Quantcast
Channel: Editoria.tv
Viewing all articles
Browse latest Browse all 8011

Rassegna Stampa del 18/11/2017

$
0
0

Indice Articoli

GLI UNTORI DEL WEB

La comunicazione online diventa unidirezionale

I MARTIRI DELLA RAI

Comcast, Verizon e Disney in corsa per 21st Century Fox

Cassazione: non basta un blog per verificare notizia

Gli editori guardano ad Amazon Crescono gli accordi per canali televisivi, film e serie tv

Per Studio e Undici ricavi a quota 1 mln

Tutti vogliono 21st Century Fox

GLI 88 ANNI DI GIUSEPPE GALASSO

“Mio padre Enzo, un grande timido che sapeva far parlare i potenti”

GLI UNTORI DEL WEB

Il Foglio

link

Questa è una storia di guasti moderni e di tecnologie avanzate che in sé ha poco o nulla di nuovo e di avanzato. Una storia di untori del web che agiscono con metodi medievali, forti di un concetto tolemaico di democrazia e della sua verità decotta (o appena impastata) al centro di un universo che, pensate un po’, dovrebbe brillare di luce riflessa. E’ una storia che inizia nel 1992 quando si diffonde per la prima volta il termine post -verità (dall’ inglese post -truth) per stigmatizzare l’ infor mazione distorta sulla Guerra del Golfo. Ventiquattro anni dopo, quando il web ne avrà ridisegnato i connotati, l’ Oxford Dictionary lo eleggerà parola dell’ anno. E l’ Accademia della Crusca parlerà di una dimensione “oltre la verità”: “Oltre è il significato che qui sembra assumere il prefisso ‘post’ (invece del consueto ‘dopo’), si tratta cioè di un ‘dopo la verità’ che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza”. La lodevole leggiadria dei linguisti poco c’ entra con gli attori di questa storia per i quali la crusca è solo un antico rimedio contro la stipsi, però serve a introdurre un evocativo sintomo profetico nel gioco delle parole: post -verità ovvero verità dei post. Altro elemento fondamentale della nostra storia è lo slogan “uno vale uno” e anche questo arriva dal passato. Esattamente dal Movimento del 1968 quando la sfiducia nelle autorità costituite si sostanziava in quell'”uno vale uno” che in realtà pestava sotto i tacchi il talento del singolo nel nome di un’ uguaglianza ipocrita. Oggi il Movimento 5 stelle ha rimpastato tutti questi ingredienti e ne ha fatto un totem intorno al quale si celebra un rito crudele e spietato, quello delle fake news. Il gioco è stato smascherato lo scorso anno dal sito americano BuzzFeed e da alcuni debunker italiani, individui che conducono una vera campagna anti -contraffazione delle notizie guidati da un solo comandamento in forma di domanda: perché se uno vende una borsa di Hermès falsa può essere denunciato e se invece spaccia bufale per notizie se la può passare liscia? Secondo gli analisti di BuzzFeed il Movimento 5 stelle “è leader nel diffondere false notizie”. La macchina della propaganda ideata da Gianroberto Casaleggio e portata avanti oggi dal figlio Davide è complessa in quanto, si legge sul sito americano, “include non solo i blog del partito e i profili social ufficiali che hanno milioni di seguaci, ma anche una serie di siti redditizi che si descrivono come fonti di ‘notizie indipendenti’, ma in realtà sono controllate dalla direzione del partito”. Tra questi “La Fucina” (definito “un sito di salute che riporta post su cure miracolose alimentando anche cospirazioni anti vaccini”), “TzeTze” e “La Cosa”. Nella costruzione della loro democrazia tolemaica Grillo e Casaleggio hanno saputo sfruttare l’ errore più stupido che una persona intelligente possa compiere: presumere che una verità acclarata possa sconfiggere una bugia furba e rassicurante. E in questo sono stati dei precursori, puntando sul fallimento del debunking prima ancora che gli esperti di factcheckingdel Washington Post ci spiegassero che, al giorno d’ oggi, la verità o la falsità palese sono del tutto inin fluenti in termini di successo politico e che spesso a spararle davvero grosse, blandendo le peggiori emozioni, si vince alla grande. Insomma i fatti non esistono più nella strategia politica d’ assalto di un movimento politico nato a immagine e somiglianza di uno che dice che la mafia non uccideva i bambini sin quando non sono intervenuti i poteri forti della finanza, che crede alle palle di plastica che puliscono i vestiti, alle scie chimiche, all’ invenzione dell’ Aids, al finto sbarco sulla Luna, all’ inutilità delle mammografie per la prevenzione del cancro al seno, al complotto dei frigoriferi romani. Ma nell’ epoca degli untori del web contano davvero questi benedetti fatti? Purtroppo no, secondo il settimanale New Scientist che si è occupato del fenomeno ed è arrivato alla conclusione che, in questi anni di silicio e algoritmi, di clic e claque, di rumori di sottofondo che pretendono di farsi concerto, i fatti influenzano le nostre opinioni meno di quanto si pensi. E la conferma più semplice da riscuotere sta nel fatto che i movimenti populisti crescono in tutta Europa. L’ èra della post -verità ha uno strano effetto sui comici: se non fondano partiti, partoriscono correnti di pensiero. L’ umorista statunitense Stephen Colbert ha trovato la parola che inquadra magicamente il periodo che stiamo vivendo: truthiness, in italiano veritezza. Cioè l’ anelito per una realtà che sembra vera e/o giusta, ma che non è basata sui fatti: coinvolge selettivamente solo chi vuol credere ai propri preconcetti. Non è roba da ridere, assodato che i fatti sono un bene comune e che nel mondo reale, sino all’ altroieri, il ragionamento correva su una corsia opposta e contraria: si cercavano fatti che potessero scalfire o confermare quel che supponiamo di sapere. Morti i fatti, serve un altro bene comune su cui investire. Qualcosa di eterno, atavico e soprattutto gestibile. In “Supernova” l’ atto di accusa di Nicola Biondo, ex capo dell’ ufficio comunicazione del Movimento 5 stelle alla Camera, e Marco Canestrari, ex informatico presso la Casaleggio Associati, c’ è uno spunto che ci collega a scenari internazionali. “La tecnologia non è neutra: soprattutto i social network sono progettati per suscitare e raccogliere le reazioni spontanee e istintive degli utenti, non quelle più ragionate – scrivono Biondo e Canestrari – e ogni reazione ne alimenta altre, ogni provocazione suscita indignazione più facilmente che ispirare fiducia e positività. E’ un mercato in cui la ‘banca centrale’, governata da Davide (Casaleggio, ndr) attraverso le sue società, associazioni, prodotti editoriali più o meno chiaramente collegati a Grillo, stampa (…) il denaro della frustrazione e della rabbia per raccogliere i frutti elettorali attraverso lo sportello del consenso che è il Movimento 5 stelle”. La rabbia. Investire sulla rabbia. In un articolo sul Guardian lo scrittore Pankaj Mishra ha raccontato, come dalla xenofobia in Europa all’ ele zione di Duterte nelle Filippine, dalla Brexit a Trump, gli eventi degli ul timi anni siano incomprensibili per l’ occidente razionalista e liberale. E ha spiegato come in realtà sia il nostro modo di interpretare il mondo che non funziona più. La tentazione è quella di continuare a spiegare la crisi della democrazia – perché di questo si tratta – usan do dualismi rassicuranti come liberalismo e autoritarismo, islamismo e cristianesimo, impresentabili e santissimi sputtanatori, grillismo e tradizionalismo. “Ma – suggerisce Mishra – forse sarebbe più utile pensare alla democrazia come a una condizione emotiva e sociale particolarmente fragile che, aggravata dal turbocapitalismo, è diventata instabile”. Le cose cambiano mentre accadono, oggi molto più velocemente. Quando ci lasciamo incantare da un presentatore tv che urla e annichilisce un navigato politico, magari esperto nella politica -spettacolo, non dobbiamo dimenticare mai che un astioso troll di Twitter è diventato l’ uomo più potente del mondo calpestando fatti, verità e buona creanza. Il duo Grillo-Casaleggio, a differenza del mondo politico tradizionale arenato su un sistema che dalle “con vergenze parallele” di Aldo Moro (o di Eugenio Scalfari, l’ origine è tuttora tema di dibattito, pensate un po’) sta ancora cercando un contrappasso col “ciaone” di Matteo Renzi, ha messo in atto una strategia tragicamente geniale. L’ avversione e il desiderio sono facce della stessa medaglia: sia che moriamo dalla voglia di qualcosa, sia che la detestiamo sempre di ossessione si tratta. Un’ ossessione che tradotta in merchandising editoriale significa dare alla gente quel che la gente si aspetta, un po’ perché lo teme un po’ perché le piace temerlo. E la seconda è l’ ipotesi più fruttuosa. Gli inglesi parlano di echo -chambers, “camere dell’ eco”, zone franche del web (soprattutto dei social) dove la verità dei fatti è talmente temuta da non esistere nemmeno, tant’ è vero che ogni utente ha selezionato e quindi riceve solo le notizie e i commenti coi quali concorda a priori. E’ grazie a questa consapevolezza che Beppe Grillo si può permettere di rispondere a quelli di BuzzFeed ammonendoli dal diffondere notizie false ed esortandoli “a fare un articolo sulla libertà di stampa in Italia visto che il nostro Paese è al 77° posto nella classifica di Reporter senza Frontiere ed è considerato parzialmente libero”. Grillo sa di rispondere con una bufala a chi lo accusa di spacciare bufale, ma se ne frega perché le “camere dell’ eco” dei suoi elettori sono inso norizzate all’ urlo della verità. Basterebbe aver letto il rapporto di RsF, e non citarlo per sentito dire, per sapere che la causa della nostra arretratezza non è la stampa serva e asservita (veritah!, vergognah!, onestah!), ma sono le minacce e le violenze alle quali sono sottoposti i giornalisti italiani. E basterebbe aver letto l’ aggior namento del 2017 che ci vede promossi (poca cosa, ma ogni mollica a poco a poco fa pane) dal 77° al 52° posto per accorgersi che lo stesso Reporter senza Frontiere addita come minaccia alla libertà di stampa, proprio nell’ è ra delle fake news, personaggi come Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, ma anche i movimenti anti -sistema, come il britannico Ukip e, guarda un po’, il Movimento 5 stelle in Italia. Negli spettacoli di Beppe Grillo, e per incanto nelle dichiarazioni dei suoi adepti, torna spesso il mantra “queste cose non ve le dice nessuno” declinato in forme più perentorie (“vi nascondono la verità”) o maliziosamente interrogative (“perché i giornali non ne parlano?”). I siti della galassia Casaleggio campano di rivelazioni presunte, di verità alternative che promettono sorprese a sazietà perché in fondo – è il sottotesto – tutto ciò che sappiamo è falso. E qui la sfiducia sempre più diffusa nei confronti dell’ informazione ufficiale e della comunicazione istituzionale rende il gioco più facile. Se nessuno ne parla, sarà sicuramente vero. I vaccini che provocano l’ autismo? La prova è nel silenzio dei grandi scienziati. I 35 euro al giorno per i migranti? La politica ha paura di confessare. Le scie chimiche? Esistono perché i giornali non ne scrivono. Un tempo per avvelenare il dibattito politico e farlo deragliare nel caos di tesi urlate senza ragione si usava lo straw man argument, un metodo che consiste nel confutare un argomento proponendone una rappresentazione errata o distorta. Esempio. Io dico: “Mi piacciono i papaveri”. L’ interlocutore ribatte: “Dai papaveri si estrae l’ oppio quindi sei a favore delle droghe pesanti”. Oggi non c’ è più bisogno neanche dello sforzo dialettico dello straw man argument giacché basta invocare una presunta censura (“queste cose non ve le dice nessuno”) e il gioco delle tre carte è fatto. L’ invenzione di un complotto è il modo migliore per riverniciare una minchiata e rivenderla al prezzo di una verità scomoda. Come tutti gli untori, anche quelli del web hanno a che fare col tempo di incubazione e di diffusione del virus, in questo caso quello della panzana. Il romano Filippo Menczer, professore di Informatica e Computer Science all’ Università dell’ Indiana, negli Stati Uniti, a capo di un gruppo di lavoro che si occupa di social media e informazione, ha calcolato il tempo che passa tra la diffusione di una bufala e quella di un articolo che cerca di disinnescarla raccontando la verità: tredici ore. Un tempo infinito nel moltiplicarsi dei clic su siti e social network che, con la complicità dell’ algoritmo di Facebook, amplifica a tal punto l’ effetto delle fake news da rendere inefficace ogni rimedio. Pensate cosa sarebbe successo alle vecchie leggende metropolitane – dai rapimenti da parte degli alieni ai coccodrilli nelle fogne di New York – se si fossero diffuse in tempi recenti. Anziché vivere di rimbalzo nel passaparola sarebbero entrate nella to do list di qualche influencer o comunque avrebbero lasciato un segno nei prodotti editoriali costruiti per raccontarvi “quello che nessuno vi dice”. E non crediate che siano fesserie, poiché con quest’ andazzo le fesserie sono una cosa seria. Il filosofo statunitense Harry Frankfurt ha scritto un saggio sulle stronzate (On Bullshit) nel 1986, in tempi tecnologicamente non sospetti partendo da una considerazione: “Solo perché una cosa è una stronzata, non è detto che non sia stata accuratamente pensata”. E profeticamente ha avvertito: “Gli artisti della stronzata sono una minaccia molto più seria rispetto ai fanatici, perché sono più adattabili”. La storia, questa storia, ce lo dimostra.

La comunicazione online diventa unidirezionale

Il Fatto Quotidiano
Giovanni Valentini
link

“Tutto il mondo online () si sta trasformando in un immenso supermercato nel quale la comunicazione occupa un posto centrale” (da “Il crepuscolo dei media” di Vittorio Meloni – Laterza, 2017 – pagg. 110-111) Una delle peculiarità fondamentali della Rete e della comunicazione online, è – o dovrebbe essere – l’ interattività. Cioè la possibilità di interagire direttamente, in tempo reale; di scambiarsi notizie, commenti, opinioni con uno o più interlocutori. E questo vale anche per l’ informazione più o meno professionale, spontanea o diffusa come quella del cosiddetto citizen journalism. Sembra fare eccezione, invece, la comunicazione commerciale. Le grandi aziende, a cominciare dai fornitori dei servizi principali (energia, telefonia, televisione) comunicano a senso unico: ti scrivono o ti cercano a tutte le ore del giorno e della notte per proporre le loro “offerte speciali” o sollecitare il pagamento di una bolletta scaduta, ma poi il povero cliente consumatore – quando ne ha bisogno – non riesce più a interloquire con i loro operatori. Al massimo, se va bene, raggiunge faticosamente una segreteria telefonica, un “risponditore automatico”, che ti indica di digitare questo o quel tasto, e tanti saluti. Dobbiamo cercare, prenotare, acquistare online un biglietto aereo o ferroviario, senza poter chiedere una spiegazione, un chiarimento o magari un consiglio a nessuno. Dobbiamo litigare con la voce metallica di un messaggio pre-registrato per segnalare un guasto o un disservizio nella fornitura di luce, acqua o gas, affidandoci al buon cuore di questa o quella azienda, pubblica o privata. Rischiamo di dover pagare due volte un bollettino postale che è arrivato in ritardo o non è arrivato affatto, salvo chiedere un rimborso a futura memoria. Per non parlare dei “call center” che rispondono dalla Romania, da Malta o da chissà dove, in modo spesso generico e approssimativo. Siamo arrivati al punto che una pay-tv tecnologicamente avanzata come Sky, quando c’ è una perturbazione o anche solo un temporale che interferisce con le trasmissioni via satellite, liquida l’ utente trasmettendo sul teleschermo l’ indisponente avviso: “In caso di maltempo attendi un miglioramento del meteo”. Primo, perché mi dai del “tu”? Secondo, e se una volta chiedessimo noi un miglioramento delle nostre condizioni economiche per pagare l’ abbonamento? È sintomatico che a praticare la “comunicazione unidirezionale” siano per lo più proprio le aziende di telecomunicazione. Prima o poi, dovremmo ribellarci a questa nuova forma di “dittatura mediatica”, di cui siamo sudditi e vittime. Sarà che loro risparmiano sul costo del lavoro, ma noi utenti non ne ricaviamo alcun beneficio. E intanto, la disoccupazione aumenta Non sarebbe lecito perciò auspicare interventi più tempestivi ed efficaci in questo campo da parte delle Autorità preposte alla tutela dei diritti dei consumatori? Abbiamo già visto quanto tempo hanno impiegato rispettivamente l’ Authority sulle comunicazioni e l’ Antitrust a contestare l’ abuso delle “bollette corte”, cioè della fatturazione a 28 giorni. E ora, finalmente, è arrivato l’ ultimatum del governo contro gli operatori media e telefonici. Forse si potrebbe anche concordare un armistizio: se tu non mi rispondi, io non ti rispondo e ovviamente non pago. Ma sarebbe una ritorsione o una rappresaglia senza conseguenze pratiche. Meglio, allora, assumere qualche operatore e operatrice in più per la customer care, ovvero per il Servizio Clienti, dando un lavoro stabile ai giovani precari che ne hanno bisogno e che funzionano meglio di una qualche segreteria automatica.

I MARTIRI DELLA RAI

Il Foglio

link

C’ è insomma questo curioso gioco delle parti. Il puro e dolente cinema italiano si scopre pieno di piccoli Weinstein mentre la Rai si trasforma in una fabbrica di martiri, personaggi scomodi, spiriti liberi. “E’ più difficile rimanere in Rai che andare via”, diceva Fazio quest’ estate, nel turbinio della famigerata trattativa. “Dopo ogni puntata dovevo staccare il cellulare”, racconta oggi Giletti, “per ché venivo assalito dalle telefonate dei dirigenti”. “Tornare a ‘Report’ sa rebbe mortificante per la trasmissione”, scrive Milena Gabanelli nella lettera di dimissioni da Viale Mazzini. Tutti contro la Rai. Una Rai bloccata, oppressa, vilipesa dalla politica, abbandonata persino dalla Nazionale di Ventura che si sgancia dai Mondiali spingendo molti spettatori a passare la prossima estate con Sky. Una Rai che è il miglior viatico alla carriera dentro e fuori la Rai. “Dentro”, come insegna il caso Fazio. “Dentro” e “fuo ri” come dimostra la nuova “Arena” di Giletti su La7. Format identici, spostati da una rete all’ altra, con risultati opposti ma speculari. Giletti ha avuto almeno l’ accortezza di mettere un bel, “Non è”, davanti al titolo, trascinan dosi l’ eco del clima insostenibile di Viale Mazzini, degli editti bulgari e di “Non è la Rai” di Boncompagni. Fino all’ ultimo abbiamo sperato in un programma con cento ragazze in costume da bagno che fanno i quiz sui vitalizi, invece niente. Resta solo il richiamo polemico. “Non è L’ Arena perché anche io non sono più lo stesso dopo la tempesta umana e professionale che ho attraversato”. Tutto nasce dalla proposta indecente di metterlo a tacere con un varietà. Non so se vi rendete conto della gravità della cosa, ma Giletti sì. “Fac cio giornalismo, non varietà”; “mio padre mi ha insegnato a non perdere la dignità: con un varietà avrei tradito 4 milioni di telespettatori”; “quando mi hanno proposto il varietà, non ho potuto fare altro che sbattere la porta e andare via”. Il varietà – da sempre arma di distrazione di massa della casta – diventa qui il segno indubitabile del potere più repressivo che esista, quello dello spettacolo. Il varietà come silenziatore. Il varietà come bavaglio. L’ oppio del varietà. Saperlo fare, il varietà, ma vabbe’. Pasolini ci ha spiegato un milione di volte che “la televisione è fascista e autoritaria come nessun mezzo di informazione al mondo”, ma Giletti ci ricorda che non tutti finiscono come dei piccoli Eichmann a eseguire gli ordini di un sistema che ci vuole prigionieri di “Ta le e quale show”. Con il passaggio a La7, “L’ Arena” termina quel lento, inesorabile processo di erosione interna di “Domenica In” iniziato vari anni fa. Un progressivo sganciamento della trasmissione dalle grinfie del varietà pomeridiano che finalmente rivela a tutti ciò che “L’ Arena” è sempre stato sin dagli esordi: un programma contro tutte le caste dei privilegi.”L’ Arena era scomoda perché faceva opinione”, spiega Giletti. Spostarlo di rete e di fascia oraria, trasferendolo dall’ ora di pranzo alla sera e mandandolo in onda contro Fazio, diventa così la rappresentazione plastica del conflitto tra il palazzo e la piazza. L’ uomo dallo stipendio d’ oro contro il fustigatore dei vitalizi. Il detentore dei privilegi e il giornalista vicino alla gente, quello che “dà fastidio”. Intanto, domenica scorsa la sfida Fazio-Giletti ci ha regalato una prima, significativa prova di grillismo a reti unificate. Mentre Fazio intervi stava Di Maio su RaiUno, Giletti snocciolava le cifre dei vitalizi su La7. Di Maio diceva “Dottor Fazio”, con una splendida, misuratissima pacatezza campana da Prima Repubblica. Spiegava il principio “uno vale uno”, diceva che il voto a M5s è un “voto contro i privilegi”, che vuole “far nascere il Facebook italiano”, che è andato all’ estero a incontrare “i suoi alter ego”. Parlava di “internet delle cose” con la stessa disinvoltura con cui Zuckerberg spiegherebbe la parmigiana di melanzane. Il tappeto soffuso di Fazio, la sua zona lounge, diventava così il palcoscenico ideale per esaltare il grillismo soft, quello che resta in Europa e sull’ euro vedremo, quello che fa “ripartire le aziende”, quello che ha il volto democristiano dell’ onore vole Di Maio, sereno e impassibile come i pesci rossi nell’ acquario di Fazio. “Che tempo che fa” si trasforma in un possibile terreno d’ incontro tra le professoresse democratiche, i devoti di San Gennaro e il grillismo “di centro” targato Di Maio. Scatta anche il paragone col giovane Andreotti, seppur filtrato da una citazione di Bruno Vespa. Sarebbe più calzante De Mita, ma Fazio non osa. Le elezioni sono vicine. Non si sa mai. L’ epoca del fact checking è ormai un ricordo lontano. Nel frattempo, su La7, si consumava un regolamento di conti in puro stile noir. Luci soffuse. Un’ ombra che cammina avvolta nell’ oscurità. L’ oc chio di bue che lo illumina nel buio dello studio. “Quando uno entra in una tempesta, non sa neanche se riesce a uscire vivo da quella tempesta, spera solo di attraversarla”. Siamo dalle parti dei grandi incipit del cinema noir, à la “Double Indemnity” di Billy Wilder (“L’ ho ucciso per denaro e per una donna, ma non ho preso il denaro e ho perso la donna… bell’ af fare”). Giletti guarda negli occhi il suo spettatore e spiega la proposta del varietà, la volontà di “chiudere per sempre l’ Arena”, impreziosendo il racconto con dettagli precisi, come quel “settimo piano di Viale Mazzini” che evoca subito il Mega -Direttore -Galattico di Fantozzi con l’ acquario di Fazio e gli epurati che nuotano dentro. Spiega come e perché se n’ è andato “sbattendo la porta”. Poi esce e scende le scale (non prende l’ ascensore, usa le scale) e scendendo le scale riavvolge “tutti i momenti, tutto quello che ho vissuto in questi ventisette anni all’ interno dell’ azienda che amavo” e incontra “tutte le persone che voi non conoscete ma che compaiono in quei titoletti di coda alla fine delle trasmissioni”. Poi pensa a quando ragazzo, carico di sogni, saliva le stesse scale che ora (nel suo racconto) stava scendendo. Poi l’ incontro col mentore, Giovanni Minoli. Poi l’ ingresso in Rai e un “grazie all’ azienda che ho amato”, un’ azienda in cui “sono entrato ragazzo e sono uscito uomo, ma non solo uomo… giornalista”, e qui ripete scandendo, “gior-na-li-sta”. Forse “c’ era qualcuno che non l’ aveva capito”. Ora è chiaro a tutti. “In fondo al tunnel c’ è sempre una luce e si arriva in un mondo migliore”. Dissolvenza. Nero. Sarà il nuovo orario serale, sarà la nuova produzione “Freamantle”, di sicuro i monologhi di “Non è l’ Arena” hanno guadagnato un “effetto -cine ma” e una dimensione epica che in Rai non s’ era mai vista. Arriva anche il saluto di Fiorello. “La Rai non ha capito, ti ha lasciato andare così”. Anche Giletti propone un grillismo moderato, presentabile, ragionevole, di lotta e di governo. Ovviamente, il grillismo di Giletti non ha nulla a che fare con l’ appartenenza politica o la dichiarazione di voto, ma con l'”esprit du temps” della nuova “egemonia culturale” (copyright Panebianco), della lotta senza quartiere ai palazzi, alle caste, alle gerarchie, ai privilegi. Da qui l’ insistenza ossessiva sui vitalizi come sineddoche della sopraffazione, degli sprechi, dell’ arroganza della politica. Visti in contemporanea, Di Maio da Fazio e Giletti su La7, tracciano i contorni di un grillismo soft con l’ idea fissa della purezza, ma senza la zavorra impresentabile dei microchip, delle scie chimiche, dei no vax, dell’ olio di palma, del sapone fatto in casa, delle coppette mestruali da scambiarsi tra amiche la domenica al parco per la festa della “decrescita felice”. Però tutta questa roba è anche la vera, profonda linfa vitale del M5s, della sua pesca a strascico di elettori su internet, insomma, della sua “ba se”, come si dice dalle parti della sinistra -sinistra. Questi però sono problemi di Di Maio. Giletti, invece, con la prima puntata di “Non è l’ Arena” ha mostrato di saper capitalizzare al meglio i propri cavalli di battaglia, partendo con un servizio sull’ affaire Tulliani che regalava passaggi da puro cinepanettone, tra latitanze a Dubai, inseguimenti all’ aeroporto, Ferrari a Montecarlo, società offshore e trame oscure legate al “Re delle slot”, Francesco Corallo. Poi i grandi classici. I servizi che si intitolano, “La pensione si allontana ma il vitalizio non si tocca”, “Padre e figlia uniti dal vitalizio”, con le cifre snocciolate sulle sceno grafie. Però Giletti specificava, anzi aveva l’ occasione di chiarire che lui non è contro i vitalizi, ma contro i privilegi. Quando affonda sui politici e il pubblico in studio applaude, lui attenua: “Non fate così che poi mi cacciano anche da qui”. “Lei tra un po’ avrà tre vitalizi”, dice al sindaco di Olbia, Settimo Nizzi, mentre il fornaio Mauro, in collegamento da Comacchio, si alza tutte le mattine alle quattro e non può andare in pensione. E’ giusto? No, non è giusto. Ma qui non si vuole esasperare l’ odio per i politici. Al contrario, Giletti vorrebbe riavvicinare la gente e la casta. La parte finale è tutta per il nostro “spaghetti Weinstein”, guest star Lele Mora, incazzatura femminista di Luisella Costamagna e nuovo, immancabile appuntamento con la saga, “avances e molestie, qual è il confine?” Il caso dei dati Auditel usciti in ritardo è solo l’ ultimo dei tanti regali della Rai. Ma il fatto è che Giletti mostra di conoscere il suo pubblico, traghettandolo da RaiUno a La7. Fazio no. “Che tempo che fa” e “Non è l’ Are na” prolungano in fascia serale il duello tra “Domenica In” e “Domeni ca Live” e come nei due show del lungo pomeriggio domenicale la Rai non riesce a tenere il passo. La narrazione costruita da Giletti è più compatta, espansa, irriverente. Esemplare l’ ospitata di Alessandra Moretti, cui Giletti dava del “lei”, che innescava così il doppio regime discorsivo del talk show e della soap coi retroscena del gossip “Cairo Editore”. Su Facebook, la pagina di “Non è L’ Arena” festeg gia già i diecimila followers.Fazio invece ha perso anche contro “Casa Pound”. Ospite della Annunziata dopo Veltroni, il leader post -neo fascista ha fatto in proporzione più ascolti di Di Maio, ma certo qui si cavalcava ancora l’ onda lunga della capocciata di Ostia. Giletti ha intercettato un consenso politico -giornalistico trasversale, pescando nel sentimento anticasta della linea Fatto Quotidiano Libero -Giornale e intascando gli endorsement di Fiorello e Salvini che tuìtta contro “i manovratori cui Gilet ti dava fastidio che si sono tenuti il Fazio -Flop”. Per fortuna c’ è “Rosy Abate”. Il “Kill Bill” di mafia targato Valsecchi ha annichilito la sfida Fazio-Giletti confermando la passione del paese reale per la fiction sgangherata. Certo, lo share non è tutto. Per quello basterebbe infilare una capocciata ai reporter ogni due, tre puntate e gli ascolti si impennano. Quello che stupisce semmai è la facilità con cui Mediaset riesce a entrare in sintonia con gli italiani che appare speculare a quella con cui la Rai riesce a incasinarsi da sola. Il martirologio di Viale Mazzini mantiene intatta la sua struttura schematica. Fazio ne ha approfittato questa estate, quando “parlava delle intollerabili ingerenze della politica”, quando minacciava di andarsene a La7 o Discovery, quando temeva per la sua famiglia e ha spiegato di non voler più accompagnare i figli a scuola e “guardarmi intorno per vedere se c’ è qualcuno pronto a insultarmi”. Giletti invecene ha approfittato per irrobustire il profilo di un personaggio politicamente sfuggente ma televisivamente compatto e costruirci sopra un “one -man -show” in linea coi tempi che corrono. Vedremo che tipo di eroina diventerà Milena Gabanelli. La Rai fabbrica di paranoie collettive, di martiri e di perseguitati politici è a suo modo un formidabile racconto del paese, col suo carico di complottisti, retroscenisti e fustigatori dei vitalizi. Un paese in cui un ritardo nella pubblicazione dei dati Auditel il giorno dopo la prima sfida Fazio-Giletti fa scattare un esposto del Codacons, perché si tratta di “un episodio grave sul quale deve indagare l’ Autorità per le Comunicazioni”. Così, non smetteremo di stupirci di come in oltre cinquant’ anni di sociologia dei media e saggistica apocalittica, gli intellettuali più raffinati e i pensatori più radicali abbiano speso fiumi di parole, elaborato teorie, proposto modelli di analisi per metterci in guardia dai pericolosi effetti che può avere la televisione su chi la guarda, mai però su chi la fa.

Comcast, Verizon e Disney in corsa per 21st Century Fox

Il Sole 24 Ore
Marco Valsania
link

NEW YORK Sembra una vera e propria «danza della morte» quella cominciata attorno all’ impero di Rupert Murdoch e della sua progenie. All’ interesse della rivale Disney per le possibili spoglie di una 21st Century Fox scopertasi improvvisamente vulnerabile e in difficoltà nel tener testa alla concorrenza di nuovi e vecchi media, si sono aggiunte ieri a tambur battente le avance di Verizon e di Comcast, che avrebbe avanzato un’ offerta tutta in titoli. Mentre in agguato, oltre a leggendari tycoon quali John Malone di Liberty che vantano un tradizionale debole per “casa” Murdoch, sarebbero anche colossi d’ avanguardia dell’ hi-tech e del digitale, da Google a Facebook, da Apple, chissà, fino all’ asso pigliatutto Amazon. La corsa dei titoli della 21st Century Fox, saliti fino dell’ 8% al moltiplicarsi dei corteggiatori, dà credito a quella che potrebbe davvero diventare una svolta epocale nei media americani e globali scossi dalla rivoluzione digitale. Murdoch aveva finora sempre difeso a denti strettissimi il cuore del suo regno familiare – tuttora forte di 27,3 miliardi di entrate annuali e di una market cap da 55 miliardi – guidandolo semmai lui a espansioni a colpi di acquisizioni. Soltanto tre anni or sono aveva provato a rilevare Time Warner, deal finito nel nulla che ha poi visto subentrare AT&T come acquirente. Adesso, invece, sono in gioco tante gemme della sua collezione nazionale e internazionale di asset, dopo che la famiglia, a partire dai figli e top executives James e Lachlan, avrebbe acconsentito, al giusto prezzo, a ricevere in eredità un gruppo molto ridimensionato. In vendita sarebbero gli studi di produzione tv e cinematografica. Numerosi canali via cavo televisivi, quali National Geographic e FX. La tv satellitare Sky in Europa e Star in India. Per il clan Murdoch diventerebbe una resa ai nuovi leader dei media che oggi si fanno sotto. Rimarrebbe loro, piuttosto, il separato gruppo dalle radici originali, News Corp, che raccoglie gli asset giornalistici quali il Wall Street Journal. Per i grandi corteggiatori le ragioni dell’ assalto sono altrettanto esplicite: impadronirsi di marchi, contenuti, know how oggi cruciali per la distribuzione su molteplici piattaforme. Un trend che potrebbe intensificare al parossismo un’ ondata di mega merger nei mass media al di là di 21st Century Fox, tale da lasciare sul palcoscenico fra qualche anno, secondo analisti e operatori di mercato e senza interventi di regulators, una manciata ristretta di protagonisti assoluti. Segno di possibili operazioni all’ orizzonte, un’ altra società storica ma in declino, Viacom, ha visto i titoli lievitare nell’ ipotesi diventi a sua volta una attraente preda. Eccoli i nuovi – o potenziali – signori dei media. Verizon è già oggi leader assoluto nella telefonia mobile statunitense, in cerca di espansione dell’ offerta di prodotti in streaming su smartphone dopo essersi da poco rafforzata nel digitale con Aol e Yahoo, raggruppate nella neonata Oath che detiene 50 marchi. Comcast è ormai grande padrone delle reti per canali via cavo e connessioni Internet ad alta velocità. Di più: ha rilevato dal 2011 e integrato NBCUniversal e l’ anno scorso aggiunto Dreamworks Animation. A sua volta è ora impegnata a colmare di crescenti “tesori” di “content” il proprio impero. Una conquista dei prestigiosi asset targati Murdoch la vedrebbe alla pari con Disney per diversificazione nell’ offerta di intrattenimento e spettacolo su scala internazionale. Proprio la presenza estera, assieme alla quota nel servizio di streaming Hulu, rappresenterebbe il 70% dei desiderata di Comcast. Mentre un ritorno alla carica di Disney – se rischierebbe sovrapposizioni e una rottura rispetto a precendenti deal minori di successo quali Marvel, Pixar e Lucas Film – potrebbe far leva su un’ inedita posizione centrale nell’ universo mediatico del nuovo mega-gruppo e consentire risparmi e efficienze. La «somma» delle attività di simili player con gli asset di 21st Century rafforzerebbe anche l’ essenziale sfida per la raccolta pubblicitaria, che oggi cresce anzitutto nel digitale. Da qui, da questa spirale di contenuto e pubblicità, nasce anche l’ attenzione dei nomi hi-tech. Apple è reduce da nuovi investimenti nella produzione di film e spettacoli e i successi dei servizi di streaming di Amazon e Netflix sono tra i motivi del declino strutturale della tv via cavo, un tempo fatte di grandi profitti, a causa del cosiddetto cord-cutting da parte di milioni di abbonati. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Cassazione: non basta un blog per verificare notizia

Italia Oggi

link

La verifica di una notizia non può essere compiuta esclusivamente affidandosi a blog e siti internet, ma il cronista deve sempre attivarsi per approfondire la veridicità del fatto. La quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione di un giornalista che, in un libro pubblicato nel 2008, aveva parlato di un tentato omicidio, che, però, non era mai avvenuto, ma era stato raccontato su un sito web. La difesa dell’ imputato aveva evidenziato che «la notizia pubblicata era già apparsa su almeno una decina di siti internet, senza mai essere smentita», ma questa tesi non è servita ad annullare la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’ appello di Trento nei confronti del cronista. «In tema di diffamazione a mezzo stampa», ricorda la Suprema Corte, «ai fini della configurabilità dell’ esimente del diritto di cronaca giudiziaria, il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio, non essendo sufficiente in proposito l’ affidamento in buona fede sulla fonte informativa, soprattutto quando questa sia costituita da un’ altra pubblicazione giornalistica, atteso che, in tal caso, l’ agente si limita a confidare sulla correttezza e professionalità dei colleghi, chiudendosi in un circuito autoreferenziale». Il giornalista, nel caso in esame, aveva sostenuto, ricorda la Cassazione, di «affidarsi normalmente al rilievo empirico dell’ esistenza di una pluralità di fonti» e che «qui “aveva fatto gioco”, la circostanza della pregressa pubblicazione della notizia» sul suddetto sito, e «poi riportata da più siti e blog». Per la Corte, «l’ imputato si accontentò di quel che “aveva fatto gioco” e che, a prescindere da come egli fosse aduso regolarsi, non poteva comunque intendersi sufficiente per fondare un suo ragionevole affidamento sulla rispondenza al vero della notizia».

Gli editori guardano ad Amazon Crescono gli accordi per canali televisivi, film e serie tv

Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
link

Prima c’ era il negozietto sotto casa, poi è arrivato il supermarket, quindi il grande centro commerciale. E infine le enormi piattaforme di e-commerce, che in realtà accorpano molto altro. Un po’ la stessa cosa sta capitando per il business dell’ editoria: c’ erano solo le edicole e le librerie, poi le modalità di acquisto dei prodotti sono via via cambiate. E adesso molti gruppi editoriali pensano che una delle soluzioni per sopravvivere sia proprio quella di allearsi alle grandi piattaforme distributive, che hanno bisogno di contenuti. Tipo Amazon. Negli Stati Uniti il colosso Time Inc., ad esempio, ha appena annunciato il lancio della Sports Illustrated tv, un servizio in streaming, al costo di 4,99 dollari al mese, accessibile su Amazon Prime, l’ offerta video di Amazon che veicola già altre 130 tv. Il nuovo canale prende ovviamente spunto da Sports Illustrated, lo storico settimanale (ma la periodicità sta cambiando) di Time Inc. che diffonde circa 2,8 milioni di copie medie, ma i cui conti non sono proprio scintillanti: la casa editrice ha già anticipato che nel 2018 il periodico uscirà solo in 27 numeri (compresa l’ edizione annuale dedicata all’ abbigliamento da spiaggia e nuoto), rispetto alle 38 uscite del 2017. Per Sports Illustrated tv sono già pronte 130 ore di documentari, show in studio, film dedicati allo sport, programmi di moda mare, mentre non proporrà nessun evento live, che è invece il pane degli appassionati di sport. Proprio per questo c’ è, tra gli analisti, qualche dubbio circa il potenziale di un canale del genere, tenuto conto che negli Usa esistono già oltre 204 offerte video in solo streaming a pagamento (erano 105 nel 2014), di cui parecchie già a tema sport. Va tuttavia detto che Time Inc. ha già una esperienza di successo nel campo dello streaming: dal 2016 ha infatti lanciato People Tv, ovviamente ispirata al popolare magazine People. Più in generale, comunque, Time Inc. sta provando una serie di strade alternative per compensare il calo dei ricavi dalla carta stampata, scesi del 9% nell’ ultimo trimestre. Grazie a questa strategia, nel 2017 i ricavi non-magazine di Time Inc. saliranno a circa un miliardo di dollari, di cui 700 milioni dalla pubblicità digitale, dal licensing di contenuti e dagli abbonamenti digitali, e 300 milioni di dollari dalle brand extension e dalla tv. Come si diceva all’ inizio, piattaforme tipo Amazon sono alla caccia di contenuti. E non è un caso che gli Amazon Studios, guidati da Sharon Tal Yguado, abbiano appena firmato un accordo con Talkien estate and trust, HarperCollins e New Line per iniziare a girare una nuova serie tv dedicata ai personaggi e alle storie del Signore degli anelli, un brand che al cinema, con le sue uscite, ha incassato circa 6 miliardi di dollari. Il rapporto degli editori tradizionali con queste nuove piattaforme distributive è, ovviamente, di amore e odio. Lo stesso Rupert Murdoch, in una recente convention di News Corp a Los Angeles, ha infatti ammesso che il suo gruppo non intende acquisire nuovi quotidiani cartacei, che i tre grandi successi sono testate nazionali come il Wsj, il Times di Londra e i giornali in Australia, che quasi tutti gli altri quotidiani combattono duramente per stare in vita, e che i veri nemici si chiamano Google e Facebook, perché «continuano a usare gratis i contenuti di News Corp». © Riproduzione riservata.

Per Studio e Undici ricavi a quota 1 mln

Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
link

Non si può fare brutta figura. E, in un certo milieu culturale, bisogna per forza dire di aver letto, almeno una volta, magari qualche anno fa, Rivista Studio e Undici. I due bimestrali, interessanti, intelligenti e innovativi per definizione anche se non li hai mai visti in vita tua, accolgono le firme che contano con pezzi bellissimi e assicurano discrete carriere a collaboratori e fondatori (da Timothy Small, diventato direttore di Esquire Italia, a Giuseppe De Bellis, attuale direttore di GQ Italia). Due anni fa la casa editrice di Studio e Undici, la Studio editoriale srl, è stata acquisita da News 3.0, la società editrice del gruppo di Matteo Arpe che, partendo da Lettera 43, voleva creare un solido polo con attività sia online, sia cartacee con il quotidiano Il Foglio (e poi tentativi di acquisto di altre testate), il settimanale Pagina99, e i due bimestrali Studio e Undici che, uscendo a mesi alternati, assicurano comunque un presidio mensile. Le ambizioni di Arpe si sono poi scontrate con un momento difficile dell’ editoria italiana e con una scarsa attitudine nei rapporti con la politica. Fatto sta che Arpe è stato costretto a uscire completamente dal Foglio, ha chiuso Pagina99 (che per ora resta solo online). E si ritrova sul groppone anche la Studio Editoriale, con tutte le sue perdite. Studio (dedicata ad attualità, cultura, stili di vita) è stata fondata da Federico Sarica (che ne è direttore responsabile) e da Alessandro De Felice (publisher); Undici (dedicata al calcio, ma da un punto di vista dotto) è stata fondata da Giuseppe De Bellis, ed è diretta da Sarica. Entrambi i periodici costano sette euro. La casa editrice dei due bimestrali, Studio Editoriale, ha sede in via Garofalo 31 a Milano, è presieduta da De Felice, mentre Sarica ne è consigliere, insieme con De Bellis e con Paolo Madron (che è anche consigliere di News 3.0). Come anticipato, i conti di Studio Editoriale srl non sono un granché: nell’ esercizio chiuso al 31 dicembre 2016 il patrimonio netto ammontava a soli 34 mila euro, dopo che nel 2015 era andato addirittura in negativo per 96 mila euro. Il valore della produzione sfiora il milione di euro (970 mila euro), ma i costi della produzione volano a 1,25 milioni di euro. Le perdite, perciò, ammontano a 278 mila euro, dopo il rosso di 117 mila euro del 2015 e di 46 mila euro del 2014. La concessionaria di pubblicità, così come indicato sul sito web delle riviste, è ancora la System del Sole-24 Ore. Con la quale, però, News 3.0, che controlla le due riviste, è entrata in conflitto da mesi. © Riproduzione riservata.

Tutti vogliono 21st Century Fox

Italia Oggi
ANDREA SECCHI
link

Dieci giorni fa si è parlato di un interessamento di Disney alla maggior parte degli asset della 21st Century Fox, il gruppo di Rupert Murdoch che possiede tv e studi cinematografici negli Usa oltre che pay tv in diversi altri paesi, compresa una quota del 39% in Sky. Questa settimana è la volta delle rivelazioni su altri due pretendenti: Comcast e Verizon, ovvero il più grande operatore via cavo degli Stati Uniti con una capitalizzazione di mercato da 171 miliardi di dollari e l’ operatore di telecomunicazioni che di miliardi ne vale 185. Interesse poi sarebbe stato manifestato anche da Sony, sebbene quest’ ultimo avrebbe avuto soltanto approcci informali. Nessuno dei tre player ha ammesso il proprio interessamento e comunque, come accade in questi casi, il titolo di Fox è schizzato in Borsa a ogni nuova notizia sull’ argomento. Anche nel caso di Comcast, secondo quanto riportato dalla Cnbc che già per prima aveva parlato dei contatti con Disney, gli asset oggetto della trattativa sarebbero gli stessi: la produzione cinematografica e televisiva, il network via cavo e il business internazionale, tra cui la quota del 39% in Sky che ha attività nel Regno Unito e in Germania oltre che in Italia. Attualmente l’ intera 21st Century Fox ha una capitalizzazione di mercato di 56 miliardi di dollari. La famiglia Murdoch sarebbe intenzionata a tenere soltanto la parte broadcasting di Fox, compresi Fox News e Sport. Il motivo di una possibile vendita si fa risalire alle difficoltà a crescere ulteriormente in maniera organica per contrastare la concorrenza degli over the top e contemporaneamente alla mancanza di concorrenti da acquisire alla propria portata. Non sarebbero poi irrilevanti, sempre nella decisione di vendere, le difficoltà nell’ acquisizione del restante 61% del capitale di Sky non ancora posseduto a causa di uno scrutinio più duro di quanto atteso da parte delle autorità inglesi. Durante la presentazione dei dati trimestrali agli analisti la scorsa settimana, però, il presidente esecutivo del gruppo, Lachlan Murdoch, figlio maggiore del magnate dei media, ha rifiutato di rispondere a domande su una possibile vendita, dicendo però che la propria società ha «la scala necessaria per continuare a portare avanti la nostra strategia di crescita aggressiva e contemporaneamente offrire significativi rendimenti in aumento agli azionisti. I player che hanno una dimensione più piccola trovano difficoltà nello sfruttare la propria posizione sulle piattaforme video nuove ed emergenti. Lasciatemi essere molto chiaro: non siamo in quella categoria». Dal canto loro i pretendenti sarebbero ingolositi da due aree molto importanti: la produzione di contenuti, l’ elemento che fa la differenza nell’ attrarre abbonati, e l’ espansione fuori dagli Stati Uniti. Per Disney, che si prepara a lanciare una propria offerta in streaming, significherebbe incrementare ulteriormente il catalogo ed avere uno sbocco nella distribuzione europea. Anche per Comcast, che oltre all’ offerta della banda larga ha anche nel portafoglio la Nbc e gli Universal Studios, vale un discorso simile, visto è in stallo la domanda Usa della pay tv. A Verizon, invece, già proprietario di Aol e Yahoo, servirebbe soprattutto la produzione di video con cui rafforzare l’ offerta mobile. © Riproduzione riservata.

GLI 88 ANNI DI GIUSEPPE GALASSO

La Repubblica (ed. Napoli)

link

AURELIO MUSI DOMANI Giuseppe Galasso compie 88 anni. Il professore sarà festeggiato lunedì alla Società Napoletana di Storia Patria (Maschio Angioino, ore 15,30), di cui è presidente onorario. Maurice Aymard, Martin Baumeister, José Enrique Ruiz Doménec, Andrea Giardina, coordinati da Luigi Mascilli Migliorini, interverranno sul tema: “Ragione e passione storica: Giuseppe Galasso e la storiografia europea”. Chi scrive presenterà un’ intervista allo storico napoletano che apparirà sul prossimo numero della “Nuova Rivista Storica” in occasione del centenario della sua fondazione. Proprio questa lunga conversazione con Galasso ha riservato non poche sorprese: non solo e non tanto per le innumerevoli precisazioni e riflessioni sul suo itinerario intellettuale, sui suoi interessi scientifici, sulla sua onnivora curiosità capace di dispiegare attenzione e sensibilità per tutte le forme di conoscenza, sulla sterminata massa di opere da lui prodotte, quanto per tutto quel che si apprende sulla sua biografia umana durante gli anni della guerra e del primo dopoguerra, sulla sua formazione, sulla continuità di un impegno che ha sempre mantenuto, in mirabile equilibrio, cultura e tensione etico- politica. Già quando i suoi allievi festeggiarono i settantacinque anni nella meravigliosa chiesa di San Marcellino a Napoli, si restò colpiti dallo stupefacente dato quantitativo della sua bibliografia: oltre quattromila titoli che avrebbero occupato un ideale volume di 250mila pagine! Ma poi non si è fermato. Ha continuato freneticamente a scrivere. Il maestro, per scaramanzia, ha poi rinviato e rinvia tuttora sine die la pubblicazione della bibliografia, che è andata arricchendosi in misura sbalorditiva. E arricchendosi è andata pure la capacità di ideatore e organizzatore culturale di Galasso. Basti ricordare alcune delle tante iniziative da lui promosse: le Dieci lezioni sulla storia di Napoli, svoltesi con straordinario successo di pubblico all’ Auditorium Rai di Napoli (oltre mille persone ad evento); le Letture delle pagine autobiografiche di Croce, che hanno visto protagonista, al teatro Bellini, Toni Servillo. Da ultimo, la lezione su Il resto di niente di Striano e sul 1799, tenuta sempre al Bellini domenica scorsa: uno spettacolo unico, con la fila di 50 metri al botteghino e il teatro pieno. Insomma, un intellettuale dagli interessi polivalenti, un’ eccellenza della cultura napoletana nel mondo. L’ allontanamento dalla politica attiva dopo il 1993, a differenza delle scelte compiute da altri esponenti della classe dirigente della cosiddetta Prima Repubblica che si sono riconvertiti alla seconda senza traumi nel segno del riciclaggio, non ha impedito a Galasso una presenza costante ed efficace nel dibattito politico anche attraverso le pagine della rivista da lui diretta, “L’ Acropoli”, e la collaborazione a quotidiani. Galasso, attraverso un’ intensa attività pubblicistica che ha caratterizzato l’ intero suo itinerario intellettuale, ha svolto un’ analisi, a volte impietosa, della classe dirigente nazionale e locale, una polemica, sferzante ma costruttiva, verso tutte le forme di meridionalismo revisionista tendenti a negare il dualismo Nord-Sud, dimostrando sempre di avere un solido ancoraggio alla cultura politica democratica. Intelligenza della ricerca storica, prodigiosa capacità di lavoro, curiosità del lettore onnivoro attento a leggere e recensire di tutto; ma anche gioia di vivere, disponibilità, rispetto, attenzione costante verso qualsiasi tipo di interlocutore: sono i lineamenti essenziali del ritratto di Galasso. Affettuosi auguri, professore! ©RIPRODUZIONE RISERVATA.

“Mio padre Enzo, un grande timido che sapeva far parlare i potenti”

La Stampa
ALBERTO MATTIOLI
link

«I libri di memorie dovrebbero essere pubblicati postumi», diceva Enzo Biagi. Detto fatto: a dieci anni dalla morte, ecco La vita è stare alla finestra (Rizzoli), l’ autobiografia che non ha scritto ma che è stata assemblata con le sue parole, nelle occasioni in cui raccontò la sua vita invece che quelle degli altri. Il Biagi che non t’ aspetti lo racconta la figlia Bice, giornalista pure lei. Perché Biagi è diventato Biagi? «Secondo me, per la chiarezza, la semplicità, sia in tivù che sui giornali. La gente lo trovava affidabile. A tutti i livelli: si fidava di lui il lettore e si fidavano di lui i grandi personaggi. Infatti li ha intervistati tutti». Compresi alcuni dei suoi amici. «Come Fellini, Mastroianni o Pertini, che aveva anche dei trascorsi giornalistici. Si stimavano molto, talvolta litigando. E allora mio padre gli diceva: “Come giornalista, era più bravo Mussolini”. Ci fu anche uno strano rapporto con Tommaso Buscetta: non certo d’ amicizia, ma il personaggio l’ aveva colpito. Ricordo una colazione a casa dei miei, c’ erano Buscetta, sua moglie e il figlio di cui non ci dissero mai il nome, per sicurezza. Lo chiamavano sempre e solo Junior. Poi c’ erano gli intervistati che lo colpivano negativamente. Una volta fece parlare un serial killer, poi raccontò: non ce l’ ho fatta a stringergli la mano». Uno dei capitoli più divertenti racconta il trasloco della famiglia Biagi da Bologna a Milano nel 1951. Sembra «La scoperta di Milano» di Guareschi… «Un altro dei suoi amici. Senza far torto a Bologna, la città di mio padre è stata Milano. Diceva che è la città che accoglie, quella che dà un’ opportunità a tutti». Era meglio allora o oggi? «Diversa. Forse all’ epoca c’ era un altro fermento. La sua era la generazione che usciva dal fascismo e dalla guerra. Era affamata di tutto, di cultura, di sapere, di confronto. Anche il suo primo viaggio in America fu epico, una specie di avventura. Ci portò delle bambole che non avevamo mai visto: erano le prime Barbie». Dal libro esce molto bene Angelo Rizzoli senior. «Non solo lui, anche Arnoldo Mondadori, che gli affidò Epoca perché lo avevano colpito i reportage sull’ alluvione del Polesine. Allora gli editori leggevano, e leggevano tutto. Rizzoli e Mondadori gli piacevano perché si erano fatti da soli e partendo dal nulla. C’ era un fondo di umanità che li accomunava». Anche della «Stampa» parla con affetto. «È il giornale che ha amato di più. “Mi ha sempre preso quando gli altri mi mandavano via”, diceva. E non gli ho mai sentito parlare bene di un direttore come di Giulio De Benedetti». Nonostante il famoso telegramma di dimissioni? De Benedetti non aveva messo in prima un suo pezzo, per inciso magistrale, sull’ assassinio di Kennedy visto dall’ America profonda. «Sì, tanto che poi con De Benedetti fece pace e alla Stampa tornò. In quell’ occasione si sentì umiliato e così ebbe una delle sue epiche arrabbiature». Arrabbiature? In tivù sembrava un uomo di una pacatezza zen. «Lui? Figuriamoci. Era un timido che s’ infuriava. Mia madre doveva continuamente portare a far riparare il cinturino dell’ orologio perché quando si arrabbiava picchiava dei grandi cazzotti sulla scrivania». E come padre com’ era? «Da ragazze l’ abbiamo visto poco, era sempre al lavoro. Quando c’ era, era molto severo. Se papà scriveva, non si poteva fare nemmeno una telefonata. “Non pago dei viaggi di nozze anticipati”, diceva se qualcuna di noi figlie voleva andare in giro con il fidanzato. Quando diventò anziano l’ abbiamo scoperto anche come padre affettuoso, perfino tenero. Faceva complimenti, ti diceva: “Sei elegante, oggi”. E ai nipoti permetteva di fare quel che sarebbe stato vietatissimo a noi». Diceva che era molto timido. «In maniera patologica. Non entrava mai in un negozio da solo. Lui, che aveva girato tutto il mondo. Anche la sua goffaggine era una forma di timidezza. Dopo che l’ avevo visto in tivù gli chiedevo: perché non sorridi di più? E lui, citando Paolo VI: “Dimmi che motivi avrei di sorridere”. Poi però quando si trovava davanti Kennedy o la Thatcher la timidezza spariva, e faceva il suo lavoro». Torniamo allora al Biagi pubblico: l’«editto bulgaro» di Berlusconi, quando fu cacciato dalla Rai con Santoro e Luttazzi. «Un brutto episodio. Intanto perché arrivò in un momento difficile, in un anno aveva perso mia madre e mia sorella Anna, dolori che lo hanno segnato. E poi perché lo visse come un’ umiliazione: “Togliere il lavoro è togliere la dignità”. Infine, perché era preoccupato non per lui, ma per chi da anni lavorava con lui, la sua redazione, la sua gente. Quel giorno diventò vecchio». Da collega, gli ha mai chiesto consiglio? «No, e non per presunzione. Però mi leggeva. Era ossessionato dalle ripetizioni. Frase tipica: “Ricordati: oltre che porta, si può anche dire uscio”. Quando diventai direttore di Novella 2000 si divertiva ai racconti che gli facevo, i pettegolezzi, questo sta con quella, ma davvero?». Internet lo frequentava? «Macché. Non ha mai avuto un computer, anzi nemmeno un cellulare. Era l’ uomo più privo di manualità che abbia mai conosciuto. Riusciva a stento a comporre il numero con i vecchi telefoni, quelli con il disco rotante. Quando gli feci vedere il sito della Pro Loco di Pianaccio, il paesino dov’ era nato, il suo stupore fu lo stesso del mio nipotino che guarda Peppa Pig». Il suo libro più bello? « Disonora il padre ». E il pezzo migliore? «Quello scritto dopo un intervento al cuore, uno dei tanti, dove racconta la sua notte in rianimazione e dice che la preghiera più bella è il Padre nostro ». Lei, Bice, cosa fa adesso? «Sono felicemente pensionata. Basta giornali, faccio solo la nonna. Ho un nipotino di due anni che si chiama Enzo, è nato in agosto come lui e per molti aspetti lo ricorda. La vita va avanti». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 8011

Trending Articles