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Torino, il Corriere Una storia nuova
Giornalisti aggrediti “Dopo le botte, omertà e tapparelle abbassate”
Facebook vs Facebook «L’ abbiamo fatta grossa»
Torino, il Corriere Una storia nuova
Corriere della Sera
di Massimo Gramellini
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Quando nasci a Torino, cresci con l’ idea che i torinesi inventano le cose – la moda, la pubblicità, l’ editoria -, finché arrivano i milanesi e se le portano via. Lo sbarco del Corriere sotto la Mole ribalta il luogo comune. Stavolta sono i milanesi a portare a Torino qualcosa che hanno inventato loro: il giornale di Albertini e Barzini, Montale e Buzzati, Biagi e Montanelli, Fallaci e Terzani. Non si tratta di un’ invasione, semmai di un’ integrazione. Il Corriere è la voce delle regioni più intraprendenti d’ Italia. Ha la testa a Milano, un braccio possente nel Triveneto e il cuore un po’ dappertutto. Ma senza Torino era come se gli mancasse un pezzo. Adesso, grazie ai nuovi lettori piemontesi, sarà finalmente un organismo completo. Molti di loro mi hanno ripetuto per mesi: vi leggerei tanto volentieri, ma manca la cronaca locale e quindi «ai son (pronuncia sun) nen i mort», non ci sono i morti. Non fraintendeteli. Come a ogni altro lettore, anche a quelli sabaudi interessano le inchieste giornalistiche sui temi caldi della loro città e le campagne di stampa in cui il giornale si schiera dalla parte dei cittadini per aiutarli a risolvere un problema, insistendovi per giorni-settimane-mesi, fino allo sfinimento e possibilmente al raggiungimento dell’ obiettivo. E la nuova realtà editoriale – Stampa e Repubblica da una parte, Corriere dall’ altra – ha nella sua chiarezza la migliore garanzia di una concorrenza sana sulle notizie. Però è vero che a Torino più che altrove esiste un’ attenzione speciale per i defunti. Forse è l’ unica città del pianeta dove per strada e sugli autobus si stagliano le affissioni delle pompe funebri, in un tripudio di ali luminose e cieli stellati. A Napoli sarebbe impensabile. Per farsi apprezzare dai torinesi bisognerà dunque occuparsi anche dei morti. Senza però dimenticarsi dei vivi. Dopo l’ apoteosi dei Giochi invernali del 2006, quando Torino scoprì la sua vocazione turistica e addirittura gaudente, la città attraversa uno dei suoi periodici momenti di depressione. Ha un urgente bisogno di nuove sfide per interrompere il suo passatempo preferito – lamentarsi – e tornare a esprimere il suo talento migliore: creare. Come tutti i popoli montanari, i torinesi si smarriscono negli spazi aperti. Ma date loro un passaggio stretto e sapranno trovare un modo per attraversarlo a cui non aveva ancora pensato nessuno. La speranza è che l’ arrivo del Corriere e dei suoi nuovi giornalisti, talmente bravi che ad alcuni di loro il mio cuore granata riesce a perdonare persino di essere juventini, coincida con il secondo tempo della rimonta avviata con le Olimpiadi. C’ è da sempre un equivoco sui torinesi e ha a che fare con l’ appellativo di «bögianen» che è stato loro appiccicato addosso e che potremmo tradurre approssimativamente con «immobili». Senza farla troppo lunga con i riferimenti storici, esistono due modi di restare fermi: quello di chi non esplora e quello di chi non scappa. Ecco, il torinese è un «bögianen» nel senso che non scappa. Messo di fronte al nuovo borbotta, cincischia, tentenna. Ma appena ci entra dentro, se ne innamora e non lo lascia più. Se non ai milanesi, naturalmente. Che in questo caso, però, trattandosi del Corriere , saranno ben lieti di condividerlo.
Giornalisti aggrediti “Dopo le botte, omertà e tapparelle abbassate”
La Repubblica
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I VERBALI/ LA TROUPE RAI POI MINACCIATA DAGLI AMICI DI SPADA LORENZO D’ ALBERGO GIUSEPPE SCARPA IL silenzio dei testimoni. Peggio: gli sguardi divertiti di chi ha assistito alla testata sferrata da Roberto Spada, il boxeur del clan sinti, al giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi. Il racconto del cronista, ascoltato dai carabinieri, tratteggia i contorni di una Nuova Ostia spietata. Nel territorio degli Spada nessuno aiuta i feriti dopo l’ aggressione. «I passanti non solo non ci hanno prestato soccorso – racconta Piervincenzi – ma hanno rincarato la dose. Un uomo ci ha guardato e detto: “Avete visto cosa vi succede se venite qui? Ora andatevene”. A quel punto il giornalista cerca di mettersi in salvo, mentre un intero quartiere volta le spalle. «Durante l’ aggressione – ricorda il cronista davanti ai militari dell’ Arma del gruppo di Ostia – ho sentito il rumore di alcune tapparelle che venivano chiuse ». Il riepilogo di quei momenti continua scandito da singole immagini: «Quando ho cercato di recuperare il nostro veicolo per un momento mi sono guardato intorno incredulo del fatto che nessuno intervenisse e che nessuno ci avesse soccorso visto anche il sangue che ho perso. La gente presente era quasi divertita con una chiara tacita connivenza con i nostri aggressori». Gli allievi della palestra Spada escono in strada, ridono. E Piervicenzi tira le somme in un passaggio chiave, indicando alla procura su quali basi fondare l’ aggravante del metodo mafioso per il boss poi finito in manette: «Mi sono accorto della solidarietà dimostrata da parte degli abitanti della zona nei confronti dei nostri aggressori, ignorando totalmente il fatto che non in quel momento eravamo in seria difficoltà, in balia di due energumeni». Già, non uno ma due. Perché, subito dopo la testata che ha fatto il giro del web, Roberto Spada non è più solo. Accanto al boss c’ è una montagna: «Poteva essere alto più di 1.90 – racconta il giornalista Rai – peso superiore ai 100 chili, indossava un berretto nero con la visiera, poteva avere intorno ai 30-35anni. Aveva una barbetta con un po’ di pizzetto sul volto e un giubbotto blu». Ora a prendere la parola è il cameraman Edoardo Anselmi: «Mentre stavo riprendendo la scena (la testata che è costata l’ arresto a Spada, ndr), l’ altro uomo si è scagliato contro di me colpendomi con pugni e schiaffi sul capo e in faccia. Mi ha scaraventato contro il muro facendomi sbattere la testa, poi mi ha colpito con un calcio alla gamba dopo avermi fatto cadere in terra». L’ aggressione finisce qui. Ma il giornalista e il suo operatore sono ancora scossi. Hanno incassato capocciate, pugni, schiaffi, insulti, l’ indifferenza dei clienti del bar Music (altro avamposto degli Spada) e ora hanno paura. «Una volta in auto – continua Anselmi – ci siamo fermati al bagno del McDonald’ s per pulirci un attimo e poi ci siamo diretti al Sant’ Eugenio». Non all’ ospedale Grassi di Ostia. «Temevamo di essere localizzati e raggiunti di nuovo dagli Spada». Il servizio con aggressione di Nemo finisce qui. Il resto è cronaca: da una parte Piervincenzi con il naso rotto e una prognosi di 30 giorni, dall’ altra Roberto Spada arrestato per lesioni e violenza privata con l’ aggravante del metodo mafioso e ora in carcere a Tolmezzo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA I cronisti: “Nessuno ci ha soccorso anzi una persona ci ha detto ‘Vedete cosa vi succede se venite qui. Ora andatevene'” Il cameraman Anselmi “Mentre stavo riprendendo la scena un altro uomo mi ha pestato e sbattuto contro il muro” L’ AGGRESSIONE Nelle tre foto, le istantanee dell’ aggressione subita dal giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi da parte di Roberto Spada il boxeur del clan sinti arrestato in un secondo momento e poi trasferito nel carcere di Tolmezzo Dall’ alto, la testata ricevuta dal cronista, la ferita e l’ arresto.
Se cambia è Repubblica
La Repubblica
RAFFAELLA DE SANTIS
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di Raffaella De Santis Dal 22 novembre nuova grafica e giornale nuovo “per distinguerci nel mare indistinto della Rete” dice il direttore Mario Calabresi “Una rivoluzione per tornare alle origini”. Dopo quarant’ anni di innovazioni Il giornale che troverete mercoledì in edicola è completamente nuovo ma sfoggia lo spirito pionieristico degli albori. Ha il piglio e la personalità del quotidiano corsaro fondato da Eugenio Scalfari che dal 14 gennaio 1976 continua a rivoluzionare il modo di fare giornalismo. Da allora Repubblica non si è mai fermata mostrando di essere sempre pronta al cambiamento e aperta all’ innovazione. Un giornale e uno stile di giornalismo che hanno fatto scuola e anticipato i tempi. Il senso del nuovo cambiamento lo spiega il direttore Mario Calabresi: «È una rivoluzione per tornare alle origini. Repubblica non è nata per raccontare tutto quello che accade ma per suggerire le cose che meritano approfondimenti, quelle su cui vale la pena soffermarsi e discutere. Tornare alle origini significa scegliere». E nel nuovo giornale sarà più facile orientarsi, aiutati da una grafica ariosa, chiara ed elegante. Diventerà così più immediato individuare gli argomenti messi in primo piano, selezionati tra i fatti e i temi del giorno rilevanti. Un esercizio di chiarezza per fornire una bussola a chi legge: «Dobbiamo distinguerci nel mare indistinto della Rete, prenderci la responsabilità di decidere cosa meriti di essere messo in evidenza. Solo così potremo vincere la battaglia dell’ attenzione e mettere fine a un certo gigantismo che ha dominato nei giornali» dice Calabresi. È questa la sfida di oggi: scommettere su un Paese che vuole leggere ed approfondire, che non si accontenta di slogan facili o di fake news spacciate per verità. Per fare questo, per aiutare a riflettere e stimolare il dibattito pubblico, Repubblica allarga lo sguardo sul mondo e sulla politica internazionale e raddoppia lo spazio dei commenti, facendone anche un elemento portante della prima pagina. Una vocazione ad ospitare la voce di studiosi, intellettuali, protagonisti della vita culturale contemporanea che il giornale di Scalfari ha nel suo Dna. La sezione commenti compare già nel primo numero del 1976: la prima volta che una pagina di editoriali di stile anglosassone viene accolta in un giovane giornale italiano. Nell’ idea originaria di Scalfari la cultura deve improntare tutto il quotidiano secondo la formula: «Nessun fatto senza un concetto, nessun concetto che non venga materializzato in un fatto». Nasce lo “stile Repubblica”: quello di una testata democratica liberal portatrice di una visione moderna del mondo, ricca di articoli chiari, vivaci, mai paludati. Innovare, capire dove vanno i tempi e se possibile giocare di anticipo. Repubblica ha sempre cercato di fare questo, a partire da quel formato berlinese con cui quarant’ anni fa debutta sulla scena editoriale. Quel formato tabloid più piccolo rispetto a quello degli altri giornali ne fa un prodotto diverso, più moderno e più facile da sfogliare. Ma non è l’ unica novità. L’ idea di trasferire la “terza pagina” e la cultura al centro del giornale fanno scuola, conquistando alla fine degli anni Settanta anche i giovani con l’ eskimo. Con lo stesso spirito nel 1978 Repubblica lancia Satyricon, il primo inserto di un quotidiano dedicato interamente alla satira, mostrando che la vita del paese e del mondo può essere raccontata anche attraverso lo humor, mettendone in evidenza le storture ma con leggerezza. L’ interesse dei lettori spinge a investire sui supplementi, tra cui il settimanale culturale Mercurio. Nel 1987, l’ anno del sorpasso al Corriere della Sera, sfondando il tetto delle 664 mila copie, arriva in edicola il primo magazine, il Venerdì, proprio a ridosso della nascita di Sette, il settimanale di via Solferino. Il debutto è il 16 ottobre: in apertura un reportage fotografico di Sebastião Salgado dall’ inferno delle miniere del Brasile. Quando nel 1996 Ezio Mauro prende il posto di Scalfari alla direzione del giornale è chiaro fin dall’ inizio che l’ anima innovatrice di Repubblica è destinata a dare altri frutti. Nel suo editoriale il neodirettore scrive: “Cambiare, restando noi stessi”. Nella primavera dello stesso anno debutta la prima versione sperimentale della pagina web. Il sito ufficiale viene lanciato invece il 14 gennaio 1997, nel giorno del ventesimo compleanno: nel giro di poco tempo diventerà il più importante sito di informazione italiana. La prima redazione, come in ogni cyber story che si rispetti, è in un sottoscala illuminato 24 ore al giorno. Nel 2005 è la volta di Repubblica Radio, la web radio che si trasformerà in Repubblica Tv, la prima tv online di un quotidiano in Italia arrichita nel 2009 dall’ introduzione del Visual desk, un settore digitale dedicato a video e immagini. La svolta del colore arriva nel nuovo millennio: di nuovo primi in Italia ad investire sul full color. La cultura, fiore all’ occhiello del quotidiano, si arricchisce intanto di iniziative originali: dal Diario (2003), tre pagine dedicate agli approfondimenti sviluppati partendo da una parola chiave, alla Domenica (2004), un contenitore innovativo che si muove tra libri, spettacoli e tecnologia, con illustrazioni che rilanciano la grande tradizione dei settimanali italiani. È il 2007 e Repubblica si sdoppia ospitando al suo interno R2, un giornale nel giornale che dà spazio ai reportage e alle inchieste sui maggiori temi di attualità. Il cambiamento è in linea con l’ idea di dar vita a un rotocalco di qualità. E l’ ultima creatura del giornalismo di Repubblica, nata un anno fa, è proprio Robinson, l’ inserto in cui “la conoscenza diventa esperienza” mettendo al centro i consumi culturali attraverso storie di persone e di luoghi, interviste, recensioni, incontri. La grafica all’ avanguardia è già un assaggio di futuro. Il passo ulteriore è il quotidiano che troverete in edicola mercoledì, con una veste elegante e ariosa, estremamente leggibile, disegnata dall’ art director Angelo Rinaldi e Francesco Franchi. Con un nuovo carattere tipografico chiamato Eugenio in onore del fondatore e creato appositamente per il giornale. Da qui si riparte. Da mercoledì la rivoluzione compie il suo giro: torna alle origini per sfidare il futuro. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Incubo Facebook a Torino
La Repubblica
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di Michele Mari, illustrazione di Agostino Iacurci Una strana biblioteca. Un meccanismo che profetizza la piattaforma di Mark Zuckerberg. Un viaggio allucinante, sotto forma di inchiesta, in una città imbevuta di esoterismo, nella drammatica spirale del 1977. Tra Borges e Romero ritorna, quarant’ anni dopo, il visionario romanzo di Giorgio De Maria, narratore e pianista, l’ intellettuale disorganico oggi quasi dimenticato che con Calvino, Straniero e Liberovici fondò i “Cantacronache” Una lezione che in tempi di social ci pone una terribile domanda: come sfuggire all’ apocalisse collettiva? TITOLO: LE VENTI GIORNATE DI TORINO AUTORE: GIORGIO DE MARIA EDITORE: FRASSINELLI PREZZO: 17,50 EURO PAGINE: 156 Narratore, drammaturgo, pianista, fondatore dei “Cantacronache” con Calvino, Straniero e Liberovici, critico teatrale e cinematografico, Giorgio De Maria (Torino, 1924-2009) è oggi un autore pressoché dimenticato. A questo oblio collaborò in parte egli stesso, non pubblicando più nulla negli ultimi trentadue anni di vita e letteralmente scomparendo dalla scena artistica per morire, racconta la figlia Corallina, “mezzo barbone, tutto matto, alcolizzato, distrutto dall’ Halcion”. Il suo testamento letterario, nel 1977, fu il romanzo Le venti giornate di Torino (sottotitolo: Inchiesta di fine secolo), che nonostante gli elementi di scandalo e di maledettismo, e soprattutto nonostante la sua bellezza, passò quasi inosservato. A risarcimento di tanta ingiustizia, più volte denunciata dallo studioso Luca Signorelli, si è adoperato il giornalista australiano Ramon Glazov, che dopo aver tradotto il romanzo lo ha fatto pubblicare in America all’ inizio di quest’ anno: non casualmente, visto il clamore suscitato oltreoceano, Frassinelli ha da poco provveduto a ristampare le Venti giornate. Clamore, diciamo subito, legato all’ idea che, con decenni di anticipo, De Maria avrebbe prefigurato Facebook. All’ incubo-Facebook (perché di questo si tratta, di un incubo) egli non arriva però, come ci si aspetterebbe, alla maniera di Philip Dick, ma a quella di Borges, immaginando una Biblioteca dove ognuno può depositare i propri testi autobiografici e chiederne altri in lettura, secondo una ratio che è quella dell’ esibizionismo e del voyeurismo, nello spregio totale di ogni considerazione d’ arte o di cultura (“Occorrevano ‘documenti veri’, quindi poco importava soffermarsi sulla forma. La penna poteva scorrere liberamente seguendo quanto lo spirito dettava. E come era difficile fermarsi dopo che si era incominciato!”). Alla fine, in quella Torino, tutti si faranno gli affari di tutti, in un processo di spersonalizzazione che culmina nelle eponime venti giornate, durante le quali moltissimi cittadini, in preda a una “insonnia collettiva”, incominciano a vagare per le strade come zombie per essere poi massacrati da misteriosi giganti che li usano come clave e proiettili. Romanzo dunque che nasce come giallo alla Fruttero-Lucentini (rasentando per un attimo l’ esoterismo nero), si sviluppa come apologo borgesiano, giunge al culmine nel segno di Romero e di Lovecraft, e precipita al finale in pagine tanto sovraeccitate quanto surreali che ricordano uno dei grandi libri semidimenticati del Novecento, L’ altra parte di Kubin. Non mancano (a convocare anche il Calvino della Giornata d’ uno scrutatore) i “mostri” del Cottolengo, oggetto secolare di leggende metropolitane e qui finalmente trasfigurati e riscattati per via estetica. Scritto in forma di diario investigativo redatto da un anonimo che potrebbe essere tanto un giornalista quanto un detective, il racconto vuole fare luce, nel tempo stesso della narrazione, su quanto accaduto a Torino dieci anni prima, al tempo di quella Biblioteca fondata e organizzata da garbati giovanotti (che in effetti potrebbero assomigliare a Zuckerberg) e presto soppressa dal governo in seguito agli efferati disordini delle venti giornate. La sapienza di De Maria pone il focus nel passato, sfruttando i topoi della ricerca d’ archivio e dell’ intervista a testimoni tanto sospettosi quanto reticenti (anche se il meta-topos che tutto tiene è lo stesso ruminamento intellettuale dell’ indagatore): in questo modo giungono inaspettati e beffardi i segni della continuità di quei fatti nel presente, perché se ufficialmente e materialmente la Biblioteca è stata chiusa, essa si è riprodotta a livello larvale ed endemico, in risposta a un bisogno di confessione e condivisione ormai inestinguibile. Saranno allora i cassonetti e i bidoni della spazzatura a ricevere, come offerte votive, i manoscritti anonimi che le avide mani dei lettori verranno a cercare sceverando il testo-spazzatura dalla spazzatura vera e propria: e va da sé che l’ atto stesso del leggere diverrà osceno come una forma di coprofagia (ovvero: il lettore come cesso, insegna che sarebbe piaciuta a Giorgio Manganelli). “Per la scrittura di questo libro, ho pensato a Il processo di Franz Kafka”, dichiarò De Maria in un’ intervista, ma il primo scrittore cui si corre col pensiero è Lovecraft, palesemente omaggiato nel riferimento a “divinità meschine e infami emerse dal cuore della roccia” e presagibili da “un odore insopportabile di muffa e di putrefazione” oltre che da abominevoli sonorità (“Sentii allora sopraggiungere un cupo gorgoglìo, un rimestare profondo di acque melmose, seguito da un risucchio, che manifestatosi dapprima come una discreta suzione a poco a poco andò trasformandosi in un avido, diffuso abbeveraggio, come se centinaia di bocche si stessero immergendo in un pozzo gigantesco intenzionate a prosciugarlo”). Certo, è difficile non lasciarsi suggestionare dalla vulgata di una Torino esoterica e satanista, fra seguaci di Gurdjieff (fra i quali la moglie dello stesso De Maria) o di Aleister Crowley e illustri tormentati (da Nietzsche, che vi impazzì, a Kafka, che nel proprio diario annotò: “Non andare a Torino. A nessun costo”): ma non si farebbe onore al romanzo se non lo si leggesse innanzitutto come una metafora dell’ inquietudine dell’ autore, che servendosi di Torino né più né meno che come di un fondale di genere inscena solennemente il dramma del proprio sgretolamento psichico, che è poi, quando leggiamo Potocki o Gombrowicz, quello di tutti noi. Non ricorda forse il suicidio di Potocki, che si sparò in testa un proiettile ricavato da un pomolo di teiera meticolosamente limato per anni, un passo come questo: “ripongo con cura il mio giornale e succhio per cinque minuti la mia ciliegia sotto spirito Allo scoccare della mezzanotte la rimetto quasi intatta nel suo barattolo di vetro dove ogni giorno vedo salire il livello della saliva?”. Come nell’ Horla di Maupassant c’ è qualcosa che preme per entrare in questo mondo, qualcosa di cui l’ autentico scrittore “nero” si mette al servizio in veste di biografo (di molte pagine di De Maria si potrebbe ripetere quanto Manganelli osservò dell’ incubo lovecraftiano: “sgomenta non la concretezza dell’ apparizione, ma la sua sacrilega aspirazione ad esistere”). E sarà una coincidenza, ma il 1977 fu anche l’ anno in cui venne pubblicato postumo un altro grande capitolo del fantastico italiano, Dissipatio H. G. di Guido Morselli, un libro in cui, come nelle Venti giornate, i mali della mente e i mali della società si combinano in una visione che ha un nome preciso: apocalisse. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Facebook vs Facebook «L’ abbiamo fatta grossa»
La Lettura
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Facebook ha più di due miliardi di utenti, che lo usano ogni giorno per condividere ricordi, emozioni e informazioni: il suo potere sembra illimitato. Se osserviamo la classifica dei social network più utilizzati vediamo che il podio è interamente controllato dall’ azienda, che possiede Messenger (al secondo posto con 1,3 miliardi di utenti) e WhatsApp, poco più sotto con un miliardo. Non solo: la creatura di Mark Zuckerberg controlla anche Instagram, gigante delle foto da 600 milioni di utenti al settimo posto della classifica, due posizioni sopra Twitter. Facebook è enorme, e questa non è una novità: a sorprendere è che alcuni dei suoi dipendenti se ne siano resi conto. E abbiano timore della loro stessa azienda. Lo scorso ottobre il giornalista tecnologico Nick Bilton ha raccolto alcune confessioni preoccupate e registrato un generale pentimento: «Molti ex dipendenti che conosco – ha riferito a “Vanity Fair” una fonte anonima – sono completamente sopraffatti da ciò che è diventato». Molti di loro raccontano di «aver avuto un momento in cui si sono detti: “Oh mio Dio, che cosa ho fatto!”». A guastare il sonno non è solo l’ indagine del Congresso sui centomila dollari spesi in annunci pubblicitari da parte di account riconducibili al Cremlino; è l’ esistenza stessa del social network a preoccupare alcune persone che hanno contribuito a costruirlo. Tra tutti Sean Parker, co-fondatore del sito, che la scorsa settimana ha attaccato i meccanismi su cui Facebook ha basato il suo successo. Parlando a un convegno organizzato dal sito di news politiche Axios, ha spiegato che prodotti come questo sono in grado di «sfruttare la vulnerabilità della psicologia umana» e raccontato di come sin dall’ inizio gli ingegneri che ci lavoravano erano al corrente delle potenzialità del mezzo. «Dobbiamo darvi un po’ di dopamina di tanto in tanto, quando qualcuno commenta o mette like a una foto o a un post o a quello che è. E quello ti spingerà a creare più contenuto e ciò porterà a più like e commenti». Parker, fondatore di Napster, è una figura mitologica nella Valley: è stato interpretato da Justin Timberlake nel film The Social Network e ha agito da nume tutelare di Mark Zuckerberg nei primi giorni del suo «The Facebook» . È stato proprio lui, per esempio, a consigliargli di eliminare l’ articolo dal brand. Oggi è impegnato con il Parker Institute for Cancer Immunotherapy, un ente di ricerca per la cura del cancro, ma si è definito «qualcosa di simile a un obiettore di coscienza» per quanto riguarda i social network e il mondo che ha contribuito a creare. E non è il solo. La Silicon Valley sembra essere stata travolta da un’ ondata di pentimento. A scatenare tutto sono state sicuramente le ultime elezioni americane, soprattutto l’ indagine del Congresso sull’ utilizzo di Facebook da parte delle troll farm russe (le fattorie di troll, i disturbatori della rete). Come ha scritto Massimo Gaggi su queste pagine («la Lettura» #308 del 22 ottobre), l’ accusa ritiene che il governo di Vladimir Putin abbia sfruttato Facebook e il suo algoritmo a suo favore, favorendo l’ ascesa di Donald Trump e dando eco a notizie capaci di polarizzare l’ elettorato, destabilizzando il Paese. A inizio novembre il Congresso ha reso noti più di tremila annunci pubblicitari pagati da aziende legate al Cremlino: molti di questi sono bizzarri e non appaiono minacciosi, ma tutti sembrano mirare a punti caldi del dibattito politico e culturale americano, come la questione razziale o il controllo delle armi. L’ accusa nei confronti di Facebook non è quella di collusione – che riguarda invece Trump -, quanto di non aver fatto nulla per fermare l’ invasione, trattando questi acquisti pubblicitari (centomila dollari per raggiungere dieci milioni di utenti, soprattutto in Michigan e Wisconsin, due Stati elettorali in bilico) come normali post e non propaganda di una nazione ostile agli Stati Uniti. In un articolo per la rivista «Foreign Policy» la specialista di affari cinesi Christina Larson ha esortato Zuckerberg a smetterla di «corteggiare la Cina e di concentrarsi sui Paesi in cui Facebook è davvero importante». Il riferimento è alle mire espansioniste del gigante digitale , da tempo desideroso di aprirsi una strada nel gigante geopolitico : una missione quasi impossibile che risulta pleonastica se il social network può essere dirottato da chiunque a fini di propaganda. Proprio nei giorni scorsi il premier britannico Theresa May ha accusato la Russia di aver infiltrato il dibattito sulla Brexit puntando il dito proprio su Facebook e Twitter. Facebook ha subito risposto con caute dichiarazioni che non smentiscono nulla («Non è stata registrata finora una significativa co-ordinazione» da parte di account russi sospetti) mentre, negli stessi giorni, l’ edizione inglese di «Wired» ha pubblicato le prime prove delle operazioni di disinformazione russa sulla Brexit avvenute su Twitter. Quanto a Twitter, in cima ai problemi c’ è proprio Donald Trump. Da presidente, ha firmato molti tweet aggressivi come quelli contro la Corea del Nord, che rientrano nelle «minacce di violenza (dirette o indirette)» che il social network sostiene di non tollerare. E allora, si chiedono in molti anche all’ interno di Twitter, perché Trump non è mai stato punito? Dopo mesi di richieste di chiarimento, l’ azienda ha risposto tirando in ballo la «notiziabilità» e il «pubblico interesse»; una risposta ritenuta non sufficiente che non ha risolto la questione e ha spinto un anonimo contractor di Twitter a cancellare il profilo del presidente nel suo ultimo giorno di lavoro. L’ atto di ribellione è durato appena undici minuti ma ha dimostrato le tensioni interne al social network (e alcuni suoi problemi legati alla sicurezza, verrebbe da dire). Dunque che cosa sta succedendo? La Valley, il luogo dove le start up nate in un garage diventano aziende in grado di cambiare il mondo, sta forse mostrando il suo vero (oscuro) volto? «Le aziende che un tempo erano divertenti e interessanti – ha detto Bill Maris di Alphabet, l’ azienda che contiene tutto l’ universo Google – stanno influenzando le nostre elezioni». È un timore condiviso da altri professionisti del settore, molti dei quali si sono confidati anonimamente con i media statunitensi. Poche settimane prima delle elezioni fu proprio l’ allora presidente Barack Obama a suonare il (tardivo) campanello d’ allarme, parlando del pericolo della filter bubble e dell’ isolamento tra nicchie di pensiero: «Per molti di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle nostre bolle», disse puntando il dito verso i social media. Proprio lui, il presidente che nel 2008 costruì il capolavoro della conquista della Casa Bianca anche grazie al web, ha trascorso gli ultimi mesi parlando di questo problema direttamente con Mark Zuckerberg. Senza alcun successo, pare, visto che il fondatore di Facebook ha sempre negato il potere della sua stessa creazione. Basti ricordarlo a pochi giorni dalla vittoria di Trump, un anno fa, quando definì «folli» le prime accuse sull’ influenza dei social nell’ elezione. Lo scorso settembre il miliardario trentenne s’ è detto pentito di aver stigmatizzato la teoria in quel modo, ma oggi sappiamo che lo scandalo delle fake news russe è già diventato la più grande crisi che abbia mai investito questi giovani colossi digitali.