonte. Che offre anche una chiave di lettura diversa dell’ operazione Mondazzoli: “si potrebbe pensare che alla fine sia stato molto rumore per nulla, con le cessioni imposte dall’ an titrust. Ma alla fine, se non dal punto di vista editoriale, da quello finanziario è stato un ottimo affare. Mondado ri ha tenuto Einaudi e Rizzoli, e con la vendita di Adelphi, Bompiani e Marsilio ha incassato molto bene, come una specie di Fiat che scorpora pezzi pregiati come la Ferrari. Inoltre a Mondadori è rimasto il settore dei libri scolastici: settore poco visibile, ma che vale un quarto del mercato totale, e soprattutto non risente della crisi. A scuola infatti i libri si è costretti a comprarli, e dunque in questo caso le statistiche sono in linea con gli altri paesi europei”. Uscendo dalle dietrologie, tra le novità più attese, a maggio debutterà Solferino, la “nuova” casa editrice di Urbano Cairo. L’ editore del Corriere – ha detto al Corriere – vuole “ritrova re il nostro Dna, la nostra identità e, forse, anche rimarginare una ferita. Temo di aver ripetuto fino alla noia che Rcs Libri non andava venduta, anzi svenduta” ha detto Cairo. Ma ormai tornare indietro è impossibile. Così si guarda avanti. Con nuovi libri. “Co minceremo a pubblicare da fine aprile -inizio maggio, in tempo per il Salone del libro di Torino” dice al Foglio la direttrice editoriale di Solferino, Luisa Sacchi. Per adesso i titoli sono segreti, ma ci sarà di sicuro qualche grosso nome: “abbiamo firmato oltre trenta contratti”, dice Sacchi. “Sarà un mix di narrativa e saggistica oltre ai libri per ragazzi, più, ogni tanto qualche intrusione in territori come la poesia e la graphic novel”. Soprattutto, non sarà necessariamente “la” casa editrice dei giornalisti del Corriere, seppure sarà un editore in-house (sta nel palazzo di via Solferino, accanto alla sala Buzzati); “non ci saranno sovrapposizioni forzate. Naturalmente alcuni giornalisti del Corriere scriveranno libri per Solferino, ma avremo anche giornalisti di altre testate, che anzi incoraggiamo”. Sovrapposizioni con Cairo Editore, che già produce libri in proprio? “Ci sarà coordinamento, ma il marchio Cairo editore rimane, e si focalizzerà maggiormente sulla varia, lasciando narrativa e saggistica a Solferino” di ce Sacchi. La squadra: Carlo Brioschi sarà l’ editor di tutti gli autori italiani sia di saggistica che di narrativa; Giovanna Canton, ex Rizzoli, sarà l’ editor per gli autori stranieri, Domenico Er rico sarà il direttore commerciale e marketing. Il vero vantaggio di Solferino, per gli autori, pare soprattutto commerciale. “Avremo un’ attenzione particolare alla promozione e alla diffusione”, dice Sacchi. “Non solo con la pos sibilità di parlare dei libri sul giornale, o sulla Lettura, ma intendiamo investire molto sulla leva pubblicitaria, con ampi spazi sul Corriere ma anche sulla Gazzetta dello Sport e sugli altri periodici del gruppo. Un’ altra opportunità sarà quella di vendere i nostri libri, in alcuni casi, sia in libreria che in edicola. Sono due canali di vendita molto diversi ma che insieme possono dar adito a sinergie molto interessanti: l’ edicola permette una vendita rapida e concentrata con un lancio in una settimana -dieci giorni, mentre la libreria ha una curva di vendita più lunga”. Sull’ edicola, Solferino poi ha un vantaggio di esperienza. “Abbiamo studiato molto in questi anni, con i libri allegati al Corriere”. L’ arrivo di questo nuovo animale ibrido, metà giornale e metà editore, eccita e preoccupa. Per Marco Vige vani “Solferino viene visto con molto timore dagli editori tradizionali proprio per questa possibilità”. “Le sinergie con gli inserti culturali dei quotidiani sono molto importanti. E’ pure importante però che i giornali mantengano la loro indipendenza dalle case editrici, altrimenti è un rapporto fiduciario coi lettori che va a farsi benedire”. L’ operazione Solferino ci mette in testa un’ idea meravigliosa: quando Repubblica si mise a fare i libri, partendo con i Classici del Novecento, diventò immediatamente il più grande successo di vendita della storia italiana. 500 mila esemplari la settimana, che moltiplicato per oltre 50 settimane portò un risultato mai visto di 25 milioni di copie annue. Venivano dall’ estero per studiare il nostro modello, ci dicono a Repubblica. Un successo tale, quello dei “collaterali”, come sono chiamati tutti gli ammennicoli venduti insieme al giornale, che farebbe pensare a una possibile ri -discesa in campo di Rep. come editore. Se il Corriere si fa la sua casa editrice, perché Largo Fochetti non potrebbe pensare lo stesso? Certo “Fochetti” suona non benissimo, bisognerebbe pensare ad altro brand. Gli stampatori ci sono già, le sinergie pure (anzi, allargate, con anche la Stampa arrivata per fusione, oltre i quotidiani locali). Ma da Repubblica smentiscono questa nostra fantasia. Del resto tempo fa circolò anche la voce che Carlo De Benedetti fosse intenzionato a comprare l’ Einaudi, casa editrice di sublime torinesità, con cui nel 2012 aveva pubblicato un pamphlet. Ma non se ne fece niente, sono, appunto, tutte fantasie: buone, al massimo, per un romanzo.
Proposta dem: abolire l’ imposta. Calenda: presa in giro, meglio privatizzare. È scontro
Il Manifesto
DANIELA PREZIOSI
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DANIELA PREZIOSI II La «renzata» stavolta è talmente inverosimile che in serata il segretario deve confermarla e provarne a spiegare almeno la logica, sorvolando sulla sua validità. Dopo aver introdotto l’ obbligo di pagamento del canone Rai in bolletta, ora per la campagna elettorale il Pd propone di abolirlo. Cancellata la tassa, la tv pubblica sarebbe liberata però dal tetto sulla raccolta pubblicitaria che la penalizza rispetti ai privati. Nel periodo transitorio, in questa proposta in realtà non formalizzata e molto approssimativa, l’ azienda sarebbe sostenuta da un finanziamento pubblico pari al gettito del canone. L’ IDEA, ANTICIPATA dal quotidia no La Repubblica, è un cambio di rotta rispetto alla tradizione di difesa dell’ azienda radiotv. Ma fa saltare sulla sedia anche un liberal come il ministro Carlo Calenda. Che attacca via twitter: una «stravaganza», scrive, «i soldi dello stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro». PER LA VERITÀ non è la prima volta che il ministro dello Sviluppo economico si smarca dal segretario Pd. Era successo già sul tema della durata del governo all’ indomani della sconfitta del referendum costituzionale, poi sulla politica dei bonus. Non aiuta il feeling fra i due, feeling che pure un tempo c’ era stato, l’ aura da papabile che circonda Calenda. E il suo profilo autonomo dal Pd e dal suo leader. SULL’ ABOLIZIONE DEL CANONE il ministro va oltre e propone la privatizzazione della Rai. Di qui parte una raffica di botta e risposta via social con i (pochi per la verità) dirigenti dem ingaggiati a difendere la proposta. Michele Anzaldi lo rimbrotta: «Altro che presa in giro: serve processo modernizzazione ed eliminazione sprechi unici in panorama tv con risparmio immediato 500mila euro. Far risparmiare cittadini come con lo stop all’ Imu». Il presidente del Pd Matteo Orfini invece attacca ‘da sinistra’: «Perla cronaca, la fiscalizzazione del canone Rai è una nostra proposta storica. E rafforza la Rai. Mentre di privatizzazioni che hanno distrutto (o quasi) aziende strategiche del paese ne abbiamo già viste troppe. E direi anche basta». Calenda però non si placa e replica: «Dibattito su privatizzazione Rai utile e interessante ma il punto qui è un al tro. Abbiamo messo il canone in bolletta! Dire oggi: abolisco il canone e lo riprendo dalla fiscalità, senza spiegare come e perché di questo, è un’ inversione a U e danneggia la credibilità dei governi e del Pd». LE OPPOSIZIONI nel frattempo sfottono, più che attaccare davvero. Alessandro Di Battista, M5s: «Fatemi capire chi ci ha messo il canone in bolletta adesso, in campagna elettorale, dice di volerlo eliminare? Un po’ come Berlusconi che parla dei pensionati minimi, proprio lui che ha votato la legge Fornero. Signore e signori il ‘bugiardo d’ annata’ e il ‘novello bugiardo’ sono partiti con le prese per il culo colossali». Per il forzista Maurizio Gasparri, ministro della Comunicazione dell’ era berlusconiana, si tratta di «una proposta farsesca». E anche dalla sinistra la proposta non viene presa sul serio. Per Nicola Fratoianni (Leu) i dem «o sono in confusione totale o peggio usano metodi degni dei migliori illusionisti». L’ unico a preoccuparsi sul serio è l’ Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, che ha un certo know how sia contro i tentativi di cancellazione del cano ne che contro i progetti di privatizzazione dell’ azienda: «È un copione che si ripete da anni. Segnaliamo che laddove si è abolito il canone il servizio pubblico è stato fortemente ridimensionato. A tutto vantaggio dei privati». È RENZI STESSO a intervenire a fine giornata, rivendicando di aver ridotto la tassa da 113 euro a 90, «si può garantire il servizio pubblico abbassando il costo per i cittadini: mi sembra giusto e doveroso». Ma poi preme un colpo di freno: «Non ci interessano i proclami e le polemiche di giornata: per noi parlano i fatti». AL NAZARENO in realtà c’ è soddisfazione per la polemica. La ricerca di parole d’ ordine per raddrizzare i sondaggi e ravvivare la scialba campagna elettorale del Pd è complicata. Invece un sano vecchio stracult della destra (l’ abbassamento delle tasse) è un evergreen con guadagnarsi i titoli, almeno per un giorno. Renzi dunque torna «a definire l’ agenda setting», come dicono i guru della comunicazione. Dopo giorni in cui il Pd ha tenuto banco per gli insuccessi con gli alleati. PAZIENZA SE LA PROPOSTA di abolire il canone è vaga e insostenibile: dopo un giorno di gloria alla fine potrebbe persino non entrare nel programma.
Ma siamo ancora alla legge Gasparri
Il Manifesto
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La scatola nera trasmetterebbe informazione di base senza servizi e senza inviati, quiz, b -movie in quantità e gli immancabili talk politici che costano poco. Che tristezza e che pena. In verità, nessuno ha preso molto sul serio l’ ipotetica proposta: dal ministro Calenda, al sottosegretario con delega Giacomelli, al titolare del dicastero dell’ economia Padoan che – tra l’ altro – è formalmente il proprietario di viale Mazzini sono arrivati contrarietà o imbarazzi. Pure all’ interno del partito democratico le reazioni non sono state positive, mentre molto nettamente contrario è stato Pietro Grasso. Tanto che lo stesso Renzi si è visto costretto a ridimensionare un po’. È bene ricordare che il presidente del consiglio Gentiloni, quando si occupava della materia, predicò esattamente il contrario: solo canone e niente pubblicità. Già, taluni vogliono leggere proprio nell’ eventuale innalzamento dei limiti di spot del servizio pubblico il senso dia bolico della boutade. Sarebbe un modo per fare paura a Berlusconi -Media set, brandendo la clava della (presunta) competizione di mercato dura e pura. Peccato che per tutto questo (abolizione del canone e variazioni delle percentuali di inserzioni) è indispensabile una modifica di legge tutt’ altro che agevole e peccato pure che il settore della pubblicità è in calo evidente (-40% circa dalla crisi del 2008 in poi). Per non dire dell’ annunciata iniezione di risorse per il periodo di transizione, costo per l’ erario elevatissimo, visto che l’ introito annuale della tassa è di un miliardo e 750 milioni di euro. La voce si unirebbe ai 130 miliardi che, come è stato calcolato, sono la somma provvisoria delle svariate promesse elettorali agitate fin qui. Ma è solo un’ innocua chiacchiera quella che è stata rilanciata da qualche riunione piddina? Forse no. Scava scava e il risultato, comunque, arriva. La Rai è da tempo in via di ridimensionamento, da quando – indebolitosi il cosiddetto “partito Rai“, del resto coevo di partiti ormai al lumicino – l’ interesse dei “decisori” si è affievolito. Nessuna riforma di sistema (siamo ancora alla legge Gasparri del 2004, ripresa dal Testo unico dell’ anno successivo), una leggina schifo setta (n.220 del dicembre 2015) volta solo a mettere l’ apparato sotto l’ egida di palazzo Chigi, un modesto contratto di servizio. Nessuna visione strategica, poche idee sull’ era dell’ infosfera e delle culture digitali. Questa è la vera cortesia verso il patron di Arcore e nei riguardi delle sue reti, che pure non vanno benissimo: pur introitando due miliardi di pubblicità a fronte dei 600 milioni del broadcaster pubblico. A furia di dare colpi effettivi o anche solo annunciati, qualcosa succede. E al biscione brindano. Neppure Berlusconi e Confalonieri si sarebbero immaginati tanta grazia. Del resto, in Svizzera è prossimo persino un referendum sul tema e Macron non ama affatto i canali di stato. L’ intero comparto ne subi rebbe le conseguenze, essendo il quadro delle risorse dell’ intero settore radiotelevisivo appena di sette miliardi. Ne patirebbe le conseguenze l’ industria culturale nel suo insieme. Svanirebbe l’ importante produzione di film e di fiction. Con la Rai lavorano quasi trenta imprese, dieci volte tanto rispetto ai cugini di Mediaset. Tra l’ altro, il recente decreto del ministro France schini sulle opere europee va esattamente da un’ altra parte e richiede una Rai rafforzata, non ridotta allo stremo. E poi, crollo del lavoro e dell’ occupazione, crisi ne radi un vasto indotto. Insomma, se guardiamo dietro al lato guascone della vicenda, c’ è da avere i brividi.
Il segretario «Si può garantire il servizio pubblico facendo pagare di meno»
Il Mattino
Diodato Pirone
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Roma. Sono bastate alcune «indiscrezioni» di stampa sulla possibilità che il segretario del Pd, Matteo Renzi, lanciasse l’ idea di abolire il canone Rai per scatenare un putiferio politico di primordine e spaccare il Pd. «Si tratterebbe di una presa in giro», ha subito twittato il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda. «Spero – ha scritto il ministro – che l’ idea di abolire il canone Rai sostituendolo con un finanziamento dello Stato non sia la proposta del Pd per la campagna elettorale. I soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini». Dopo la sortita di Calenda, sempre via social, è arrivata la precisazione di Renzi. Eccola: «Quando siamo arrivati al governo, il canone Rai costava 113 euro adesso è a 90. Perché se pagano tutti, paghiamo meno». Renzi, dopo aver spiegato i benefici della decisione di far pagare il canone attraverso le bollette, che ne ha ridotto l’ evasione, ha continuato così: «Si può garantire il servizio pubblico abbassando il costo per i cittadini: mi sembra giusto e doveroso. E noi abbiamo la credibilità per farlo perché abbiamo iniziato ad andare in questa direzione. Continueremo. Non ci interessano i proclami e le polemiche di giornate: per noi parlano i fatti». Una replica spedita non solo al ministro dello Sviluppo, che nel frattempo aveva anch’ egli precisato la sua posizione: «Se si vuole davvero affrontare il tema del canone – ha detto Calenda – bisogna ragionare sulla privatizzazione». «Non capisco perché – ha ragionato il ministro – dopo aver fatto tante cose serie e buone per la crescita, gli investimenti e l’ occupazione, si debba ricadere sulla linea delle promesse stravaganti. È un peccato». «Come noto, io sono favorevole alla privatizzazione della Rai. Ma questo è il tema. Il messaggio levo il canone ma finanzio con fiscalità generale gioca su uno dei grandi problemi dell’ Italia: considerare i soldi dello Stato qualcosa che non ha a che fare con i soldi dei cittadini», ha detto ancora il ministro. Sul tema è intervenuto anche il sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, derubricando – con il benestare del Nazareno – l’ annuncio renziano, appunto, a mera «indiscrezione». «Mi meraviglia anche la fretta con cui si dà tutto per certo ed il tono di alcune reazioni», ha commentato Giacomelli. Secondo il quale: «Il governo Renzi con la riforma del canone in bolletta ha recuperato l’ evasione e abbassato il costo per i cittadini onesti che lo pagavano». Diversa la linea di Michele Anzaldi, deputato Pd e segretario della Commissione di Vigilanza: «La riforma del canone in bolletta ha avuto come obiettivo principale quello di far pagare meno i cittadini e non è stato un semplice vezzo – ha scritto Anzaldi su Facebook -. Per la prima volta nella storia della Rai il canone è diminuito, passando da 113,5 a 90 euro. È questo che il ministro Calenda farebbe bene a rivendicare, non una semplice modifica alla modalità di pagamento. In quest’ ottica – ha proseguito Anzaldi – va vista l’ opportunità di abolire l’ imposta della tv: far risparmiare ancora i cittadini, come con l’ abolizione della tassa sulla prima casa Imu/Tasi. Via il canone che oggi costa 2 miliardi, risorse transitorie alla Rai per 1,5 miliardi (come oggi) con risparmi e tagli senza un euro in più di spesa pubblica, revisione tetti pubblicitari, stop al pagamento dei cittadini, risparmio immediato di 500 milioni. Discutiamo di questo, non di privatizzazione». Anche il presidente del Pd, Matteo Orfini, si schiera a favore dell’ abolizione del canone Rai e spiega: «Quando lo mettemmo in bolletta dicemmo che il recupero dell’ evasione serviva a far pagare meno. Ma sempre (non solo allora) abbiamo detto che l’ obiettivo era il superamento del canone. Io resto di quella idea. Poi sulle modalità possiamo discutere». E mentre il sindacato dei giornalisti Rai, l’ Usigrai, fa muro a favore del canone, anche l’ ex direttore di rete Giancarlo Leone, oggi presidente dell’ associazione produttori televisivi, sottolinea che «la Rai deve contare sempre di più sul canone per distinguersi dall’ offerta commerciale e investire su contenuti e produzioni di qualità. L’ idea di abolire il canone è in contrasto con una visione attenta agli interessi della collettività». Le opposizioni colgono al volo l’ occasione per attaccare il Pd. «È farsesca la proposta che Renzi vorrebbe avanzare alla direzione del suo partito per abolire il canone Rai», dice Maurizio Gasparri di Forza Italia. «Il punto – sostiene Roberto Fico, presidente della commissione di Vigilanza Rai – non è tanto il canone, ma fornire ai cittadini un servizio pubblico di alta qualità, colmando i ritardi accumulati negli anni, recidendo una volta per tutte il filo tra la politica e la concessionaria pubblica (cosa che questo governo non ha fatto), riformando in questa ottica le modalità con cui si scelgono i vertici Rai». © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Premio Posillipo sulla cultura del mare
Il Mattino
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Al via il premio di giornalismo Posillipo, cultura del mare indetto dal Circolo nautico Posillipo in occasione del suo 92esimo anniversario. Il premio ha lo scopo di sensibilizzare la società e i giovani alla valorizzazione della risorsa mare e favorire lo sviluppo di una coscienza ambientalista. Possono concorrere giornalisti professionisti, pubblicisti, praticanti e iscritti a Scuole di giornalismo, autori di articoli, inchieste, interviste o brevi saggi, pubblicati da quotidiani, agenzie, periodici, testate on-line, o trasmessi da tv, radio, o web che affrontino le tematiche del mare sotto vari aspetti. Sezioni in concorso: quotidiani e periodici cartacei; testate radiofoniche e televisive; testate on-line. Comitato organizzatore: Vincenzo Semeraro, Filippo Parisio, Filippo Smaldone, Enrico Deuringer, Massimo Falco, Massimo Lo Iacono, Nunzia Marciano. I lavori dovranno pervenire entro il 31 marzo, a mezzo posta, all’ indirizzo Premio Posillipo, c/o Circolo Nautico Posillipo, Via Posillipo n.5, 80121 Napoli o via e-mail a premioposillipo@cnposillipo.org , in 5 copie per servizi di quotidiani, periodici o agenzie di stampa o 1 copia di max 15 minuti su dvd per i servizi tv e filmati, su cd per i servizi radiofonici, su cd o dvd per i contenuti web, con una presentazione del servizio e dell’ autore, e le autorizzazioni al trattamento dei dati e per la diffusione del materiale presentato. La giuria è composta da: Silvana Lautieri, Mirella Armiero, Ermanno Corsi, Ernesto Mazzetti, Massimo Milone, Armida Parisi e Carlo Verna. Informazioni: 337 843227. francesca scognamiglio.
Netflix ha superato i 110 milioni di abbonati e incassa ormai più di 3 miliardi a trimestre, con …
Il Mattino
Oscar Giannino
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Netflix ha superato i 110 milioni di abbonati e incassa ormai più di 3 miliardi a trimestre, con più di un milione e mezzo di nuovo abbonati al mese. Ma in Italia è come se vivessimo in un pianeta lontano, parliamo dell’ eterno canone RAI. Non riusciamo a uscire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando si creò il duopolio Rai-Mediaset. Da anni il primo gruppo per fatturato in Italia è Sky: ma niente da fare, la politica ha sempre e solo in testa il vecchio schema binario. La grande sorpresa ieri è stata l’ ennesimo capovolgimento di posizione del leader del Pd, Matteo Renzi. La terza in 6 anni, e ogni volta si è trattato non di affinamenti, ma di ribaltamenti totali di impostazione. Questa volta Renzi propone di abolire il canone, di finanziare la RAI pubblica fino a 2 miliardi di euro, l’ equivalente delle risorse ottenuta oggi dalla tassa sul possesso di apparecchi di ricezione, ma spostando la somma a carico della fiscalità generale. Contestualmente, vuole abolire il tetto alla raccolta pubblicitaria, oggi più basso in RAI rispetto alle tv private, proprio in ragione dell’ esistenza del canone. E l’ obiettivo è di tenere la RAI pubblica, ma su un piede paritario di risorse rispetto al canale commerciale. Con la promessa poi campa cavallo – di diminuire gradualmente il trasferimento di risorse a carico del contribuente. È pressoché stupefacente l’ evoluzione del pensiero di Renzi sulla RAI. Alla Leopolda del 2011, il sedicesimo dei 100 punti programmatici lanciati allora dalla kermesse renziana affermava: «Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza pubblica. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai1 e Rai2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati». Occhio alla frase finale: Renzi allora sosteneva che la RAI di servizio pubblico doveva reggersi solo col canone, e che 7 canali su 15 dovevano reggersi solo con pubblicità, ma per essere privatizzati, a cominciare dalle due reti ammiraglie. Il punto successivo delineava invece la nuovagovernancedel dimagrito servizio pubblico: «Dev’ essere riformulata sul modello Bbc (Comitato strategico nominato dal presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato esecutivo, composto da manager e dall’ amministratore delegato). L’ obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica». Questa prima organica impostazione valse a Renzi vasti consensi di chi finalmente vi scorgeva un solido e coerente impianto riformista, teso a separare una volta per tutte ciò che adempie ai fini del servizio pubblico da ciò che è intrattenimento commerciale. Ma non ne restò nulla, nella riforma della RAI varata nel 2015 da Renzi premier. Il punto forte della riforma è stato costituito da un amministratore delegato che, a differenza del vecchio direttore generale ingessato da presidente e cda di nomina politica, ha molti più poteri. E’ però espressione diretta ed esclusiva del governo, visto che è nominato su proposta del Tesoro. Il consiglio di amministrazione resta politico: su 7 membri 4 sono eletti da Camera e Senato, 2 nominati dal governo, uno scelto dai dipendenti. Anche nel cda, il potere del governo risulta molto rafforzato. C’ è un presidente di garanzia, eletto dal cda tra i suoi membri, ma solo se confermato a maggioranza dei due terzi dalla commissione parlamentare di vigilanza. Un altro incarico iperpolitico. Altro che tenere i partiti fuori dalla gestione della Rai: a dare l’ indirizzo all’ azienda con questa riforma è di volta in volta il governo che ha vinto le elezioni. Si è tornati indietro persino rispetto alla riforma del 1975, disse a ragione Enrico Mentana. In più si perse ogni occasione per separare e distinguere il servizio pubblico dall’ offerta commerciale. Fu protratto da 3 a 5 anni il contratto di servizio pubblico, che dovrebbe scandire le finalità attuative della concessione: in Rai vale così poco che l’ ultimo era scaduto dal 2012, e non era stato rinnovato. E finì con la concessione a fine 2016 rinnovata automaticamente, non per gara pubblica. Con la scrittura del contratto di concessione scandalosamente affidato poi alla stessa RAI: altro che ridefinire perimetro, risorse e finalità del servizio pubblico. Ciao ciao al modello BBC e capolavoro finale: il canone in bolletta elettrica per estendere ulteriormente le risorse finanziarie a disposizione della RAI. Un calcio in faccia della politica ai concorrenti privati della RAI, questo è stata la riforma. E ora siamo alla terza svolta: retromarcia totale e via subito l’ impopolare canone in bolletta, e dietro la maschera della fiscalità generale confidare sul fatto che il contribuente avverta meno l’ esistenza dell’ attuale imposta di scopo, per farla pagare in relazione al reddito e non all’ utilizzo paritario del «cosiddetto» servizio pubblico. Che resterebbe com’ è, ma ancora più forte rispetto ai privati. Dimenticando disinvoltamente che, adottando parametri economici di mercato, la Rai com’ è oggi tende ad avere un valore economico netto quasi negativo. Ha più dipendenti di Mediaset, Sky e La 7 messe assieme, cui si aggiungono alcune decine di migliaia di collaboratori. Con un costo del lavoro che incide per oltre il 30%, contro il 13% di Mediaset e il 7% di Sky. Il ministro Calenda ieri ha fatto bene a scendere lancia in resta contro la nuova svolta. «Abolire il canone sostituendolo comunque con i soldi dei contribuenti sarebbe solo una partita di giro. Il governo Renzi ha messo il canone in bolletta e non si può promettere in campagna elettorale il contrario di quello che si è fatto governando. Se si vuole affrontare la questione del canone allora si ragioni su privatizzarela Rai, altrimenti è una presa in giro». Parole nette e chiare. Impossibile dargli torto. Orfini del Pd ha replicato sparando a zero contro la privatizzazione, e sancendo che le parole spese dal Pd in quella direzione negli anni passati erano dunque solo puri specchietti per le allodole. Ad Andreea Romano del Pd che rimproverava a Calenda l’ idea di privatizzare come «un residuo ideologico novecentesco», la risposta del ministro è stata altrettanto secca: «Non credo. Aiuterebbe a dare una disciplina finanziaria e a tenere la politica fuori. ll servizio pubblico necessita di un’ azienda pubblica o di contenuti di servizio pubblico anche incentivati ma su piattaforme diverse?». Ecco, in quest’ ultima domanda retorica di Calenda è racchiuso l’ obiettivo centrale che dovrebbe darsi un Paese serio. Invece di insistere su un Moloch al servizio della politica, bandire gare in cui si definiscono gli standard di servizio pubblico e le si apre anche ai soggetti privati. Ricordatevi che in seguito al referendum popolare del 1995 è stata abrogata la legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni Rai. Ma il referendum è rimasto bellamente ignorato, e non si è mai proceduto alla privatizzazione. Resta al 99,5% del MEF, e il resto è della SIAE. Ha 23 pletoriche sedi regionali, 4 centri di produzione, oltre 13mila dipendenti, più del doppio di Mediaset e 5 volte quelli di Sky. È ovvio il significato politico della nuova riconversione renziana: recuperare voti a sinistra e dire al proprio elettorato potenziale che nella prossima legislatura non c’ è prospettiva di accordo con Berlusconi, visto che la proposta è un calcio a Mediaset. Ma se Renzi ha già mutato radicalmente idea tre volte, come escludere che in caso di necessità di accordo non si metterebbe in tasca anche questa nuova visione? Insomma: il trionfo del tatticismo. Mentre nel mondo l’ offerta multimediale segue impetuosamente sviluppi tecnologici e di mercato che fanno impallidire come preistoriche le beghe politiche italiche. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Via il canone Rai, lite Pd-Calenda Poi Renzi frena: lo ridurremo
Il Sole 24 Ore
Andrea Biondi
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Il tema Rai entra prepotentemente in campagna elettorale infiammando il clima nella maggioranza. Ad accendere la miccia è l’ indiscrezione, riportata da La Repubblica, sull’ eventuale abolizione del canone: idea del segretario Pd Matteo Renzi con un piano in due fasi. Per rendere il progetto fattibile, il piano prevederebbe trasferimenti da un miliardo e mezzo-due miliardi da parte dello Stato in una fase transitoria. A compensare i mancati introiti del canone – 1,9 miliardi nel 2016 e 895,3 milioni a giugno 2017 – dovrebbe poi intervenire una revisione dei tetti pubblicitari, ora più stringenti per la tv di Stato rispetto alle tv concorrenti. Non si sono fatte attendere le reazioni e, su tutte, la dura presa di posizione del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che, auspicando che questa non fosse “LA” proposta del Pd per la campagna elettorale, ha scritto via Twitter: «I soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro». In un successivo tweet, dopo aver ricordato che il canone Rai è stato inserito nella bolletta elettrica proprio per volere del governo Renzi, Calenda ha confermato di essere favorevole alla privatizzazione. Idea, questa, bocciata però dal sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. Ma i botta e risposta sul tema sono stati continui. A Calenda hanno replicato il dem Michele Anzaldi («se tagliamo 1,5 mld di spesa pubblica ed eliminiamo il canone Rai i cittadini pagano meno. Altro che presa in giro») e il presidente Pd Matteo Orfini: «Per la cronaca, la fiscalizzazione del #canoneRai è una nostra proposta storica. E rafforza la Rai». In questo quadro, con Calenda che ha replicato considerando «un peccato» che si ricada su «promesse stravaganti», le opposizioni sono andate compatte all’ attacco di Renzi, con il segretario Pd che in serata ha detto la sua, sempre via Twitter, senza nominare Calenda: «#CanoneRai prima del nostro governo aumentava ogni anno. Nel 2014 era a 113. Adesso è a 90. Pagare meno, pagare tutti. Si può garantire servizio pubblico abbassando i costi per i cittadini: abbiamo iniziato a farlo, continueremo». In mattinata era intervenuta l’ Usigrai: «Segnaliamo che laddove si è abolito il canone il Servizio Pubblico è stato fortemente ridimensionato. A tutto vantaggio dei privati». © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Amazon rilancia sul calcio: assalto alla Premier League
Il Sole 24 Ore
Nicol Degli Innocenti
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LONDRA Amazon si prepara a scendere in campo, sfidando Sky e Bt per conquistare i diritti televisivi delle partite di calcio della Premier League britannica. Il colosso del web intende partecipare all’ asta per i diritti per il triennio 2019-2022 che si concluderà il mese prossimo e, con ricavi annuali di 100 miliardi di dollari, ha una forza di fuoco di tre volte superiore a quella dei due rivali messi insieme. Amazon non ha confermato ufficialmente le sue intenzioni, ma nei mesi scorsi ha consultato esperti del settore e avviato trattative per aggiungere la popolarissima serie A inglese alla sua offerta di programmi sportivi dal vivo. Finora il gruppo ha pagato 50 milioni di dollari per trasmettere in diretta in Gran Bretagna le partite di football americano della National Football League della stagione in corso e ha conquistato per Amazon Prime video i diritti tv dello US Open e dei principali tornei Atp di tennis per 80 milioni di sterline, battendo la concorrenza di Sky. Per Amazon la trasmissione di grandi eventi sportivi dal vivo è un modo per arricchire l’ offerta Prime e convincere più persone ad abbonarsi al “pacchetto” che per 99 dollari al mese negli Usa e 79 sterline in Gran Bretagna garantisce contenuti video e musicali oltre a consegne a domicilio rapide e gratuite di tutta una serie di prodotti. Il calcio è molto più popolare in Gran Bretagna del tennis o del football americano, quindi con le partite della Premier League Amazon conquisterebbe di certo un pubblico più vasto di potenziali clienti Prime. «Continueremo ad aggiungere contenuti che gli abbonati Prime vogliono», ha detto il gruppo senza entrare in dettagli. Di recente Amazon ha rivelato il suo interesse per il calcio quando ha annunciato che produrrà una serie di documentari con il Manchester City, la squadra attualmente in testa alla prestigiosa classifica inglese. La notizia, se confermata, sarà musica per le orecchie della Premier League, che spera con la prossima asta di incassare di più della cifra record di 5,14 miliardi di sterline che aveva ottenuto nell’ ultimo round per i diritti 2016-2019: 4,2 miliardi erano arrivati da Sky, che si era aggiudicata la maggior parte delle partite, e il resto da British Telecom. All’ asta del mese prossimo verranno offerti sette pacchetti che vanno dalle 32 alle 20 partite. Dal canto loro, il mese scorso Sky e Bt hanno annunciato un accordo di cooperazione che dal prossimo anno permetterà agli abbonati Bt di vedere tutti i canali sportivi Sky e agli abbonati Sky di avere accesso a Bt Sport. L’ intesa tra rivali è stata interpretata come un segnale che in futuro non ci sarà una lotta al rialzo per i diritti tv a tutto beneficio della Premier League. Il giro d’ affari dei diritti tv del calcio britannico è già il più alto d’ Europa, ma una lotta tra giganti per aggiudicarseli potrebbe far lievitare ulteriormente i costi. Secondo alcuni esperti, se si arriverà a una guerra con Amazon, Sky potrebbe rilanciare se Disney, che ha appena effettuato il takeover di 21st Century Fox che controlla la tv, deciderà di investire di più nello sport in diretta. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Ruggeri e J-Ax con Soundreef
Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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Enrico Ruggeri e J-Ax hanno lasciato la Siae (Società italiana autori editori) per affidare a Soundreef la raccolta e gestione dei loro diritti d’ autore. Si parla in Italia da un paio di anni di guerre ideologiche a favore della rottura di un monopolio ormai insopportabile come quello della Siae. Ma, come sempre accade in questi casi, alla fin fine è una mera questione di soldi: relativa sia alle pratiche di generosi anticipi dei diritti d’ autore (per autori dal repertorio importante e dal flusso consolidato negli anni di diritti pagati), sia alle maggiori remunerazioni (in termini di percentuali) che un sistema offre rispetto all’ altro. Siae è nata nel 1930 e non ha fini di lucro, mentre Soundreef ha debuttato a Londra nel 2011 su iniziativa dei due fondatori, italiani, Davide D’ Atri e Francesco Danieli, e ha fini di lucro. L’ approccio al mercato, per questioni anagrafiche e filosofiche, è quindi molto diverso: Siae ha oltre 80 mila autori e editori iscritti (sopra i 30 anni l’ iscrizione costa 250 euro all’ anno), Soundreef ha 10 mila iscritti in Italia, e l’ iscrizione non costa nulla. La società dove sono appena sbarcati Ruggeri e J-Ax (e che nel suo portfolio vanta pure artisti quali Fedez, Gigi D’ Alessio, Maurizio Fabrizio, Nesli e Fabio Rovazzi), ha pratiche più rapide di pagamento dei diritti (su PayPal), una rendicontazione online e necessita di soli 60 giorni di preavviso per annullare l’ iscrizione. Ovviamente Soundreef non può avere la capillarità di Siae nella raccolta dei diritti d’ autore nelle sagre di paese, nei locali pubblici, nelle feste, nelle cerimonie. Questo è un campo dove Siae la fa ancora da padrona, con la stipula di circa 1,2 milioni di contratti di licenza all’ anno con oltre 500 mila utilizzatori sul territorio, e in cui controlla oltre 35 mila eventi musicali a settimana, rendicontando il repertorio suonato in ciascuno. Soundreef, invece, si occupa soprattutto della raccolta dei diritti di autore nei live dei suoi iscritti (scaletta digitale, diritti pagati entro 90 giorni dal concerto; il 25% va a Soundreef, il 75% dei diritti va all’ artista, mentre Siae assicura solo il 70%); in radio, tv e online (con il monitoraggio degli utilizzi, e la gestione dei diritti tramite fingerprinting audio); in-store, ovvero la musica in sottofondo negli esercizi commerciali (con il 50% che va a Soundreef e il 50% all’ autore, con un pagamento entro sei mesi); e, infine, i cosiddetti diritti meccanici, ovvero quelli legati a licenze di stampa. Tutto ciò, ovviamente, significa concorrenza (e in Italia c’ è anche un’ altra piattaforma, la Patamu, che però non vanta ancora artisti di grosso calibro), rispetto alla precedente situazione di monopolio Siae: «Raramente nell’ industria della musica si erano sentite due società competere per chi paga meglio gli autori», commenta D’ Atri, fondatore e amministratore delegato di Soudreef spa. «L’ arrivo di Enrico Ruggeri è un grande onore per tutti noi. Lavorare con il suo repertorio ci rende contenti e orgogliosi del percorso fatto e conferma gli importanti progressi della nostra azienda». Peraltro «tutto è nato da un incontro con i ragazzi di Soundreef. Ho trovato entusiasmo», racconta Ruggeri, che sarà al prossimo Festival di Sanremo con lo storico gruppo dei Decibel, «attitudine alla sfida e voglia di comunicare progetti, qualità che da sempre cerco nelle persone con le quali lavoro. Non un ente, ma un gruppo di persone con un volto e una voce. Ecco perché ho deciso di intraprendere con loro un percorso comune. Ringrazio la Siae per gli anni trascorsi assieme e inizio una nuova avventura, con l’ intento di tutelare il diritto d’ autore, importantissima battaglia culturale». Sulla stessa linea anche J-Ax: «Dopo averne sentito parlare e aver potuto verificare direttamente come lavora Soundreef ho fatto la mia scelta lasciando Siae. Sono convinto che faremo un ottimo lavoro con i ragazzi di Soundreef». Il passaggio di Ruggeri alla società di D’ Atri, tuttavia, lascia abbastanza interdetti gli uomini di Siae. E Gaetano Blandini, direttore generale della società autori, dichiara: «Il maestro Ruggeri nel 2016 è stato tra i primi mille firmatari della Lettera Siae in difesa del diritto d’ autore. Proprio perché abbiamo avuto occasione di conoscere la sensibilità di Enrico Ruggeri nelle battaglie a tutela del diritto d’ autore, la sua scelta ci risulta francamente incomprensibile. La società a cui ha deciso di affidarsi, sulla base della normativa vigente, opera illegittimamente nel nostro paese, in cui l’ attività di intermediazione del diritto d’ autore è consentita alle organizzazioni, come Siae, senza scopo di lucro e gestite dai propri associati. Siae era e resterà la casa degli autori e degli editori e le sue porte erano e resteranno aperte per Enrico Ruggeri e per tutti gli autori, che siano o meno di successo, già famosi o sconosciuti». © Riproduzione riservata.
Ruggeri passa a Soundreef. Siae: «Incomprensibile»
Il Giornale
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Enrico Ruggeri lascia Siae (Società Italiana Autori Editori) per affidare a Soundreef la raccolta e gestione dei diritti d’ autore. L’ accordo tra l’ artista e la società fondata da Davide D’ Atri è operativo dal primo gennaio di quest’ anno. «L’ arrivo di Enrico Ruggeri – commenta Davide D’ Atri, Ad di Soundreef – è un grande onore». La Siae non nasconde il proprio «disappunto» per le dimissioni di Ruggeri. «Siamo noi a ringraziare il Maestro Ruggeri che per tantissimi anni è stato nostro associato e che nel 2016 è stato tra i primi mille firmatari della Lettera Siae in Difesa del Diritto d’ Autore. La sua scelta ci risulta francamente incomprensibile», afferma il dg di Siae, Gaetano Blandini, che aggiunge: «la società a cui ha deciso di affidars opera illegittimamente nel nostro Paese in cui l’ attività di intermediazione del diritto d’ autore è consentita alle organizzazioni senza scopo di lucro e gestite dai propri associati».
Chessidice in viale dell’ Editoria
Italia Oggi
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Alberto Rollo alla Mondadori. Alberto Rollo, direttore editoriale di Baldini e Castoldi, lascia dopo un anno la casa editrice nel frattempo acquisita da La Nave di teseo di Elisabetta Sgarbi per passare a Mondadori, dove si occuperà di consulenza sulla narrativa italiana per il gruppo di Segrate. Un arrivo che amplia la squadra dedicata agli scrittori del paese, che per Mondadori rappresenta un segmento importante sul quale investire. Rollo, milanese classe 1951, è scrittore e critico letterario e per oltre vent’ anni ha lavorato in Feltrinelli, dove è stato fino al 2016 direttore letterario. Golden Globe: l’ Italia spera in Guadagnino. L’ Italia è ben piazzata per conquistare il riconoscimento più alto, domenica sera, a Los Angeles, alla 75esima edizione dei Golden Globe 2018: Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino (titolo originale Call me by your name), che ha ottenuto tre candidature, è infatti in corsa per il premio più ambito, quello come miglior film drammatico. Considerati antesignani degli Oscar, di cui spesso annunciano le scelte, i Golden Globe vengono assegnati dai giornalisti della stampa straniera a Hollywood. Quest’ anno la corsa è apertissima e l’ intensa storia d’ amore di Guadagnino ha ottime chance. Dovrà vedersela soprattutto con La forma dell’ acqua (titolo originale The shape of water), la fiaba di Guillermo del Toro. Ma sono in corsa, tutti molto quotati, anche Dunkirk di Christopher Nolan, The Post di Steven Spielberg e Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh. La storia d’ amore tra il giovane Elio e l’ americano Oliver nell’ estate del 1983, in una villa tra le province di Brescia e Bergamo, è in lizza anche per il premio al migliore attore protagonista (Timothe’ e Chalamet) e migliore interprete non protagonista (Armie Hammer). La 75a edizione dei Golden Globe sarà in chiaro su TV8 (tasto 8 del telecomando) in versione rieditata: lunedì 8 gennaio alle ore 00,35 andranno in onda i momenti più emozionanti della cerimonia di premiazione. Rai, con Meraviglie 5,6 mln di spettatori. Meraviglie – La penisola dei tesori, il programma di Alberto Angela su Rai 1, è stato seguito giovedì in prima serata da 5 milioni 662 mila spettatori con uno share del 23,8%. Google investe in Chushou, piattaforma cinese di mobile gaming. Google investe in Chushou, piattaforma di mobile gaming cinese in live-stream. Le società non hanno rivelato le dimensioni della partecipazione di Google e la valutazione di Chushou dopo il round di finanziamenti. All’ operazione di aumento di capitale hanno partecipato anche i precedenti investitori Qiming Venture, Shunwei Capital e Alpha X Capital. Chushou, dalla sua fondazione nel 2015, ha raccolto in tutto 120 milioni di dollari: il suo ultimo round di finanziamento, quasi un anno fa, è stato di 58 milioni di dollari e prima ne aveva raccolti circa 20 milioni. Per l’ azienda statunitense è la possibilità di aprire nuove strade per la Cina, dove il suo motore di ricerca è bloccato dal 2012, per la startup basata a Pechino il tentativo di espandersi Oltreoceano. Nel 2015, Google aveva partecipato al round di Mobvoi, startup cinese di intelligenza artificiale. Tasselli di una strategia di conquista del mercato, in cui rientrano anche lo sviluppo di un laboratorio di intelligenza artificiale in Cina e la presenza, il mese scorso, dell’ a.d. di Google Sundar Pichai alla Cyberspace Administration of China. Chushou ha sviluppato una piattaforma online di e-sport in cui gli utenti possono trasmettere in streaming i loro giochi per cellulari. L’ azienda ha dichiarato di avere 8 milioni di streamer e 250 mila live stream al giorno e vanta la comunità online di Mobile Game più attiva in Cina. «Chushou ha costruito una piattaforma impressionante, con una base in rapida crescita di creatori di contenuti e consumatori e piani di espansione intelligenti», ha dichiarato Frank Lin, che supervisiona lo sviluppo aziendale di Google nell’ Asia settentrionale. Raiplay: Celentano in bianco e nero. RaiPlay festeggia gli 80 anni di Adriano Celentano con una raccolta delle sue prime apparizioni televisive tratte dagli archivi di Rai Teche. Celentano in bianco e nero è il titolo dell’ antologia, disponibile da ieri nella sezione «I Favolosi», che ripercorre successi musicali e partecipazioni televisive del giovane molleggiato: si parte dal 1959, con l’ irruzione dell’«urlatore» nelle case degli italiani e con Il tuo bacio è come un rock, il primo grande successo, cantato sul palco della trasmissione Buone vacanze. Il grande alpinismo – Storie d’ alta quota, 20 film inediti con Gazzetta e Corriere. Una nuova collana che celebra la passione per l’ alpinismo, con 20 film inediti dedicati al confronto fra l’ uomo e la montagna. Il grande alpinismo – Storie d’ alta quota, curata dal giornalista Sandro Filippini con il contributo dell’ alpinista Hervé Barmasse, comprende 20 dvd, inediti per il mercato home video italiano, che raccontano le imprese che hanno portato a scalare le vette più ambite del pianeta. Ognuno dei film è acquistabile da ieri con La Gazzetta dello Sport o il Corriere della Sera a 10,99 euro oltre al prezzo del quotidiano. Radio, InBlu lancia ATuXTv condotto da Mariano Sabatini. La programmazione tv delle grandi reti e dei network (Rai, Mediaset, La7, Sky, Netflix) sotto la lente d’ ingrandimento. InBlu Radio, il network delle radio cattoliche della Cei, lancia il nuovo programma ATuXTv, condotto e ideato dal giornalista e critico televisivo Mariano Sabatini, in onda da oggi ogni sabato pomeriggio alle ore 18,15.
Google, stop a pubblicità invasive
Italia Oggi
ANDREA SECCHI
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È in arrivo il blocco delle pubblicità fastidiose e intrusive incorporato nel browser Chrome, il programma per la navigazione di Google. La società di Mountain View aveva annunciato nel giugno scorso la sua adesione alla Coalition for better ads, una sorta di associazione che lavora per migliorare le pubblicità online attraverso standard comuni, e che avrebbe adottato un ad blocker selettivo. Dal 15 febbraio tutto questo avrà inizio e i siti visitati attraverso Chrome saranno analizzati per verificare se le pubblicità mostrate (anche quelle di Google stesso o del suo network) rientrino fra i formati considerati negativi per l’ esperienza dell’ utente. In pratica, se il sito non risulterà rispondente ai requisiti dell’ ad Experience Report di Google per più di 30 giorni, Chrome bloccherà automaticamente tutte le sue pubblicità. Prima, comunque, lo strumento di Google avvertirà del mancato rispetto degli standard e comunque una volta fatte le modifiche si potrà chiedere il riesame del sito per ottenerne lo sblocco. Ma quali sono i formati pubblicitari che rovinano l’ esperienza dell’ utente secondo la Coalition for better ads? I pop-up, le finestre che si aprono quando si visita un sito, i video banner che partono automaticamente con l’ audio attivo, gli annunci a tutto schermo prima di accedere a una pagina con conto alla rovescia, i banner che coprono più del 30% dello schermo, banner animati e lampeggianti e così via, sia nella navigazione desktop che mobile. Google cercherà così di togliere risorse a quei siti che offrono pubblicità di bassa qualità e con eccessivo affollamento, mentre resteranno indenni da questo filtro gli editori che curano le inserzioni perché non siano fastidiose per gli utenti. La decisione è arrivata nel momento in cui è stato chiaro che gli utenti di internet stavano cominciando a utilizzare sempre più gli ad blocker, i programmini che bloccano tutte le pubblicità. Il fenomeno è infatti in crescita e a livello internazionale la percentuale degli utenti che l’ utilizzano è di circa il 26%. Meno importante e piuttosto stabile l’ ad blocking in Italia, che riguarda il 13% dei navigatori. La differenza fra un ad blocker tradizionale e quello di Google è però che in genere il primo blocca le pubblicità di tutti i siti (anche se è possibile sbloccare ciò che si vuole), mentre il secondo fa un’ analisi dell’ intrusività o meno dell’ inserzione. È chiaro che per Google, che realizza la maggior parte dei propri ricavi dalla pubblicità, questa mossa significa tenere il controllo su un fenomeno come l’ ad blocking prima che si diffonda ulteriormente e metta in pericolo una fetta consistente dei ricavi pubblicitari. In ogni caso gli editori dovranno tenere in debita considerazione tutto ciò, dal momento che il browser Chrome è utilizzato da quasi il 60% dei navigatori. © Riproduzione riservata.
Il Pd spara: «Via il canone Rai» In bolletta l’ hanno messo loro
Libero
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ENRICO PAOLI Cosa c’ è di più impopolare del canone Rai (considerata la tassa più odiata dagli italiani) per rendere popolare, nel senso di intrigante, un dibattito politico stagnante e anemico? L’ abolizione del canone. E così il segretario del Pd, Matteo Renzi, avendo la necessità di dettare l’ agenda setting (la possibile influenza dei mass-media sull’ audience in base alla scelta delle notizie considerate «notiziabili» e allo spazio e preminenza loro concessa) ha buttato là l’ idea. L’ ex premier prima affida a Repubblica la ricostruzione di un vertice «segreto» nel quale Renzi avrebbe annunciato l’ intenzione di abolire il canone Rai. Idea non nuova visto che l’ ex premier l’ aveva già ventilata quando era a palazzo Chigi, sostenendo che la tv pubblica dovrebbe essere «liberata» dal tetto sulla raccolta pubblicitaria, che ne limita l’ azione sul mercato a favore dei privati, e per evitarne il collasso sarebbe sostenuta da un finanziamento pubblico pari al gettito del canone, ma solo nel periodo transitorio. Poi, per fugare ogni dubbio, lo stesso Renzi torna sull’ argomento. «Prima del nostro governo aumentava ogni anno. Nel 2014 era a 113 euro. Adesso è a 90 euro. Pagare meno, pagare tutti. Si può garantire servizio pubblico abbassando i costi per i cittadini: abbiamo iniziato a farlo, continueremo. Non facciamo proclami, noi parliamo coi fatti», scrive su Twitter. Tecnicismi a parte l’ idea di Renzi ha scatenato la fine del mondo. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, contrasta l’ onda d’ urto si è affrettato ad affermare che la «fiscalizzazione del canone Rai è una nostra proposta storica», Il destinatario del messaggio è il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il primo a reagire negativamente alla proposta del Pd: «Spero che l’ idea di abolire il canone Rai sostituendolo con un finanziamento dello Stato non sia la proposta del Pd per campagna elettorale. I soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro». E, soprattutto, viene da chiedersi: ma visto che il Pd era ed è al governo perché non lo ha fatto? Perché Orfini sostiene che è una loro priorità quando ad alzare la palla è stato Renzi e non i ministri del governo Gentiloni, se non addirittura lo stesso premier? Strane storie. Chi non la prende bene è il sottosegretario allo Sviluppo economico, e «padre» del canone in bolletta, Antonello Giacomelli, che prima dice «non commento le indiscrezioni», poi polemizza con il titolare del suo stesso dicastero. È «contraddittorio», afferma, «da un lato preoccuparsi di difendere l’ Italianità di infrastrutture strategiche e dall’ altro teorizzare la privatizzazione di una realtà come Rai che finirebbe, facile previsione, in mani non italiane». E se i grillini, tramite Roberto Fico, parlano di «proposta propagandistica», Maurizio Gasparri di Forza Italia la considera addirittura «farsesca». Nel mezzo a tutto e a tutti c’ è la posizione degli addetti ai lavori. «Per l’ Associazione dei produttori televisivi la Rai deve contare sempre di più sul canone per distinguersi dall’ offerta commerciale e investire su contenuti e produzioni di qualità», scrive su Twitter Giancarlo Leone, ex dirigente di Viale Mazzini, «l’ idea di abolire il canone è in contrasto con una visione attenta agli interessi della collettività». Intanto nelle prossime bollette cisarà… twitter@enricopaoli1 riproduzione riservata.
È Alberto Angela l’ unica certezza Rai
Libero
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È vero: il successo di Roberto Bolle, su Raiuno lunedì 1 gennaio, è eclatante. Non si tratta di scoprire la bravura di Roberto Bolle, che era già nota, ma di segnalare come un programma di danza, quindi non molto popolare, può diventarlo con un intelligente impiego degli ospiti e con un’ apprezzabile duttilità del protagonista. Vale, ad esempio, il balletto fra Bolle e Virginia Raffaele: di grande qualità, fortemente ironico e piacevole a vedersi. Bene pure la partecipazione di Miriam Leone e di molti altri ospiti, compreso il «Ciro» di Gomorra, nel ruolo di conduttore. Insomma, uno spettacolo indovinato: i milioni di ascoltatori non sono perciò casuali. L’ ascolto non è mai casuale: se il programma è valido la gente lo segue, altrimenti si orienta altrove. C’ è un altro programma che voglio segnalare Meraviglie: la penisola dei tesori, curato e condotto da Alberto Angela (boom di ascolti: 5,6 milioni). Si scopre, seguendo quel programma, che sono infiniti i tesori patrimonio dell’ Unesco presenti in Italia. Ha ragione Angela quando dice: «Perché andare a cercare all’ estero quando noi di meraviglie ne abbiamo infinite e se ne possono scoprire sempre altre?». Giustissimo. Ricordo che oggi, 6 gennaio, su Raiuno va in onda I soliti ignoti Lotteria Italia, un appuntamento al quale siamo abituati e che sarà condotto da Amadeus, al quale si devono più di 5 milioni di spettatori nello show, sempre su Raiuno, dell’ ultimo dell’ anno. riproduzione riservata.
I quasi sei milioni di Alberto Angela danno un senso alla tv pubblica
La Stampa
MASSIMILIANO PANARARI
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Il piccolo schermo generalista e il servizio pubblico televisivo non saranno in gran forma, ma non sono certo defunti. Lo dimostra lo share record di Meraviglie di Alberto Angela, che ha raggiunto il 23,8% (pari a 5 milioni e 662 mila spettatori). Un trionfo anche sui social media per un divulgatore non nuovo ai successi, molto amato da un pubblico composito (gli «Angelers»), che prova allergia per le dosi massicce di trash tv e di reality show che costellano e funestano i palinsesti. E, peraltro, i risultati del figlio di quel Piero Angela che ha tenuto a battesimo la «disseminazione» della scienza attraverso la tv arrivano poco dopo il centro messo a segno da Rai 1 con lo show-evento di Roberto Bolle (22% di share). Per provare a interpretare il «ciclone Angela» va chiamata in causa tutta una serie di spiegazioni di corredo: dal livello alto della fotografia al format narrativo avvincente e a una sceneggiatura dinamica e scattante, dalla tecnologia – come i droni – impiegata a fini didattici (sul modello della divulgazione tv anglosassone) all’ indubbio patriottismo culturale (e «costituzionale») che giustamente scatta quando si parla del genio italico nella storia e delle meraviglie artistiche e paesaggistiche del nostro troppo spesso bistrattato Belpaese. Ma soprattutto, c’ è un’ interpretazione che rimanda alla questione, e al senso contemporaneo, della categoria di servizio pubblico. A cui si indirizza necessariamente quella domanda di qualità, che esiste – come testimoniato appunto da queste trasmissioni – e che, se venisse opportunamente soddisfatta (come, purtroppo, non avviene nel modo dovuto), chiuderebbe sul nascere il dibattito elettorale di queste ore sul pagamento del canone. Non più il paradigma – a volte, perfino il Leviatano – statalista-pedagogico della stagione in bianco e nero, ma una proposta plurale (e crossmediale, anche quando parte dalla tv generalista), declinata secondo la formula dell’ intrattenimento intelligente, in grado di fornire contenuti culturali. Se, come sostiene Aldo Grasso, il concetto di democrazia liberalrappresentativa prevede tuttora che i cittadini risultino collegati a una qualche forma di sfera pubblica anche attraverso i media generalisti, ecco allora il perdurare di senso del servizio pubblico. E difatti, quando la Rai adempie a questa mission , anche se ci troviamo nell’ età della transtelevisione, della disintermediazione e dell’ autocomunicazione di massa, tanti telespettatori scelgono di affidarsi a un mediatore-intermediario – nelle vesti di narratore, non di maestro ex cathedra – dandogli fiducia e riconoscendogli competenza. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.