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Rassegna Stampa del 20/11/2017

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Indice Articoli

Perché la radio non morirà mai

E nel futuro più stretta l’ integrazione con Auditel

La rivoluzione dell’ Audiweb 2.0 l’ audience ora si misura sulle app

Una raccolta di dati affidabili chiesta dal mercato

Campagna Tgr: l’ Italia delle opere compiute e incompiute

SE IL DIRITTO D’ AUTORE DIVENTA STRUMENTO DI CENSURA

Le alleanze elettorali dei dem e i margini stretti della manovra

Chi mangerà lo squalo? Parte L’ assedio a Murdoch

HastingsNetflix

IgerDisney

FACEBOOK, GOOGLE: LA CONCORRENZA CHE ANCORA NON C’È

Far pagare i giganti del tech garantisce equità fiscale e una concorrenza leale

Con una tassa sul fatturato si rischia che l’ onere ricada sui consumatori

Enel, Cdp, Tim, Mediaset e governo partita a cinque sulla scacchiera delle super reti a banda ultralarga

Perché la radio non morirà mai

Il Tempo

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Con la crisi dell’ editoria e della tv generalista e la rivoluzione del Web, la radio rimane forse uno dei pochi media tradizionali cui gli italiani non sembrano voler rinunciare. Ma come è cambiato lo scenario radiofonico italiano con la crescita dei grandi network radiofonici in questi ultimi anni? Lo abbiamo chiesto a giornalisti, speaker e noti conduttori radiofonici. Di certo il cambiamento anche in questo settore c’ è stato e si è sentito già da un po’. In molti infatti, ritengono che i primi veri cambiamenti risalgano agli anni ’90, quando l’ era delle radio locali cominciava a lasciare spazio a quella dei primi grandi network. Di fatto oggi gli ascoltatori sembrano premiare in termini di audience grandi colossi in grado di offrire un’ offerta ricca e completa come RTL, ai primi posti delle classifiche di ascolto, il gruppo Media set con Radio105, Virgin Radio, Radio 101 e recentemente anche Radio Subasio, il Gruppo l’ Espresso con Radio Deejaye Radio Capital, il network RDS e diverse altre realtà di primo piano senza contare ovviamente Radio Rai. E le care vecchie radio locali? «Oggi c’ è crisi per le radio locali – ci ha detto Renzo Di Falco, conduttore di RDS – e questo è un dispiacere per tuti noi che, ai loro microfoni, abbiamo fatto tanta gavetta, erano un’ ottima palestra. Con il taglio di investimenti pubblicitari spesso molte radio locali muoiono e vendono le loro frequenze a network più potenti. Altre invece provano a scimmiottare proprio i grandi network è questo è un errore. In ogni caso la loro crisi trovo che sia un vero peccato per tutti perché sono sempre state una risorsa del territorio e nel tempo hanno fatto crescere anche tanti professionisti». «È come nel mondo dei giornali – ci spiega Doctor Mann Stefano Mannucci, giornalista e critico musicale, conduttore di “Rock Morning” su Radiofreccia e autore de “Il suono del secolo”, successo editoriale del momento – Accanto ai grandi quotidiani nazionali ci sono quelli locali, del Veneto, della Campania, della Sicilia; tutt’ oggi esistono consorzi che, con il giusto approccio, continuano a funzionare. Sono realtà piccole e medie che mirano all’ inserzioniamo locale e che, come i giornali di provincia, sono appetibili per l’ ascoltatore di un certo tipo, per quello che vuole una radio del territorio». «Sicuramente le radio locali sono diminuite notevolmente negli ultimi anni ma ne esistono ancora e anche di qualità – ci ha detto Dario Spada speaker di Radio 105 – Certo è più difficile rispetto a un tempo che un giovane oggi si avvicini al mondo della radio attraverso una radio locale. Oggi la palestra per i giovani c’ è ancora ma la si fa nelle web radio, con internet e con i vari sistemi di podcast che permettono di auto crearsi dei format e pubblicarli in autonomia. Quello che dispiace è vedere tantissimi ragazzi che vogliono fare la radio attraverso internet scimmiottare noi che lavoriamo nei network. Questo è un errore perché con le tecnologie di oggi i giovani hanno la possibilità di essere più liberi e originali. Così come gli youtuber hanno innovato, sta a loro trovare strade nuove. Le idee forti e originali in radio come altrove vincono sempre». «Quelle che mancano di più oggi sono le vecchie talk radio-afferma Federico Vespa speaker di RTL di 102.5 . È indubbio che ormai il modello dei network sia un’ evoluzione necessaria per il nostro mondo ma a molti di noi speaker manca il parlato che, per carità, esiste ancora in alcune radio, ma sicuramente è molto meno presente di vent’ anni fa e questo è un peccato». «Il contesto di oggi è eterogeneo ma nella battaglia degli ascolti – dichiara invece Antonello Do sede “Il ruggito del coniglio” storico successo mattutino di Radio Due – noi abbiamo sempre fatto una radio di contenuti, mentre alcuni ci chiedevano di fare più una radio di flusso ricca di canzoni, ora abbiamo scoperto che anche molte radio private seguono il nostro modello. Anche se non c’ è un modello che funziona, la radio piace se è fatta bene». «Sempre più i grandi gruppi a livello hanno fagocitato realtà storiche della radiofonia nazionale peraltro promuovendo le star televisive più che i professionisti della radio. Ma a mio parere a Roma le radio locali mantengono tutt’ oggi una grande fetta di ascolti- ci ha detto Andrea Torre voce storica e porogram director di Radio Globo – qui il peso dei network si sente fino a un certo punto. L’ unico problema delle radio locali romane semmai è una certa monotonia del formato talk calcistico. Nel contesto radiofonico romano grande fetta è occupata da questo tipo di radio mentre manca molto il formato flusso del quale noi di Radio Globo siamo protagonisti. Continuiamo a credere in un prodotto radiofonico che sia la miscela giusta di contenuti e musica». Ad ogni modo tutti sembrano concordare su una cosa: gli italiani non rinunceranno mai alle radio, perché le tengono compagnia, informano, divertono e fanno parte della nostra quotidianità. «La radio è un mezzo agile – spiega Mannucci – e le novità tecnologiche oggi l’ hanno rilanciata. Oggi soprattutto puoi ascoltare le grandi radio in FM o sul sito o sullo smartphone con l’ applicazione, in digitale in auto o attraverso la radiovisione. La radio non muore mai perché rispetto alla televisione, che spesso risulta perdente rispetto alla Rete e a tanti altri nuovi mezzi, è più snella. La TV è un elefante che si muove con passo lento perché ha bisogno di investimenti importanti, in radio è tutto più agile». «È un mezzo di comunicazione che ti entra nel cuore – afferma Dario Spada di Radio 105- ti tiene compagnia ovunque e poi ha un modo di comunicare immediato, diretto, la radio è un mezzo caldo, è questo il suo segreto e questo il motivo per cui moti italiani fanno fatica a rinunciarvi “. «La salute della radio negli anni a mio parere- ci ha detto Massimo Cirri storico conduttore di Caterpillar programma pomeridiano di grande successo di Radio Due – è dovuta anche al minore interesse della politica nei suoi confronti, a differenza di quanto è sempre avvenuto per TV e giornali e, sinceramente, mi auguro che continui così. Di certo la radio è sempre più vicina alla vita delle persone, ora la portiamo anche addosso con noi nel nostro nel telefonino. Storicamente la radio è nata per non far sentire lontano chi era in mare e oggi avviene un po’ la stessa cosa: quando sei solo nella vita di oggi le voci della radio sono una presenza, creano un legame di compagnia che TV e giornali non sono in grado di creare». “Trovo che la radio sia il primo vero social network – afferma Di Falco -perché ancora di più oggi ti dà il senso del contatto con gli altri. E’ condivisione. Un tempo si cantava “Video killed radio star” ecco, non credo che i social oggi uccidano la radio, semmai in qualche modo la rafforzano, sono un sostegno in più per interagire con noi. Sono sempre di più infatti, gli ascoltatori che scrivono, commentano e danno feedback». E questo avviene soprattutto con alcune trasmissioni mattutine di successo che in radio oggi spopolano, format vincenti che sempre più spesso abbinano musica, intrattenimento e comicità. «La ripetitività, la riconoscibilità, la comicità e l’ intrattenimento sono quello che gli ascoltatori oggi vogliono quando ascoltano la radio- spiega Mannucci- soprattutto al mattino la gente magari è nel traffico e ha bisogno di questa leggerezza. E’ come una piccola medicina bonaria per superare lo stress. Per questo la radio è ripetitività come insegnavano i maestri Arbore e Boncompagni, devi avere l’ illusione di partecipare, di essere dentro quell’ arena, di sentirti un parente, un amico di quei personaggi”. “Sempre più oggi sono necessari contenuti di questo tipo- aggiunge Di Falco – la musica oggi si trova ovunque, se invece ci abbini intrattenimento, risate, personaggi, accompagni la quotidianità di quelle persone che ogni giorno vogliono seguirti, partecipare e iniziare la loro giornata con il buonumore». Il post, il tweet, il commento sono insomma in questo mondo all’ ordine del giorno con trasmissioni che quotidianamente vengono seguite e commentate da migliaia di followers. E così si torna al rapporto Radio -Social network. «Se la radio è una casa, una parete di questa casa oggi è sicuramente rappresentato dai social afferma Mannucci- grazie ai social è possibile continuare la frequentazione con gli ascoltatori anche quando finisci di andare in onda». «Il mondo sociale ha alimentatola nostra capacità di condividere – dichiara Dario Spada di Radio 105- ma a volte tutto questo feedback non è detto che sia sempre così positivo. Da un lato si creano dei bellissimi rapporti con gli ascoltatori. A volte però tutto questo scambio può creare dissapori, esistono critiche cattive, per cui bisogna anche stare attenti. Alla fine è sempre una questione di educazione». «I social anche da noi in radio sono uno strumento chiosa Federico Vespa – e come tutti gli strumenti bisogna saperli gestire». «Nei social puoi scrivere quello che vuoi, anche tante menzogne – aggiunge Antonello Dose -in radio invece la voce non mente». «I social nella vita di oggi sono imprescindibili – ammette Cirri ma rimangono ancora un qualcosa di scritto. La radio invece ha ancora il fascino della voce e sarà sempre più veloce. Le nuove frontiere arriveranno quando si riuscirà a coniugare, e in parte con messaggi vocali di whatsapp già sta avvenendo, social e voce, allora ne vedremo delle belle».

E nel futuro più stretta l’ integrazione con Auditel

Affari & Finanza

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[ LE PROSPETTIVE] L a rivoluzione Audiweb 2.0 procederà per gradi. Da gennaio 2018, in parallelo con l’ attuale sistema di rilevazione, saranno distribuiti agli editori dati quotidiani e settimanali dell’ audience completa delle property editoriali iscritte al servizio. Tali dati riguardano la fruizione dei contenuti dai device rilevati (Pc e Mobile), attraverso le differenti modalità e piattaforme. Dal secondo trimestre saranno prodotti anche i dati mensili che andranno a sostituire completamente l’ attuale sistema, e il dato del giorno medio che sarà reso disponibile nel nastro di pianificazione per spostare il digitale su un registro di interpretazione e utilizzo più simile agli altri mezzi e alla Tv in particolare. Viste le caratteristiche del nuovo sistema di rilevazione e delle specifiche fonti utilizzate, Audiweb ha predisposto controlli più accurati e solide procedure di auditing. Grazie al tavolo di lavoro che è in corso con Auditel sul progetto di Ricerca di Base, la nuova rilevazione Audiweb a breve poggerà su un’ unica sorgente qualificata per la stima degli universi, con informazioni sul profilo sociodemografico delle famiglie e degli individui e sulle dotazioni tecnologiche di accesso ai media. Ciò consentirà alle rilevazioni di dare agli investitori indicatori preziosi sulle audience cross media. (v.d.c.) © RIPRODUZIONE RISERVATA.

La rivoluzione dell’ Audiweb 2.0 l’ audience ora si misura sulle app

Affari & Finanza
Vito de Ceglia
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L a fase di transizione del progetto Audiweb 2.0 si è chiusa: dal prossimo 1° gennaio, l’ organismo “super partes”, che rileva e distribuisce i dati di audience di Internet in Italia, passerà ufficialmente da una era “pre” ad una “post” social media. Ci sono voluti più di due anni per selezionare il partner commerciale con cui costruire un sistema di misurazione della Rete al passo coi tempi, cioè sempre più basato sulla ricerca del dato qualitativo dell’ utente, alla fine la scelta è ricaduta su Nielsen: la società che ha battuto la concorrenza di Gfk e comScore, gli altri due fornitori di tecnologia di ricerca rimasti in gara. Perché Nielsen? Spiega Marco Muraglia, manager genovese esperto dei mezzi digitali, che da poco meno di due anni è presidente di Audiweb: «La base di partenza è che che tutti gli istituti coinvolti nel “beauty contest” avevano indicato come necessario affiancare al nostro panel di riferimento le informazioni derivanti da uno o più big data provider per concorrere alla definizione del profilo della audience. Il progetto di Nielsen è risultato il più completo di tutti». Audiweb è tecnicamente un Joint Industry Committee (Jic), cioè un organismo che riunisce la maggior parte de gli operatori del mercato: società che investono in pubblicità, agenzie, centri media e ovviamente le aziende editoriali. Tutte rappresentate dalle associazioni di riferimento che partecipano al capitale sociale (Fedoweb 50%, Upa 25% e AssoCom 25%). La decisione di puntare su Nielsen – fa notare Muraglia – rappresenta una scelta di continuità rispetto all’ originario progetto Audiweb 2.0 lanciato da Enrico Gasperini, uno dei fondatori e ceo dell’ incubatore di startup Digital Magics, un visionario che ha rifondato e guidato Audiweb dal 2007 fino alla sua scomparsa nel 2015, contribuendo all’ affermazione del nuovo sistema di rilevazione del Jic italiano. Il valore aggiunto della proposta che partì da Gasperini è stato sul metodo, spiega oggi Muraglia. «La scelta di Nielsen quale partner – aggiunge il manager – è innanzitutto dovuta al meccanismo del Digital content rating, il loro sistema per misurare i contenuti online anche su un data provider come Facebook, il più affidabile per copertura e qualità. Un metodo che ha già da due anni la validazione degli Usa: un mercato che vale 200 miliardi di dollari. Questo ci dà la possibilità di personalizzare la raccolta e l’ analisi per il nostro mercato, incrociando i dati del nostro Panel respondent level e creando un unicum a livello internazionale ». In sostanza, con questa operazione, Audiweb 2.0 entra di fatto in nuova fase di sviluppo virando decisamente dal mondo Pc verso quello del mobile, da dove oggi passano il 50% degli accessi da smartphone e tablet di Google e addirittura l’ 80% di quelli di Facebook. Da qui la decisione di cambiare anche la rappresentatività del suo panel di riferimento per rispondere alle richieste che arrivano dal mercato (Pc: passa da 41 mila a 35 mila utenti; Single source: da 1000 a 2000; Mobile: da 4500 a 12 mila). Non che sino ad oggi il traffico sui dispositivi mobili non fosse rilevato. Audiweb aveva già posto rimedio al problema tre anni fa. Quello che ancora manca e che sarà “coperto” da gennaio è il cosiddetto traffico “in-app”: ovvero, la navigazione di pagine web e video da applicazioni come Facebook e quello generato sulle piattaforme terze co- me Instant Article, sempre di Facebook, e Google AMP. Si tratta di un passaggio importante, soprattutto in vista della diffusione su scala mondiale degli instant articles , i formati degli articoli che permettono la visione immediata della pagina sui cellulari. Affidandosi alle rilevazioni di Nielsen, basate su evoluti Software Development Kit che superano la tradizionale rilevazione con Tag, Audiweb ha trovato il modo di riconoscere a Facebook la produzione di un contatto e ai produttori quello del traffico su quel contenuto. Tradotto: Facebook si comporterà come un vero e proprio browser come Chrome o Firefox. Una questione non certo secondaria perché in questo modo il Jic italiano potrà dare al mercato online delle metriche condivise per misurare la viewability delle inserzioni e delle campagne pubblicitarie – – un mercato che complessivamente, tra editori tradizionali e grandi piattaforme digitali, oggi vale in Italia 2,5 miliardi di euro – con cui investitori, centri media ed editori possano confrontarsi. Fornendo, nel contempo, ai clienti un profilo socio-demografico esatto per sesso ed età dell’ audience, con una copertura completa di navigazione in app Facebook, instant article, Amp, video (pc e mobile, browsing e app) e con una cadenza giornaliera (dopo 72 ore), settimanale e mensile. «In questo modo, riusciremo a restituire al singolo editore contenuti fruiti su piattaforme terze, in particolare gli Over-the Top, le imprese che forniscono attraverso Internet servizi e contenuti. Saremo l’ unico Jic al mondo a farlo in questo modo», puntualizza Muraglia. Che guarda avanti: «La sfida è ora portare all’ interno dell’ organismo colossi come Facebook o Youtube: le conversazioni sono in corso. La decisione, però, non dipende da noi». Nel medio termine, le sfide di Audiweb 2.0 sono invece legate all’ evoluzione della tecnologia e del mercato. «Nel primo caso, oggi copriamo tutti device di larga diffusione supportati da IoS e Android, ma non siamo in grado di rappresentare ad esempio le smart tv, come non lo sono nemmeno negli Usa. L’ evoluzione riguarda anche gli approcci di pianificazione pubblicitaria online come la pubblicità programmatic, cioè il processo automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari. I cookie, ossia capire meglio quali sono i tempi di durata dello loro vita per fare delle inserzioni sempre più inerenti alle ricerche degli utenti. E i Bot, i software che generano traffico: qui sarà necessario misurare solo quello realizzato dalle persone». Nel frattempo, i due Jic italiani Audiweb e Auditel, la fonte “super partes” che rileva minuto per minuto tutti i dati della TV, hanno condiviso l’ opportunità di creare un’ indagine di base unica. «L’ obiettivo è realizzare una sorgente qualificata per la stima degli universi delle famiglie e degli individui con informazioni sul profilo socio-demografico e sulle dotazioni tecnologiche», conclude Muraglia. © RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Muraglia, 57 anni, un passato nel settore della pubblicità e del marketing, dall’ inizio del 2016 presidente di Audiweb.

Una raccolta di dati affidabili chiesta dal mercato

Affari & Finanza

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[ LA SCELTA] Il progetto Audiweb 2.0 muove da una serie di precisa richieste del mercato: rilevazione tempestiva del totale delle audience degli editori online, sistema di rilevazione rispondente all’ evoluzione del mercato e alle dinamiche di fruizione multi-device, confrontabilità dei dati raccolti su più piattaforme e formati, per sviluppare campagne crossmediali. Disporre di una misurazione da una terza parte per la più ampia copertura di realtà editoriali (Big Player e siti verticali / locali), è necessario per le disposizioni di Agcom. La disponibilità di Big Data, nel rispetto delle norme sulla privacy, consente la produzione di dati finali migliori in termini di precisione, granularità e timing di distribuzione, e concorre alla definizione del profilo dell’ audience. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Campagna Tgr: l’ Italia delle opere compiute e incompiute

Il Messaggero

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Le opere pubbliche sono la dorsale infrastrutturale più importante ed evidente di un Paese. In Italia ci sono realizzazioni esemplari, ma anche scandalosi esempi di opere incompiute o solo progettate, con grande spreco di occasioni e di risorse. Su questi temi, la Tgr, Testata giornalistica regionale della Rai, diretta da Vincenzo Morgante, riprende, da oggi a sabato 25 novembre, una iniziativa che negli ultimi anni ha raccolto alti riscontri di interesse, partecipazione e ascolto: le campagne sociali di servizio pubblico, varate ogni mese a livello nazionale e portate avanti anche dalle oltre 20 redazioni regionali della Tgr. Per una intera settimana, i giornalisti Rai di ogni regione svilupperanno sul loro territorio il tema della campagna mensile, con servizi, inchieste, interviste, dirette e approfondimenti. «Una grande inchiesta nazionale, articolata a livello territoriale, sulle opere incompiute e compiute, offre l’ occasione di misurare il livello di sviluppo del nostro Paese afferma il Direttore della Tgr Vincenzo Morgante poiché le capacità organizzative, industriali, tecnologiche e ingegneristiche trovano nelle realizzazioni infrastrutturali la loro massima espressione, a favore del territorio su cui insistono e in nome della collettività». La campagna sulle opere pubbliche affronta i problemi di una burocrazia e di un sistema normativo che spesso rappresentano seri impedimenti all’ avvio e alla prosecuzione dei cantieri. «Quando una grande opera rallenta, ritarda o viene lasciata incompiuta sottolinea il Direttore Morgante è una ferita per il Paese».

SE IL DIRITTO D’ AUTORE DIVENTA STRUMENTO DI CENSURA

La Repubblica
GUIDO SCORZA
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«È ASSURDO soltanto pensare che io abbia pagato per avere rapporti con una donna. È una cosa che non mi è mai successa neanche una sola volta nella vita. È una cosa che considererei degradante per la mia dignità». È il gennaio del 2011, a parlare è Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica. Lo fa con un video trasmesso dalle sue televisioni. Lo fa in risposta a un’ inchiesta della magistratura che gli contesta, tra l’ altro, di aver pagato una minorenne in cambio di sesso. Nel video le parole sono scandite una a una secondo un copione sfogliato, pagina dopo pagina, con navigata esperienza; tutti i dettagli del set, incluse le foto di famiglia sullo sfondo, sono evidentemente studiati con attenzione maniacale. Inutile cercare di raccontare il contenuto del video a parole con la pretesa che qualcosa non vada perduto. Quelle immagini sono tessere uniche e insostituibili del mosaico della storia: il capo del governo che usa le sue televisioni contro la magistratura. Eppure quelle immagini rischiano di essere sottratte, per sempre, alla cronaca di questi anni e, quindi, alla storia. Il tribunale di Roma con una sentenza confermata, nelle scorse settimane, dalla corte d’ Appello ha, infatti, accolto le domande di Rti s.p.a. e, di conseguenza, ha ordinato all’ editore di questo giornale di rimuovere il video in questione – insieme a decine di altri in gran parte di analoga natura – dalle proprie pagine web, dove era stato pubblicato a corredo di un articolo di informazione, e di astenersi dal pubblicarne di ulteriori. Secondo i legali delle televisioni della famiglia Berlusconi, la pubblicazione del video violerebbe i diritti d’ autore delle proprie clienti. Per mostrare quel video al mondo, per commentarlo, per parlare, anche attraverso le immagini, di Silvio Berlusconi, all’ epoca dei fatti capo del governo, servirebbe il permesso di Silvio Berlusconi o, almeno, delle televisioni controllate dalla sua famiglia. Sembra aberrante, eppure i giudici, per ben due volte, hanno dato ragione ai legali di Rti s.p.a., prova che le leggi in vigore, almeno, si prestano a essere interpretate sino a condurre a una conclusione tanto perversa: editori, giornalisti, storici obbligati per legge a chiedere il permesso al protagonista della loro storia se non prima di parlarne, almeno prima di utilizzarne una manciata di minuti di immagini. È, d’ altra parte, il video in questione, originariamente pubblicato online da tutti i principali quotidiani italiani e sulle pagine di YouTube, oggi praticamente introvabile, rimosso ovunque – o quasi ovunque – in nome del diritto d’ autore. «Questo video include contenuti Rti che sono stati bloccati dallo stesso proprietario per motivi di copyright », risponde YouTube a chi dopo averlo trovato, provi a lanciare le immagini. Il diritto d’ autore, nato come strumento di massimizzazione della circolazione del sapere, è piegato a strumento di censura, utilizzato e brandito per chiedere e ottenere che di certe persone e di certi fatti non si possa parlare o, almeno, non si possa parlare mostrando immagini e parole scandite dalla viva voce dei protagonisti. È una strada sbagliata, pericolosa, perversa. Non si può subordinare il diritto di cronaca al diritto d’ autore, non si può pretendere che per far cronaca si debba prima passare alla cassa e pagare il conto al potente di turno perché – sempre che voglia – stabilisca il prezzo e presti il consenso all’ utilizzo di una manciata di secondi di un video che lui stesso ha diffuso urbi et orbi sintanto che lo ha ritenuto opportuno. Non è una questione di soldi e non è neppure una questione di mercato o beghe tra concorrenti. È una questione di principio, di libertà, di democrazia e di futuro, un futuro nel quale se cronaca e storia non restano libere, autonome, terze e critiche, la democrazia è in pericolo. Contro la sentenza l’ editore di questo giornale ricorrerà in Cassazione perché tocca ai giudici e solo ai giudici rivedere e, eventualmente, correggere gli errori di altri giudici. Ma le leggi vanno cambiate: va scritto in caratteri cubitali nella legge sul diritto d’ autore che utilizzare frammenti di contenuti altrui per fare informazione, cronaca, per raccontare la storia, deve essere sempre lecito a prescindere dal permesso del titolare dei diritti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA.

Le alleanze elettorali dei dem e i margini stretti della manovra

La Stampa
CARLO BERTINI
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Set timana di pausa per il Senato, ma la Commissione Bilancio è convocata a oltranza, anche domenica. «Abbiamo riunioni oggi e domani dei relatori col governo per il parere sui 750 emendamenti», spiega il presidente Giorgio Tonini del Pd. «E da martedì si comincia a votare». Ma se la trattativa Pd-Pisapia si incentra su una serie di correzioni alla manovra per spostare l’ asse a sinistra, i margini sono quelli che sono: bisogna capire come finisce la questione pensioni, la questione enti locali, perché le province hanno un problema serio di risorse, la questione sanità: c’ è un emendamento per aumentare il prezzo delle sigarette per finanziare i farmaci oncologici «e anche la web tax dovrebbe produrre entrate significative, ma non si può pensare di risolvere il nodo superticket o del lavoro precario con le sigarette», sorride Tonini. Che da renziano doc mette le mani avanti, «vedremo in questi giorni cosa si potrà mettere nella legge di bilancio, l’ importante è che siano cose che ci portano avanti e non indietro sulle riforme fatte: Draghi l’ altro giorno è stato molto chiaro…». Dentro il Palazzo Quando Roma non era ancora capitale d’ Italia, dal balcone del palazzo Montecitorio venivano letti al popolo i numeri del lotto. È una delle curiosità svelate nella serie di docu-film della Rai, “Montecitorio, dentro il palazzo”, dieci puntate che vengono mandate in onda questa settimana in un orario impossibile su Rai tre, il lunedì e mercoledì all’ una di notte; con repliche su Rai due martedì e giovedì alle 9,40 del mattino. Il format, montato con colonna sonora e interviste ai protagonisti dei lavori dietro le quinte, consente di entrare dentro gli ingranaggi della macchina legislativa del paese; e di capire i meccanismi che regolano la complessa struttura che supporta il lavoro degli onorevoli, specie ai piani alti dove operano le commissioni. Le telecamere entrano in un santuario inaccessibile, in tutti gli organismi dell’ amministrazione del Palazzo. Gli assistenti parlamentari ed i responsabili dei diversi servizi mostrano come nasce una legge, cosa c’ è dietro una seduta d’ Aula, come funziona il sistema di voto dei provvedimenti. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

Chi mangerà lo squalo? Parte L’ assedio a Murdoch

L’Economia del Corriere della Sera
di Maria Teresa Cometto
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Di solito sono gli squali a nuotare intorno alle loro prede fino al momento in cui le divorano. Ma questa volta è lo squalo Rupert Murdoch ad essere l’ oggetto degli appetiti di altri colossi del business dei media e dell’ intrattenimento. La sua società 21st Century Fox, che controlla studi cinematografici e reti tv via cavo come Fox news, fa gola a una serie di società che vanno dalla Disney, il marchio di Topolino, alla Comcast, l’ operatore via cavo più grande d’ America, e da Verizon, che possiede l’ operatore di telefonia cellulare numero uno negli Usa, fino alla giapponese Sony, che negli States è attiva nel campo della musica e nel cinema. Le manovre attorno a Fox fanno parte di un’ ondata di consolidamento nell’ industria dei media, dove gli operatori tradizionali devono far fronte alla concorrenza sempre più aggressiva da parte dei nuovi protagonisti dell’ era di Internet come Netflix e Amazon. Questi ultimi sono capaci di investire cospicue risorse nella produzione di contenuti originali, per poi distribuirli sulle proprie piattaforme e conquistare un numero crescente di utenti, in alternativa all’ abbonamento alla «vecchia» televisione. Comcast, secondo le indiscrezioni, avrebbe contattato Murdoch dopo la notizia che Disney voleva comprare da Fox la casa di produzione cinematografica, alcuni canali tv via cavo e il business internazionale, compreso il 39% di quota di Sky, la tv europea con base a Londra. Le trattative fra Disney e Fox non sono andate in porto, ma sembra confermato che Murdoch voglia cedere un pezzo del suo impero – che a Wall Street vale circa 54 miliardi di dollari -, tenendosi però Fox news, la sua parte più profittevole, e i canali sportivi. Lui stesso aveva cercato di diventare più grande, tentando tre anni fa di comprare Time Warner, senza riuscirci; e ora sta cercando di conquistare il 100% di Sky, ma ha di fronte l’ opposizione delle autorità britanniche, ancora arrabbiate per lo scandalo – scoppiato nel 2011 – delle intercettazioni telefoniche illegali realizzate dal tabloid News of the World del gruppo News international, di cui era responsabile il figlio di Murdoch, James. Dall’ altra parte le attività internazionali di Fox interessano a Comcast per compensare il calo del suo business degli Usa, dove lo scorso trimestre ha subito la più grande perdita negli ultimi tre anni di abbonati ai suoi servizi via cavo. Comcast, la cui capitalizzazione in Borsa è di 173 miliardi di dollari, aveva già comprato nel 2011 Nbc Universal, che controlla gli studi cinematografici Universal e reti tv come Nbc. Mentre in America, soprattutto fra i giovani, aumenta il fenomeno del cord cutting – letteralmente «tagliare la corda», cioè il cavo che collega la tv a pagamento – Comcast vede nuove opportunità di crescita in altri Paesi, dove i servizi via cavo non sono ancora molto diffusi. A livello internazionale Fox si vanta di raggiungere oltre un miliardo di utenti in circa 50 lingue e oltre 170 Paesi, Italia compresa. I suoi studios producono numerosissime serie tv per i propri canali ma anche per i concorrenti. Verizon ha ancora pochi abbonati al suo servizio tv via fibre ottiche e punta soprattutto a espandere il suo business di media digitali, dopo aver acquistato due società veterane di Internet, Aol e Yahoo. In particolare la controllata Verizon wireless, operatore di telefonia cellulare, crede molto nella potenzialità degli affari generati dai video visti su apparecchi mobili: con Fox otterrebbe nuovi contenuti con cui arricchire la sua offerta online. Qualsiasi nuova fusione però incontrerà probabilmente resistenze da parte delle autorità antitrust americane. Le quali attualmente sono impegnate a valutare la proposta di acquisto di Time Warner da parte del gigante delle telecomunicazioni At&t. Il vento che tira Washington è contrario a questo tipo di operazioni, anche perché molti credono che proprio Comcast non abbia rispettato lo spirito dell’ ok alla sua acquisizione di Nbc universal sei anni fa. Dopo l’ eventuale vendita delle attività cinematografiche e internazionali, il gruppo Murdoch rimarrebbe – oltre che con il business di carta di News corp (editore fra l’ altro del Wall Street Journal ) – con una 21st Century Fox più snella, secondo un modello simile a quello di Cbs, il gruppo televisivo controllato da Sumner Redstone. Ma intanto i Murdoch negano di voler diventare giocatori di serie B nell’ industria dell’ informazione e dello spettacolo. «Si parla molto dell’ importanza crescente delle dimensioni di chi opera nel settore dei media – ha detto l’ altro figlio di Rupert, Lachlan Murdoch, co-presidente di 21st Century Fox, all’ assemblea societaria della settimana scorsa -. Gli operatori più piccoli trovano difficoltà a sviluppare le nuove piattaforme di video. Sia chiaro questo: noi non siamo in quella categoria». Almeno per ora.

HastingsNetflix

L’Economia del Corriere della Sera

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Non deve essere un momento semplice per Reed Hastings, né per il mondo dorato delle produzioni hollywoodiane in generale. Ma per Hastings, nello specifico, i recenti scandali sessuali che hanno coinvolto il gotha del cinema, hanno portato a una decisione drastica quanto giustificata: la chiusura anticipata della serie House of Cards, la punta di diamante di quell’ universo di altissima qualità che sono le produzioni firmate Netflix e che di fatto hanno portato la piattaforma di streaming creata da Hastings nel 1997 sugli schermi «smart» di milioni di utenti nel mondo. Il motivo, ormai noto, alcune rivelazioni che hanno colpito il protagonista delle seria, Kevin Spacey. Se le conseguenze non sono ancora ipotizzabili, la contro mossa però ha già un nome e un volto. Quello di Shonda Rhimes, genio assoluto della produzione seriale, strappata a suon di miliardi (la cifra ufficiale non è mai stata comunicata) alla rete Abc di proprietà proprio della Disney. A lei si deve la creazione di serie come «Grey’ s Anatomy» o «Le regole del delitto perfetto», prodotti che hanno fatto entrare nelle casse del gruppo circa due miliardi di dollari. Che i contenuti siano al centro della strategia di Netflix non è cosa nuova: negli ultimi due anni i titoli a disposizione sono aumentati del 207% e le previsioni per quest’ anno sono di investire 6 miliardi (contro i 5 dello scorso anno) per nuove produzioni originali. Una mossa che ha portato a un incremento del costo dell’ abbonamento che passa dai 9,99 euro al mese a 10,99. Un solo euro di differenza ma che moltiplicato per 90 (e più) milioni di utenti nel mondo diventa una potenza di fuoco senza eguali tra le piattaforme in streaming. E in generale della produzione: il 2017 è stato anche l’ anno del debutto (non senza intoppi o polemiche) di Netflix sul tappeto rosso di Cannes. Che Hastings ora produca anche film fa indiscutibilmente paura ai competitor. Ma la strada ormai è tracciata.

IgerDisney

L’Economia del Corriere della Sera

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Se Topolino resiste da quasi un secolo, un motivo in fondo ci sarà. E il motivo, forse, è la capacità della Walt Disney company di essere sempre un passo avanti. Per questo il mercato non è rimasto particolarmente stupito dall’ annuncio della casa di Topolino, di voler creare una piattaforma svod per ritagliarsi una fetta in quel mercato che piace così tanto alle nuove generazioni 4.0 (e per arrestare in qualche modo il calo degli introiti dei canali televisivi Disney Channel e Espn). Non solo. I contenuti saranno 100% «made by Disney». In esclusiva. Formula che ha un solo significato: i film Disney non compariranno più nella libreria Netflix. Certo, per il momento il divorzio Disney-Netflix riguarda solo gli Usa, ma quello che succede oltreoceano in questo settore di solito fa scuola anche per il Vecchio Continente. Del resto era ipotizzabile una mossa del genere da parte di Bob Iger, alla guida di Walt Disney Company dal 2005 (per dare un’ idea del ruolo da lui svolto in questi anni basta un numero: +350%, l’ incremento in Borsa del gruppo in dodici anni). Dal 2006 a oggi la società di Topolino ha acquisito Pixar, Marvel e Lucas Film, investendo una cifra vicina ai 15 miliardi. Senza scordare le recenti voci che vogliono Disney interessata alla 21st Century Fox di Rupert Murdoch. E se le voci sono momentaneamente congelate, occorre sempre tenere a mente che nel perimetro dell’ acquisizione, oltre a Sky ci sarebbe anche una quota di Hulu, piattaforma di streaming statunitense. Per rafforzarsi in questa specifica tecnologia, a settembre il gruppo è salito al 75% del capitale di BamTech (per 1,58 miliardi), specializzata proprio in questo campo. A rendere competitiva l’ offerta Disney, il prezzo dell’ abbonamento che sarà «decisamente più basso» dei competitor. Un dato questo che potrebbe in effetti rendere i due servizi in streaming non necessariamente in competizione, ma complementari.

FACEBOOK, GOOGLE: LA CONCORRENZA CHE ANCORA NON C’È

L’Economia del Corriere della Sera
di Gustavo Ghidini e Daniele Manca
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Alzi la mano chi ancora pensa che Facebook sia solo un modo molto divertente per restare in contatto con familiari e amici. O che Google abbia semplicemente sostituito faticose e lunghe ricerche di informazioni e risposte ai nostri interrogativi. O che Amazon, in fondo, sia una versione moderna di un supermercato. Non si tratta solo della pervasività di attori che, a partire da un servizio, moltospessogratuitoochepermette di avere sconti, costruiscono e consolidano posizioni spesso di monopolio. Sta avvenendo nel campo della comunicazione pubblicitaria come si evidenzia a volte inmododrammatico insettori come l’editoria e la televisione. E sono forse proprio questi ultimi due campi a mostrare quanto sia necessaria un ripensamento delle regole competitive. Di Antitrust. E di farlo a livello continentale. L’Europa lo sta facendo. E’ del maggio del 2016 l’ultima comunicazione della Commissione al Parlamento europeo sulle piattaforme online e il mercato digitale. Ma appunto, si vede dai tempi, lo sta facendo con movimenti da plantigradi: fermi all’enunciazione/raccomandazione di buonipropositi chenontogliedi certo il sonno a nessuno. Dimenticando che l’Antitrust moderno (quello americano) ha quasi 150 anni, quello europeo, che degli Usa ne è il nipote, oltre 60.Ilproblema cheoggi èdominante è quello del potere delle grandi piattaforme, potere che dall’economia si scarica sulla società. L’America sonnecchia confidando sul fatto che siano tutte società statunitensi a contendersi il passato come il futuro business. Le recenti vicende che hanno riguardato però i grandi imperi multimedialidallaDisney che conclamore divorzia da Netflix, o dalla Newscorp di Murdoch che ha iniziato una solitaria battaglia negli Usa contro i big dell’hitech,mostrano chenonè inatto solo una competizione per il mercato. C’è qualcosa di più che è accaduto in questi ultimi anni. Ed è per questo che a dover essere ripensato è il concetto stesso di «potere di mercato» che era alla base della normativa antitrust. I tradizionali indicatori di stampo microeconomico non aiutano (dalle dimensioni, ai mercati rilevanti) le Authority. Si pensi alla forza con cui alcunimercati sono stati stravolti, distrutti e altri, completamente nuovi, sono stati creati e si sono sviluppati. Ola velocità con la quale alcune posizioni (apparentemente dominanti) sono state messe in discussione. My Space che dominava i social network è stata spazzata via da Facebook. Piattaforme come Uber, Airbnb, Booking, Expedia, hanno profondamente cambiato le caratteristichedei trasporti urbani e dei viaggi. Hanno affermatonuoviprocessi emodellidi servizio. Non si è trattato di innovazioni incrementali quanto di innovazioni «rivoluzionarie» che hanno investito l’economia digitale e i media. L’operazione di acquisto di Instagram da parte di Facebook ha sicuramente permesso a Snapchat un successo che è stato solo parziale e peraltro non si sa quanto durevole. Anche l’hardware direttamente legato, come i telefonini, ha visto il di rompente sviluppo di Motorola, Nokia eBlackBerry e le successive eclissi a favore del software dei sistemi operativi come iOS di Apple e Android di Google con l’ascesa di nuovi attori, come la stessa Apple, Samsung, Huawei. In parte, soprattutto ancora una voltanei settori deimedia, si è cercato di cogliere questi cambiamentiradicali conteoriepiùsofisticate, volte a spiegare il funzionamento dei cosiddetti mercati a più versanti. Vale a dire ti offro un servizio gratuito come Google, ma guadagno sulla pubblicità che riesco a veicolarti. Suggerimenti utili ma non sempre soddisfacenti e ingradodi cogliere le nuove caratteristiche. E certamente solo parzialmente utili a sciogliere l’intreccio tra le preoccupazioni concorrenziali, quelle per il pluralismo e quelle legate alla concentrazione di potere tout court.Anche perché tra le aziende ormai c’è una competizione definita «dinamica». Mutevole al punto che il confrontoela concorrenza possono svolgersi prima della stessa nascita del mercato. Il caso di scuola è l’acquisizione sempre da parte di Facebook per una considerevole cifra (19 miliardi di dollari) della poco più che appena nataWhatsApp.Inaltritermininonè poco frequente che la competizione si sviluppi nella fase dell’innovazione e di ricerca e sviluppo. E questo per arrivare primi su un mercato futuro o anche solo per controllare in anticipo suoi asset fondamentali. In questi casi una lettura tradizionale del mercato rende difficile l’uso di strumenti «vecchi» per salvaguardare la concorrenza. A cominciare da concetti come la «dominanza» del mercato interessato. Il capitalismo digitale si muove con logiche ben diverse da quello sui quali si basava quello sul commercio di beni fisici che era possibile controllare, seguire e, by theway,tassare. Cosa, come noto, che i colossi dell’hi-tech sfuggono con energia. E’ difficile persino comunicare all’opinione pubblica che qualcuno che offre servizi gratuiti, come Google o Facebook, o che permette ai consumatori di avere prodotti a prezzi scontati, Amazon, rappresentino un rischio per la concorrenza,peri contipubbliciperlemanca te tasse e persino per l a democrazia. Non si tratta di iperbole. Si pensi al diffondersi di «fake news» che, ormai è chiaro, sono in grado di influenzare tanto o poco che sia le elezioni di un grande Paese come gli Stati Uniti o scelte rivelatesi poi più che dannose come la Brexit. La strada è appena iniziata. Il potere delle big tech che è evidente agli attori economici. E inizia a percepirsi anche tra consumatori e cittadini. Ma è ilmomentodifaredei passiinavanti. Di iniziare a immaginare come rendere evidente che il semplice fatto di fornire un servizio gratuito non può essere il grimaldello per ottenere la proprietà dei dati di chi usa quel servizio. E che quella proprietà non può essere in esclusiva. Come pure che eventuali acquisizioni di queste grandi compagnie debbano essere monitorate con un’attenzione speciale. E il tutto non può avvenire all’interno di confini nazionali. Ma l’Italia può iniziare a fare la sua parte.

Far pagare i giganti del tech garantisce equità fiscale e una concorrenza leale

L’Economia del Corriere della Sera
di Francesco Boccia
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La portata straordinaria dell’ economia digitale sul funzionamento del capitalismo globale impone una riflessione politico culturale profonda. La dematerializzazione della ricchezza necessita di un approccio radicalmente nuovo e l’ intelaiatura fiscale che regola i rapporti tra i vecchi Stati nazionali, società e imprese deve necessariamente adattarsi alle nuove regole del mercato. Una rivoluzione radicale in tutti i settori, di usi, costumi, business e stili di vita. Non era possibile chiudere il mondo quando non esisteva la rete e c’ erano solo muri e filo spinato. Figuriamoci ora. Non ha più senso distinguere l’ economia reale da quella digitale. Tutta l’ economia oggi è digitale. Dietro il dibattito sulla web tax c’ è tanto altro. Non solo equità, etica e modelli redistributivi che in un Paese democratico si garantiscono anche con una coerente architettura fiscale, ma anche privacy, sicurezza, informazioni, regolazione del commercio. Si chiama «Data Economy». Dati che valgono oro. La cosiddetta web tax non era e non è una nuova tassa ma il semplice riconoscimento di regole fiscali già applicate a tutti gli altri. In Italia l’ avevamo approvata già nel 2013, poi Parlamento e governo si sono fermati in attesa dell’ Europa che non è mai arrivata. Alla fine ci siamo arrivati, ma solo dopo le inchieste della Guardia di Finanza e della Procura di Milano e dopo il lavoro dell’ Agenzia delle Entrate. Per la prima volta nella storia del capitalismo, ad un aumento del Pil potrebbe non corrispondere un adeguato aumento del gettito fiscale. Far pagare almeno le imposte indirette alle multinazionali del web è un dovere per assicurare equità fiscale ai contribuenti e garantire leale concorrenza agli operatori economici. A questo serve la stabile organizzazione. Fino a poco fa gli effetti non si vedevano, ora sono devastanti: perdita di gettito e perdita di posti di lavoro. Non ci si può più appellare alla libertà di scelta della residenza fiscale che porta alla «non stabile organizzazione», tanto cara ai sostenitori del «ci pensa l’ Europa» o del «ci vuole una soluzione globale» senza mai indicare la strada. Quelle sono le tesi dei lobbisti (molto bravi) delle Over the Top (Ott): al tempo dell’ economia digitale, anche con pochi dipendenti a mio avviso c’ è stabile organizzazione. La norma approvata lo scorso giugno e chiamata web tax transitoria indica la strada della cooperazione con il fisco, riconoscendo autonomamente la stabile organizzazione in Italia sul modello dell’ accordo fatto da Google con la Procura di Milano e l’ Agenzia delle Entrate. In questi giorni il passaggio più delicato. Accanto al rafforzamento del concetto di stabile organizzazione inserito nell’ emendamento alla legge di Bilancio al Senato che è per me totalmente condivisibile, c’ è una proposta di tassazione delle transazioni che suscita alcune perplessità. L’ obiettivo è giusto, l’ applicazione merita un approfondimento. Se fosse pagata anche da aziende italiane non coglierebbe l’ obiettivo originario della web tax: l’ allineamento della tassazione tra Ott e aziende italiane. Capire se tassare flussi, transazioni o ricavi necessita di un’ ulteriore riflessione parlamentare. Intanto, chiediamo alle Ott, quando fanno business in Italia, di rispettare le stesse regole che rispettano le imprese italiane. Sapendo che, sullo sfondo, la sfida digitale ci porta già oltre la web tax, tra portabilità dei dati e necessità di cloud pubblici.

Con una tassa sul fatturato si rischia che l’ onere ricada sui consumatori

L’Economia del Corriere della Sera

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La soluzione alla tassazione delle imprese multinazionali dovrebbe essere trovata a livello internazionale o quantomeno di Unione Europea. Tuttavia, specie nel settore della cosiddetta web economy, il problema della sottrazione di base imponibile e della connessa concorrenza sleale nei confronti delle imprese locali sta assumendo dimensioni tali che è quasi inevitabile che, in mancanza di soluzioni condivise, i singoli Stati finiscano per adottare soluzioni nazionali, anche se altamente inefficienti. La soluzione che è attualmente all’ attenzione del Parlamento prevede nella sostanza che una società estera, del tipo di Google o Facebook, paghi una tassa sul fatturato che realizza in Italia – si parla di un’ aliquota del 6%, ma c’ è chi propone il 30% – a meno che non accetti di dichiarare la stabile organizzazione in Italia, che è la precondizione per pagare le tasse sugli utili nel nostro Paese. Questa soluzione non è del tutto peregrina, dal momento che se n’ è fatto qualche cenno anche nelle sedi internazionali, sia pure come estrema ratio. Essa ha però delle controindicazioni che de vono essere valutate. La prima e più ovvia attiene al fatto che una tassa sul fatturato ha una probabilità elevata, molto più di una tassa sugli utili, di essere traslata sugli acquirenti; sarebbe davvero una beffa se alla fine la tassa la pagassero i consumatori e le imprese italiane. Una seconda controindicazione riguarda il fatto che l’ imposizione unilaterale di una tassa o di una stabile organizzazione genera una situazione di doppia imposizione e quindi conflitti fra Stati riguardo alla ripartizione del gettito fiscale. I trattati internazionali specificano condizioni precise perché si possa individuare la stabile organizzazione e solo le tasse pagate in un dato Paese da una stabile organizzazione riconosciuta ai sensi dei trattati danno diritto a un credito di imposta nel Paese di origine dell’ impresa. Il conflitto si manifesterebbe sia con Paesi terzi sia all’ interno dell’ Unione Europea. In particolare, tutti i governi americani, di qualunque colore, hanno sempre sostenuto che il gettito fiscale delle grandi imprese del web spetta essenzialmente a loro perché è negli Usa che si produce la ricerca e il valore aggiunto di cui fruiscono i consumatori di tutto il mondo; questo argomento ha qualche fondamento dato che l’ ordine fiscale internazionale e con esso quello del libero commercio si basano sul principio che la tassazione spetta al Paese in cui si produce il valore aggiunto, non al Paese in cui si consuma il prodotto. È per questo motivo che le tasse sugli utili derivanti dalle esportazioni verso gli Stati Uniti di prodotti made in Italy, compresi prodotti come gli abbonamenti al Corriere della Sera online sottoscritti da residenti americani, spettano all’ Italia. In ogni caso, possiamo forse accettare un contrasto – limitato – con gli Stati Uniti, ma faremmo fatica a gestire il contrasto con l’ Europa dal momento che i quattro principali Paesi europei si sono impegnati a risolvere il problema ricorrendo, se necessario, al regime di cooperazione rafforzata. Il governo italiano ha spinto con grande forza per questa soluzione e perderebbe credibilità se oggi decidesse di procedere da solo. +Parlamentare Pd.

Enel, Cdp, Tim, Mediaset e governo partita a cinque sulla scacchiera delle super reti a banda ultralarga

Affari & Finanza
Stefano Carli
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segue dalla prima I nsomma, attorno alla banda ultralarga si gioca una delle più complicate vicende industrial- politiche di questi anni. E’ una scacchiera che può ospitare strategie e mosse diversissime e quasi infinite. Dipende da chi muove gli scacchi e dagli obiettivi di ciascuno dei giocatori. ENEL L’ ad Francesco Starace, riconfermato appena a maggio scorso per una altro triennio, ha due convinzioni. Che non ha alcuna intenzione di cedere il suo 50% di Open Fiber e che due reti in fibra, almeno nelle zone a successo di mercato non sono uno scandalo. Non più di quanto non lo siano le reti di distribuzione elettrica di altre utility in concorrenza con quella Enel (anche se in questo caso non coesistono sugli stessi territori). Insomma, non vuole uscire da Of e non è interessato nemmeno a prendersi la rete di Tim. O almeno così dice. Ma comunque sia, per giocare questa partita da protagonista (tanto più che fino al 2020 la governance della joint venture con Cdp assegna a lui la scelta di chi deve stare al timone di Of) oggi non ha che una sola mossa: accelerare sui cantieri. Finora, sotto la guida di Pompei, Of ha incassato tutto il possibile: Metroweb, le gare Infratel (ne mancherebbe una ma è poca cosa), l’ accordo con Acea, ossia la “conquista” di Roma. Ora deve far fruttare tutto questo potenziale. Fermarsi adesso non può. Of è appena partita, l’ unica città completa nel piano del cablaggio è Milano, ereditata da Metroweb. Ora ci sono cantieri aperti nelle 13 maggiori città italiane, nelle prime cinque i lavori sono già oltre il 50% e sui nuovi cavi ottici iniziano a passare i primi abbonati delle telco che hanno fatto accordi con Of: dai big come Vodafone e Wind ai piccoli operatori locali. Ma ora bisogna andare avanti. Per dare due numeri: l’ accordo con Wind è un impegno su 271 comuni. La vittoria nelle gare Infratel impone di connetterne in fibra altri 6.700. Bisogna aprire cantieri, impegnare risorse in estenuanti trattative con le amministrazioni locali. Soprattutto bisogna convincere le banche a sostenere un project financing da 6 miliardi che richiede risorse di finanziamento per 3,7 miliardi e in tempi rapidi, perché la scommessa è qui: i ritorni sono sicuri, nel tempo, ma i soldi vanno spesi subito, ora. Ed è proprio per convincere le banche che è stato messo in cantiere il cambio della guardia al vertice di Of. L’ impegno di Pompei con l’ Enel sarebbe scaduto a fine novembre, tra dieci giorni, e quello come ad di Open Fiber a fine dicembre. Tutto era già programmato, si dice ora in ambienti vicini al vertice Enel, e anche la scelta di Elisabetta Ripa sarebbe stata già deciso addirittura nella scorsa primavera. Le banche, a partire dai tre advisor Bnp Paribas, Société Générale e UniCredit, avrebbero richiesto un management stabile come condizione ineludibile. Ora ce l’ hanno. CDP Resta per ora un punto interrogativo. Troppe volte il presidente di Of Franco Bassanini si è espresso in termini molto espliciti in favore di un’ unica rete e contro uno scenario di competizione tra la rete Of e quella di Tim. E quasi sempre, dall’ esterno, si è applicato l’ automatismo di considerare queste posizioni come transitivamente riferibili anche all’ istituto guidato da Claudio Costamagna e Fabio Gallia. Ma non è detto che sia così. Anzi, forse, l’ assenza di dichiarazioni esplicite potrebbe iniziare a far dubitare del contrario. Comunque le esternazioni di Bassanini, in parallelo con le nuove fiammate polemiche sullo scorporo della rete Tim espresse in funzione anti-Bolloré, mentre producevano manifesto fastidio in casa Enel, non dovrebbero essere troppo dispiaciute nel palazzone della Cdp, proprio accanto al ministero dell’ Economia, perché, ne consolida la presenza e il ruolo su tavoli importanti. Diverso dire che l’ uscita di Pompei dal board di Of sia automaticamente un rafforzamento della Cassa. Elisabetta Ripa ha infatti operato una specie di cambio di casacca: entrata in cda in quota Cdp, diventerà ad dal primo gennaio 2018 in quota Enel. E infatti sarà proprio Cdp a nominare il membro mancante del board perché formalmente è la Cassa ad essere rimasta senza un rappresentante dei suoi tre, accanto a Guido Rivolta e lo stesso Bassanini. Si potrebbe pensare che con Ripa, vista la sua provenienza, Cdp ne abbia ora quattro di “uomini”, ma mentre il Dna di via Goito per Rivolta e Bassanini non si discute, per Ripa non è così. Quando venne nominata, veniva considerata piuttosto un’ esterna, visto che ha passato 26 anni in Telecom, nell’ investor relation, poi in ruoli di gestione e infine come ad di Sparkle prima e di Telecom Argentina poi. Comunque sia, Cdp non può che restare alla finestra in attesa di capire se verrà chiamata a giocare un ruolo nella soluzione della controversia Vivendi-Mediaset. Un ruolo che può oscillare dal diventare azionista di peso (e di solida contribuzione) di una ipotetica società unica della rete, fino al semplice ruolo di titolare di una quota minima di garanzia (e di scarso impegno) in un nuovo azionariato Tim, qualunque esso sia. GOVERNO Il primo rilievo potrebbe essere: quale? Quello di oggi, che scadrà tra qualche mese o il prossimo? Quello odierno, filiazione diretta del governo Renzi, ha interesse a che Open Fiber vada avanti così e rapidamente. In fondo quella sulla fibra è stata una delle poche promesse mantenute da Renzi a Palazzo Chigi. E di fatto è innegabile che la mossa a sorpresa, due anni fa, di creare quella che allora si chiamava ancora Enel Open Fiber sia riuscita in quella che sembrava una missione impossibile: far tornare Telecom Italia ad investire in cavi ottici dopo più di 15 anni. Era infatti dalla privatizzazione, con il susseguirsi di nocciolini, capitani, scalate e patti di sindacato che il primo problema della telco non era più investire ma ridurre il debito (senza diminuire troppo i dividendi). Certo, dall’ altra parte c’ è che la possibilità di far tornare sotto l’ ala dello Stato Padrone un boccone come la rete Telecom è un argomento che trova sempre un interesse maggioritario e trasversale a tutta la politica italiana. Ma un conto sono le tentazioni e un conto i soldi a disposizione. E oggi, all’ avvio di una campagna elettorale lunga e complicata, forse è meglio dare a Enel e Of un po’ di briglia di aprire cantieri e andare avanti con il progetto. E infatti già nel prossimo bando per il 5G da Palazzo Chigi si pensa di trovare il modo di far entrare Of nella partita. Per esempio inserendo una figura, quella del Neutral Host, ossia di operatore di rete che non offre il servizio a utenti e imprese ma ad altre telco. Cosa che finora nel mondo del mobile non c’ è mai stata ed è esattamente ciò che Of fa sulla rete fissa. Diverso invece il caso del prossimo governo. Se dovesse essere a trazione berlusconiana, chiunque sarà il premier, sarà sensibile a ciò che sarà intanto avvenuto ad Arcore. E di cui si dirà tra poco. TELECOM Il nuovo ad Amos Genish al contrario di Flavio Cattaneo sta conquistando, dopo il timone, anche il cuore della vecchia holding telefonica, dai manager ai dirigenti e più giù. Come ogni nuovo ad la sua prima trimestrale, dove ha messo la firma in fondo ma non le scelte, ha fatto emergere risultati in flessione. Ma questo è un classico. Viene considerata persona preparata sul piano industriale e dialogante. La persona giusta per ricucire con le istituzione e l’ establishment italiano. Questo non gli ha impedito di rispondere per le rime a Franco Bassanini che mercoledì ha ribadito la sua idea che Tim non possa investire sulla fibra perché così svaluta il rame che è ancora la maggior parte della sua rete di accesso. Questo invece è proprio quanto Genish ha dichiarato di voler fare: ossia accelerare la migrazione, a costo di finanziarla, che vuol dire, passaggio gratuito e automatico dall’ adsl alla fibra per tutti gli utenti. Certo, sembra si riferisse solo alla fibra che si ferma agli armadi e non alla fibra fino in casa, ma è comunque la volontà di rispondere alla gara con Open Fiber (perché di gara si tratta, a chi arriverà per primo da ogni singolo utente) abbandonando la strada dell’ ostruzionismo regolamentare e dei ricorsi. Va però detto che all’ Antitrust pende un ricorso, stavolta presentato da Vodafone, contro una cosa simile già provata da Cattaneo: offrire la fibra senza costi aggiuntivi per conquistare utenti. L’ Antitrust deve ancora pronunciarsi ma allo stato attuale delle regole Telecom deve garantire la replicabilità delle sue offerte e l’ iniziativa, in questi termini , non dovrebbe passare il vaglio. Ma la vera novità avanzata da Genish è nella dichiarazione di essere pronto ad utilizzare la rete di Open Fiber quando lo riterrà opportuno e conveniente. Tradotto: nelle zone bianche dove Tim ha perso la gara non si dissanguerà per realizzare una rete alternativa sua, come aveva detto Cattaneo. E questa è una buona notizia per azionisti e investitori. Sul piano industriale Genish ha dunque fatto chiarezza. Il resto non dipende da lui. Dalla decisione dell’ Amf, la Consob francese, se Vivendi controlla o meno Telecom, fino ad un eventuale accordo Berlusconi- Bolloré. BERLUSCONI Pare che tra l’ ex Cavaliere, candidato premier ombra del centro-destra, e il patron di Vivendi sia riscoppiata la pace. O almeno la voglia di farla. E pure in fretta, perché l’ appuntamento dell’ asta per la Serie A non può essere rinviata all’ infinito e si dovrà svolgere prima del voto politico di primavera, perché il nuovo triennio di diritti partirà solo pochi mesi dopo. Questo dicono le voci che arrivano da ambienti e persone vicine al leader di Arcore. Che poi tutto questo porti solo alla soluzione del caso Premium o invece arrivi fino ad un consistente ingresso “ufficiale” di Vivendi in Mediaset è tutto da vedere. Oggi Bollorè può tenersi Telecom sterilizzando le sue azioni Mediaset. Cosa potrebbe accadere dopo è in mente dei, e degli avvocati dei due tycoon. A tutto questo si intreccia poi l’ ipotesi di un nuovo governo in cui Silvio Berlusconi avrebbe un peso decisivo: che decisioni porterebbe sulla banda ultralarga? Difficile divinarlo oggi. Ma c’ è chi giura di aver sentito Berlusconi dire che il caso di Tim e Open Fiber gli ricorda quello delle prime pay tv in Italia: Telepiù e Stream, anche allora una pubblica e una privata, una italiana e una francese. Vuol dire che non c’ era spazio per due su quel mercato. E infatti arrivò. Sky. Peccato Silvio dimentichi che Premium era nata proprio per fare concorrenza a Sky. O forse lo ricorda fin troppo bene. © RIPRODUZIONE RISERVATA.


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