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Rassegna Stampa del 30/07/2017

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Indice Articoli

lo storytelling delle tagliatelle

Il Bello in Campania editorialmente

«Mio padre Leo snobbato da un Paese troppo fazioso per apprezzare l’ indipendenza di giudizio»

Arriva data.world, il social per chi usa (e ama) i dati

La nuova vita di Mrs Jobs? L’ editoria A capo della «vecchia» rivista Atlantic

Il Barbiellini Amidei premia i giovani giornalisti

IL GRANDE FRATELLO MOLTIPLICATO PER TRE

lo storytelling delle tagliatelle

L’Espresso
R.Bocca
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Non c’ è niente da fare. Per quanto il termine “storytelling” sia all’ impatto respingente, a dir poco, e per quanto già da tempo sia usurato il concetto che sottintende – cioè affabulare il pubblico attraverso racconti densi di emozioni – questo è il punto critico della televisione contemporanea. Archiviata per sempre la convinzione che il mezzo possa recuperare centralità assoluta, persa con la complicità della Rete e della progressiva distanza dai giovani, resta il problema di costruire un dialogo solido e possibilmente duraturo con chi a casa maneggia i telecomandi. Serve, in altre parole, un tramite. E che sia efficace. Qualcuno o qualcosa in grado di alimentare fascino, desiderio di consumo, aria vitale. Una disponibilità al confronto e all’ empatia di cui spesso si stenta a cogliere le tracce. Non saranno certo i reality, a donare alla televisione generalista un cuore caldo e pulsante: quello è il campo del cinismo puro, e del consumo da parte di un pubblico che interagisce via social ma non si sposa per questo a una rete o un progetto. Tantomeno, per le tv a pagamento, può costruire un legame con il telespettatore il circo delle trasmissioni maestrine, che partendo dai tutorial su abiti, trucchi e parrucchi hanno ormai sfruttato ogni sfumatura delle attività umane. Piuttosto un terreno fertile è quello della finzione, ovvero l’ universo delle serie tv , non pensato però come troppo spesso capita in Rai e Mediaset alternando il fumettismo di certe sceneggiature al melodramma della rievocazione di eroi ed epopee che furono, bensì entrando nel merito del presente senza alcuna pretesa di uscirne rassicurati. Un processo utile non soltanto alla comprensione dell’ oggi ma anche alla sua graduale digestione. Abbastanza per sedurre chi guarda il piccolo schermo salvaguardandone la dignità. Puntata dopo puntata, personaggio dopo personaggio, argomento dopo argomento. Fino a quando, a volte, sul televedente cala il dubbio che interpretare il vero attraverso il falso sia un poco paradossale, e allora torna in campo per gli addetti ai lavori il quesito iniziale: a chi e che cosa affidarsi, per non finire ai margini dell’ attenzione? Una risposta esatta non c’ è. C’ è, al massimo, il tentativo di puntare su argomenti che odorino di universale, e anche questo è il motivo per cui non riusciamo ancora a liberarci di cuochi, padelle, tagliatelle, impiattamenti categorici e mugugni di giudici alle prese con allievi più o meno talentuosi. Nella testa di chi gestisce e progetta contenuti catodici, infatti, il cibo insiste a essere una delle soluzioni più pratiche (molto più, ad esempio, dell’ informazione, con tutte le sue implicazioni e controindicazioni). Logica applicata sempre e comunque: sia che gli alimenti siano lo spunto per banali game show, sia che trovino in Alessandro Borghese (conduttore su SkyUno di 4 Ristoranti) un fluido mediatore tra spettacolo, cucina e retrogusto sociale e psicologico. Nel vuoto di sogni spendibili, qualcosa di innocuo a cui aggrapparsi.n Per rimanere al centro dell’ attenzione la tv ha bisogno di una lingua universale. Ecco perché punta su cuochi e padelle riccardo bocca gli antennati.

Il Bello in Campania editorialmente

Il Manifesto

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I e celebrazioni di anniversari legati a personaggi di rilievo storico si trasformano spesso attraverso eventi, mostre o una miriade di convegni, in agiografie. La complessità di percorsi biografici, storici, artistici, letterari non di rado è oggetto di semplificazioni che sfociano in banalizzazioni. Da molti mesi le istituzioni culturali di mezzo mondo (dal Neues Museum di Weimar al Museum of Fine Arts di San Francisco, dalla Akademie der Künste di Vienna all’ Hermitage di San Pietroburgo) sono impegnate nel ricordare a trecento anni dalla nascita la figura di Johann Joachim Winckelmann (Stendal, 9 dicembre 1717 -Trieste, 8 giugno 1768), il fondatore dell’ archeologia classica e della storia dell’ arte antica. Formula questa comoda ed efficace a uso di manuali e biografie stringate da web, ma incapace di comunicarci le ragioni per cui grazie al figlio di un calzolaio tedesco sia iniziato un nuovo modo di intendere e vedere l’ Antico, modo così difficilmente accettato dai contemporanei e ancora oggi non pienamente compreso. Joseph Eise lein, l’ editore dell’ opera completa dello studioso tedesco, non esitava a sostenere che «la gloria maggiore di Winckelmann non consiste nell’ essere stato un archeologo eccellente; collocarlo qui significa scambiare la luna col sole». È certo che Winckelmann diede senso storico all’ arte antica attraverso il suo ordinamento e la sua classificazione. L’ arte greca riconosciuta nelle copie romane divenne così il modello di bellezza ideale da imitare, l’ espressione della libertà politica di un popolo: «Il buon gusto, che va sempre più diffondendosi nel mondo, cominciò a formarsi dapprima sotto il cielo greco». Fare dei Monumenti antichi inediti, la penultima opera pubblicata da Winckelmann nel 1767, e l’ unica in italiano, dieci anni dopo la fondamentale Geschichte der Kunst des Altertums, il centro della mostra che tra febbraio e maggio il m.a.x. museo di Chiasso e fino al 25 settembre il Museo Archeologico Nazionale di Napoli hanno dedicato, con un progetto scientifico comune, a Winckelmann appare sicuramente una scelta coraggiosa e riuscita. Coraggiosa perché nasce finalmente da un lungo progetto di ricerca e di studio di una delle opere meno note ma più influenti dello studioso tedesco; riuscita perché restituisce dignità di esposizione alle «cose difficili». Abituati spesso ad esposizioni che assecondano i nostri gusti estetici e le nostre vaghe conoscenze, la mostra allestita con discrezione nel Salone più rappresentativo del Museo Archeologico di Napoli, quello della Meridiana, si propone di presentare ai visitatori – attraverso il confronto tra tavole illustrate, rami, manoscritti, dipinti e documenti archeologici-il ruolo svolto dalle antichità campane nella stesura dei Monumenti: opera divisa in due volumi, il primo composto da 208 tavole, il secondo da testi descrittivi divisi in 4 parti dedicate alla «Mitologia sacra», alla «Mitologia storica», alla «Storia greca e romana» e a «Riti, costumi ed arti». Le due edizioni della mostra nascono da un lungo e meditato studio dei curatori che ha permesso di raggiungere obiettivi differenti, come si intuisce dai titoli: in Svizzera, J. J. Winckelmann (1717-1768). I Monumenti antichi inediti.Storia di un’ opera, a cura di Stefano Ferrari di Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x.; in Italia, Winckelmann ele raccolte del MANN. Monumenti antichi inediti, 1767, voluta dal direttore Paolo Giulierini, a cura di Maria Rosaria Esposito e Paola Rubino. La versione napoletana della mostra tiene quindi conto della specificità della sede espositiva e per questo motivo ha scelto di non presentare al pubblico tutte le 208 tavole che componevano l’ opera e raffiguravano sculture, bassorilievi, gemme, candelabri, scarabei, busti, vasi, mosaici, suppellettili ed edifici che Winckelmann ebbe modo di osservare a Roma, principalmente nella collezione del Cardinale Alessandro Albani a cui dedica i Monumenti, e inoltre a Firenze, Napoli, Portici, Pompei, Ercolano, Paestum e Caserta. Si è preferito, piuttosto, optare per una selezione di tavole dalle quali emergono gli stretti legami dei Monumenti con il ricco patrimonio di reperti archeologici portati alla luce in Campania. Anche a Napoli possono essere ammirati i due esemplari dell’ opera, l’ editio princeps del 1767 e quella successiva del 1820, i manoscritti preparatori, le 16 preziose matrici in rame appena restaurate dall’ Accademia delle Belle arti di Napoli, le 14 prove di stampa, 5 ritratti incisi e 2 ritratti a olio, tra cui una copia di Otto Gerike databile al 1956 del celebre dipinto di Anton von Maron del 1768 raffigurante Winckelmann in vestaglia con collo di pelliccia e turbante. Le teche in cui sono custoditi le tavole e i documenti, simili a tavoli da studio, sembrano avvertirci della necessità di assumere un paziente atteggiamento da studioso per poter pienamente cogliere il senso della mostra, a Napoli arricchita da un cospicuo numero di preziosi reperti archeologici provenienti dall’ area vesuviana e solitamente non esposti. Ci accoglie, infatti, il Cavallo Mazzocchi, così chiamato perché fu il canonico Alessio Simmaco Mazzocchi l’ autore dell’ iscrizione presente sulla faccia anteriore della base in cui si ricorda il rinvenimento nel teatro di Ercolano dei frammenti della quadriga bronzea con i quali fu realizzato il pastiche così apprezzato dai visitatori moderni, ma che in realtà fu tanto criticato da Winckelmann. Sculture in bronzo di piccolo formato, gemme e statue in marmo completano quella che è una mostra non solo su un’ impresa editoriale realizzata interamanete a spese di Winckelmann, che ne fu anche il rivenditore, in cui per la prima volta ai testi descrittivi delle opere furono associate riproduzioni grafiche delle stesse, ma soprattutto sull’ applicazione di un metodo di indagine. L’ individuazione del «bello» nasceva infatti per Winckelmann dal riconoscimento, attraverso l’ osservazione diretta, delle caratteristiche stilistiche che permettono di collocare l’ opera nel percorso evolutivo dell’ arte antica dettato dalla storia e fatto di fasi di crescita, fioritura e poi decadenza. Il contributo del MANN non si è limitato però al recupero delle testimonianze archeologiche citate nei Monumenti, ma ha riguardato la ricostruzione della storia editoriale, non ancora nota, dei Monumenti nell’ ambito napoletano a partire dalla ristampa del 1820. La fortuna dell’ opera è stata ricostruita dalla Esposito attraverso lo studio delle serie complete dei rami conservati presso l’ Istituto Nazionale della Grafica di Roma e attraverso le matrici conservate nella collezione calcografica del Museo di Napoli. Di tutto questo, e non solo, è dato conto nel corposo catalogo bilingue J.J. Winckelmann (1717-1768). Monumenti antichi inediti. Storia di un’ opera illustrata (Skira, pp. 336, e 35,00). Questo si presenta come uno strumento indispensabile per comprendere a pieno le ragioni scientifiche e la portata della mostra. Peccato che non ne sia stata realizzata una versione aggiornata per la sede napoletana con la schedatura dei reperti archeologici esposti, ma soltanto un utile dépliant che consente di percorrere l’ intero museo sotto il segno di Winckelmann.

«Mio padre Leo snobbato da un Paese troppo fazioso per apprezzare l’ indipendenza di giudizio»

Il Giornale
Luigi Mascheroni
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Luigi Mascheroni Paolo Longanesi, anni 72. Timbro di voce molto longanesiano. Distaccato da tutto, anche dalle celebrazioni di suo padre. Ah, Paolo Longanesi è figlio di Leo, vent’ anni passati al Giornale con Montanelli, poi alla Voce, poi in Confindustria, poi ghost writer del sindaco Albertini… È nato nel ’45, lo stesso anno in cui il padre si trasferì a Milano con la famiglia per fondare, l’ anno dopo, la casa editrice de cuius. Qual è l’ eredità lasciata da suo padre? «Tante. Nell’ editoria, nel giornalismo…». Iniziamo dall’ editoria. «Nel campo editoriale aveva un dono assoluto. Saper scegliere gli autori che anticipavano sempre i tempi cui si andava incontro. Scrittori americani o europei che quando li traduceva nessuno sapeva neppure che esistevano». E nel giornalismo? «Ha lasciato una traccia. Nella scrittura è stato davvero un maestro. Sia nello stile sia nell’ efficacia di esposizione. Più ancora che nella capacità di osservazione, svettava nella sintesi. Era brillantissimo, e originale. Oggi, al confronto, gli articoli che mi passano sotto gli occhi sono illeggibili. Nove su dieci sono banali, scontati, scritti male, interessati più che interessanti…». Sta facendo il Longanesi… «No, sto dicendo che se Longanesi aveva una forza, era quella di essere indipendente. Nello scegliere cosa scrivere: un pezzo di arte, un commento politico, una nota di costume, un ritratto di un personaggio in vista… E come scrivere: con sarcasmo, ironia, cattiveria se serve… Si chiama indipendenza di giudizio. Cioè libertà». In Italia la gente dice che nei giornali manca la libertà. «Mio padre diceva che non è la libertà che manca, mancano i giornalisti liberi». Longanesi era un grande aforista. «Era un grande scrittore. Punto. Ci ha lasciato pagine meravigliose, acute, intelligenti. E lo dico da lettore, prima che da figlio. Ma sa quale è il problema, oggi? Che quando si parla di Longanesi manca il pubblico a cui si rivolge». Troppo difficile per il lettore di libri da Autogrill? «E non solo per loro. Mancano i lettori in generale. Nessuno vuole ascoltare qualcuno che gli insegni qualcosa. Tutti vogliono insegnare agli altri. Nessun lettore, tutti autori. Il premio Strega andrebbe dato non a chi scrive, ma a chi legge. Sono i veri eroi. Ha idea di quanta gente, dopo che ha saputo come mi chiamo, mi sottopone, ogni giorno!, testi, libri, manoscritti? Pensano tutti di essere Longanesi…». C’ è un Longanesi, oggi? «Io non lo vedo. Sì, certo: c’ è qualche giornalista di cui apprezzo l’ efficacia e l’ originalità, le due qualità più importanti nella scrittura. Pietrangelo Buttafuoco, quando ha firmato l’ introduzione di alcune riedizioni dei libri di mio padre, l’ ha fatto in una maniera nuova, che mi è piaciuta. Ma altri che si piccano di essere suoi eredi, no. Non ci sono. Dopo Montanelli, e in parte Bettiza, non c’ è stato più nessuno a quel livello. Almeno, a me non vengono in mente…». Cosa le viene in mente di Leo Longanesi come padre? Morì quando lei aveva 12 anni. «Poche cose, ma molto bene. Mi ricordo che il suo essere genitore coincideva col suo essere editore. Quando stava con me e le mie sorelle, soprattutto in vacanza, e il sabato e la domenica, perché era sempre sommerso di cose da fare per i giornali e la casa editrice, trasformava il suo lavoro in un gioco per educarci. Ci faceva vedere i suoi disegni e le nuove copertine di libri e ci chiedeva cosa ne pensavamo, cosa ci piaceva. Ci coinvolgeva in ciò che faceva, mi ricordo noi bambini in mezzo a pennarelli e vasetti di colla, ci regalava libri che faceva lui, pieni di illustrazioni… E poi mi ricordo di lui che invitava a casa giornalisti e scrittori, come Montanelli – che con papà andava alternativamente d’ accordo e in disaccordo – o Ansaldo, Orsola Nemi, Henry Furst, Baldacci, il primo direttore del Giorno… ma anche industriali, come Lombardi… Aveva un carattere difficile, ma era molto amato». E oggi? «Oggi non so. C’ è un’ attenzione modesta su Longanesi, a parte qualche anniversario. Ma noi figli siamo i primi a non fare molto per iniziative e celebrazioni varie…». Perché? «Perché ci siamo stufati. È morto da sessant’ anni e ancora, quando si parla di lui, si tirano in ballo le sue scelte giovanili, sotto il Duce. Ma quanti secoli devono passare perché si inizi a leggere Longanesi senza la pregiudiziale ideologica? Non c’ è un popolo in cui la faziosità è radicata così profondamente come nel popolo italiano. Citi Longanesi, e scatta il riflesso pavloviano: Era fascista!. E così addio a qualsiasi possibilità di conoscere la sua opera per quello che è. Come se io dessi un giudizio sulla poesia di Dante, guelfo, condizionato dal fatto che non condivido l’ ingerenza della Chiesa nella società. Mah… In questo l’ Italia è ancora al Medioevo».

Arriva data.world, il social per chi usa (e ama) i dati

Il Sole 24 Ore
Luca Tremolada
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«Un dataset è più di un file. È anche la storia che i numeri raccontano». Non è una dichiarazine d’ amore per i dati, i fogli excel e l’ informazione quantitativa. Ma è uno degli slogan contenuti in data.word, un luogo difficile da definire, a metà strada tra un social network e una banca data di fogli di calcolo. Un posto dove condividere non solo numeri dentro caselle ma teniche e idee. Va subito detto che il sito è ben realizzato. E che di luoghi di scambio per appassionati, data scientist e data journalist è un po’ pieno il web. Si calcola che esistano nel mondo qualcosa come 18 milioni di dataset in formato aperto. Per fare un paragone, quando è nata Google nel 1998 esistevano appena 2,4 milioni di siti. Il boom dell’ open data è quindi qualcosa di più di un trend. E’ come se a partire dagli anni Novanta una urgenza di trasparenza avesso scosso gli uomini del web spingendoli a condividere quanto di più sacro può esistere in un sistema economico: i suoi numeri. Attualmente l’ 81% degli Stati europei dispone di una policy inerente gli Open Data, con un forte incremento rispetto al 2015, quando la percentuale era del 69. L’ amministrazione pubblica con tempi e modalità diverse ha stimolato la nascita di portali dedicati. Secondo “Open Data Maturity in Europe 2016: Insights into the European state of play” la diffusione degli Open Data nel nostro Paese è al di sotto della media europea (lo era anche l’ anno scorso). Oggi il nostro patrimonio di dati aperti è composto da 10.346 dataset, prodotti da 76 amministrazioni. Anche in ambito scientifico l’ open science , ovvero la scelta di pubblicare liberamente i risultati delle ricerche è una realtà. Secondo l’ International survey of scientific authors (Issa), progetto curato per l’ Ocse da Brunella Boselli e Fernando Galindo-Rueda, tra il 50 ed il 55% delle pubblicazioni sarà disponibile in formato open entro tre o quattro anni dalla pubblicazione. Una scelta, quella dell’ open access, più diffusa nelle economie emergenti. Come abbiamo scritto su Info Data, in Indonesia si supera il 90%, in Thailandia l’ 80, in Turchia il 70%. E anche se ci si limita alle economie più mature, il primato spetta alla Corea del Sud con il 66%, seguita dal Brasile con il 64 e dalla Russia con il 61. In Italia, invece, appena il 46% delle ricerche sono pubblicate in formato aperto. Data.world rispetto quindi ai numerosi portali di open data si presenta come una boutique di qualità, piccola ma molto curata. Come funziona? È possibile inserire risorse in un dataset, non solo via upload, ma anche attraverso un URL pubblico. In questo modo si possono aggiungere informazioni da siti web, servizi di cloud storage o portali di open data. Vengono fornite le Api, il che può consentire agli sviluppatori di generare servizi data driven. Infine, a ogni dataset è possibile assegnare una licenza ed è possibile scegliere tra le più diffuse. Ma la “feature” più interessante è la possibilità di condividere e lavorare su dataset insieme ad altri collaboratori sulla scia della principali applicazioni di Google e Microsoft. Come tiene a precisare Brett Hurt, il Ceo di data.world, a presto la pacchia finirà. Il servizio quando uscirà dalla versione Beta diventerà a pagamento con modalità ancora tutte da scoprire. Il segnale però è interessante. Non solo per data scientist e data journalist ma anche per tutte quelle startup data-driven che stanno provando a innovare settori tradizionali come l’ editoria e, per certi versi, il marketing. L’ esperienza di Info Data, il blog di data journalism del Sole 24 Ore (chi vi scrive ha contribuito di fondarlo) dimostra proprio come in questo momento sia strategico e delicato lavorare sulla qualità delle fonti dei dati. È una vecchia regola del mestiere di giornalista. Nulla di nuovo. Ma l’ abbondanza di database aperti se da un lato permette la ricerca di più correlazioni tra fenomi dall’ altro pone sul tavolo il tema dell’ affidabilità del dato. Su questo più della statistica serve il lavoro di verifica e a volte un asset poco quantificabile, come quello della “pancia” del giornalista. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

La nuova vita di Mrs Jobs? L’ editoria A capo della «vecchia» rivista Atlantic

Corriere della Sera
Giuliana Ferraino
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La vedova di Steve Jobs diventa proprietaria della rivista americana The Atlantic . Laurene Powell, 53 anni, attraverso la sua organizzazione filantropica Emerson Collective, ha acquistato una quota di maggioranza della storica rivista americana, che va benissimo a dispetto della crisi globale dell’ editoria. David G. Bradley, 64 anni, proprietario e presidente di Atlantic Media, manterrà una quota di minoranza e resterà alla guida del magazine per i prossimi tre-cinque anni. A quel punto Emerson Collective rileverà anche la sua partecipazione. Bradley, che aveva acquistato The Atlantic per 10 milioni di dollari nel 1999 dall’ immobiliarista Mortimer Zuckermann, proprietario anche del New York Daily News , ha cominciato a pensare alla successione poco più di un anno fa e, prima di decidere a chi passare la mano, ha valutato oltre 600 investitori potenziali. A Bradley va il merito di aver saputo trasformare il mensile di politica, arte e letteratura, fondato nel 1857 a Boston, in un gruppo editoriale che guadagna offrendo giornalismo digitale di qualità e organizza eventi «live», pur continuando a pubblicare la rivista cartacea, nata 4 anni prima della Guerra civile americana. Se dieci anni fa l’ 85 per cento dei ricavi di The Atlantic derivava dalla pubblicità sull’ edizione cartacea, oggi l’ 80 per cento arriva dalla pubblicità online. «Contro ogni probabilità, The Atlantic sta prosperando», ha scritto Bradley in una nota ai dipendenti. «Starò ancora qualche anno alla guida, ma la decisione più importante della mia carriera è ormai alle mie spalle: chi prenderà la guida di questo gioiello nazionale con 160 anni di storia? Per me la risposta, nella forma di Laurene, è la più giusta». Non è la prima volta che la Silicon Valley scommette sui media storici tradizionali. Nel 2013 il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, sorprese l’ industria editoriale acquistando a titolo personale per 250 milioni di dollari il Washington Post , che ora sembra vivere una seconda giovinezza, grazie all’ espansione online. E nel 2012 il cofondatore di Facebook, Chris Hughes, ha comperato il magazine di sinistra The New Republic per poi rivenderlo quattro anni dopo. Da parte sua Laurene Powell, con un patrimonio personale stimato da Forbes in 20 miliardi di dollari, ha ricordato l’ importanza della missione dell’ Atlantic , una rivista che sente molto vicina perché tra i suoi fondatori figura il filosofo americano Ralph Waldo Emerson, che dà il nome e ha ispirato la missione della sua organizzazione filantropica: «Portare eguaglianza a tutte le persone; illuminare e difendere l’ idea di America; celebrare la cultura e la letteratura americana; e raccontare il nostro stupendo, e a volte confuso, esperimento democratico», ha spiegato la vedova di Jobs in una nota. Del resto Atlantic Media, che oltre all’ omonima rivista controlla anche i marchi Quartz , National Journal e City Lab , non è il primo investimento nell’ editoria per Emerson Collective, che si occupa soprattutto di istruzione, ambiente e immigrazione. L’ organizzazione ha una quota in Axios, la società media creata dai fondatori di Politico Jim VandeHei e Mike Allen, e una partecipazione in Anonymous Content, la casa di produzione dietro al film Oscar «Spotlight», ricorda il Financial Times . Inoltre sostiene finanziariamente siti giornalistici non profit come Pro Publica e The Marshall Project .

Il Barbiellini Amidei premia i giovani giornalisti

Il Messaggero

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IL RICONOSCIMENTO Sono stati annunciati i vincitori della decima edizione del premio giornalistico per giovani giornalisti dedicato Gaspare Barbiellini Amidei. Per la Sezione carta stampata e nuovi media è stato premiato Tomaso Clavarino 30 anni, per l’ articolo A Mani Nude, Corriere della Sera; per la Sezione radio e televisione, Micaela Farrocco, 31 anni, per il servizio televisivo Baby ricchi trasmesso su Rai2. LA PREMIAZIONE La cerimonia si è tenuta nello scenario della Collegiata di San Sebastiano a Marciana all’ Isola d’ Elba, presenti giornalisti e uomini di cultura. Il Premio, sotto l’ alto patronato del presidente della Repubblica, è rivolto ai giovani impegnati nella professione (sotto i 35 anni) per incoraggiare un giornalismo libero, innovativo e di qualità. Il tema della decima edizione era: Ricchi o Poveri? Il mondo spezzato: valori, paure, sofferenze, benessere. Il regista Ermanno Olmi è stato il giurato speciale di questa edizione 2017. Alla serata sono intervenuti Andrea Vianello, vicedirettore di Rai Uno, Gina de Azevedo Marques corrispondente dell’ emittente brasiliana Globo News, Giulia Cerasoli del settimanale Chi, Andrea Goldstein capo economista di Nomisma. Presenta la serata Alfredo Macchi di News Mediaset. Nel corso della serata, aperta da Federico Barbiellini Amidei del comitato promotore e chiusa dal sindaco di Marciana Anna Bulgaresi, è stata consegnata una targa che riproduce un’ opera inedita di Pietro Consagra, intitolata Elba. Il premio è rivolto ai giornalisti sotto i 35 anni per servizi giornalistici pubblicati su testate italiane e della Svizzera italiana.

IL GRANDE FRATELLO MOLTIPLICATO PER TRE

La Repubblica

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Google, Facebook e Amazon dominano il mercato grazie al loro monopolio: eppure l’ America di Woodrow Wilson sapeva che i trust sono una minaccia per la democrazia di JONATHAN TAPLIN In appena dieci anni, le cinque aziende più grandi del mondo per valore azionario sono cambiate tutte, tranne una: Microsoft. Exxon Mobil, General Electric, Citigroup e Shell Oil non sono più al vertice della classifica, sostituite da Apple, Alphabet (la società madre di Google) e Facebook. Sono tutte aziende tecnologiche e ognuna domina il proprio settore: Google ha una quota di mercato dell’ 88 per cento nel search advertising ( pubblicità sui motori di ricerca), Facebook ( con le sue controllate Instagram, WhatsApp e Messenger) possiede il 77 per cento del traffico dei social network su dispositivi mobili e Amazon ha una quota del 74 per cento nel mercato dell’ e- book. In termini economici classici, tutte e tre sono dei monopoli. Questo ci riporta all’ inizio del Ventesimo secolo, quando il tema della “maledizione dell’ essere grandi” ( curse of bigness) fu proposto dal consigliere del presidente Woodrow Wilson, Louis Brandeis, prima che Wilson lo nominasse alla Corte Suprema. Brandeis voleva eliminare i monopoli, perché (come ha scritto il suo biografo, Melvin Urofsky) ” in una società democratica, l’ esistenza di grandi centri di potere privati è pericolosa per la vitalità di un popolo libero”. Ci basta guardare la condotta delle maggiori banche durante la crisi finanziaria del 2008, o il ruolo che Facebook e Google svolgono nel business delle fake news, per capire che Brandeis aveva ragione. Brandeis si oppose in generale alla regolamentazione – temeva che portasse inevitabilmente alla corruzione del regolatore – sostenendo invece lo smembramento della bigness, fatta eccezione per i monopoli “naturali”, come le aziende telefoniche, idriche, elettriche e ferroviarie, dove aveva senso che una o poche aziende controllassero un settore. È possibile che queste aziende – e Google in particolare – siano diventate dei monopoli naturali soddisfacendo interamente la domanda del mercato rispetto a un servizio, a un prezzo inferiore a quello che potrebbero offrire due società in concorrenza tra loro? E se è così, è ora di regolarle come servizi di pubblico interesse? Consideriamo un’ analogia storica: gli albori delle telecomunicazioni. In una fotografia della zona commerciale di una grande città nel 1895 potremmo vedere che la maggior parte degli edifici è collegata a una ventina di cavi telefonici. Ogni cavo apparteneva a una compagnia telefonica diversa, e nessuna lavorava con le altre. Senza effetto di rete, le reti stesse erano quasi inutili. La soluzione fu una singola società, la American Telephone and Telegraph, che consolidasse il settore acquistando tutti i piccoli operatori e creando un’ unica rete – un monopolio naturale. Il governo lo permise, ma poi regolò questo monopolio attraverso la Federal Communications Commission. AT&T (nota anche come Bell System) dovette applicare delle tariffe regolate e le fu imposto di investire una percentuale fissa dei suoi profitti in ricerca e sviluppo. Nel 1925, AT&T creò Bell Labs come filiale separata con il compito di progettare una nuova tecnologia delle comunicazioni, ma anche di fare ricerche di base nel campo della fisica e di altre scienze. Nei cinquanta anni successivi, le scoperte fondamentali dell’ era digitale – il transistor, il microchip, la cella solare, il microonde, il laser, la telefonia cellulare – sono tutte uscite dai Bell Labs, insignite da otto premi Nobel. In un decreto di consenso del 1956, con cui il Dipartimento di Giustizia permise ad AT&T di mantenere il suo monopolio telefonico, il governo strappò una grande concessione: tutti i precedenti brevetti erano concessi in licenza ( a qualsiasi azienda americana) a titolo gratuito, mentre tutti i brevetti futuri dovevano essere concessi in licenza dietro il pagamento di una piccola tassa. Queste licenze hanno portato alla creazione di Texas Instruments, Motorola, Fairchild Semiconductor e molte altre start-up. È vero, internet non ha mai avuto gli stessi problemi di interoperabilità. E il modo in cui Google ha raggiunto una posizione di dominio è diverso da quello di Bell System. Tuttavia, ha lo stesso tutte le caratteristiche di un’ azienda di pubblica utilità. Dovremo decidere abbastanza presto se Google, Facebook e Amazon appartengono a un tipo di monopoli naturali che devono essere regolati, o se permettere che si mantenga lo status quo, facendo finta che questi monoliti privi di limiti non infliggono danni alla nostra privacy e alla democrazia. È impossibile negare che Facebook, Google e Amazon hanno ostacolato l’ innovazione su larga scala. Prima di tutto, le piattaforme di Google e di Facebook sono il punto di accesso a tutti i media per la maggior parte degli americani. Mentre i profitti di Google, Facebook e Amazon sono cresciuti, i ricavi delle aziende che operano nell’ ambito dei media, come gli editori di giornali o di musica, dal 2001 a oggi, sono calati del settanta per cento. Secondo il Bureau of Labor Statistics, gli editori di giornali hanno perso più della metà dei loro dipendenti tra il 2001 e il 2016. Miliardi di dollari sono stati spostati dai creatori di contenuti ai proprietari di piattaforme monopolistiche. Tutti i creatori di contenuti che dipendono dalla pubblicità devono negoziare con Google o Facebook come aggregatore, la sola possibilità di salvezza tra loro e la grande nuvola di internet. Non sono solo i giornali a passarsela male. Nel 2015, due consulenti economici di Obama, Peter Orszag e Jason Furman, pubblicarono un documento in cui si afferma che l’ aumento di “rendimenti eccezionali del capitale” in imprese con una concorrenza limitata sta portando a un aumento della disuguaglianza economica. Scott Stern e Jorge Guzman, economisti del Mit, hanno spiegato che in presenza di queste imprese giganti “è diventato sempre più conveniente essere un operatore storico, e meno conveniente essere invece un nuovo concorrente”. Ci sono alcune regolazioni evidenti da cui partire. Il monopolio nasce dall’ acquisizione – Google acquista AdMob e DoubleClick, Facebook acquista Instagram e WhatsApp, Amazon compra, tanto per citarne qualcuno, Audible, Twitch, Zappos e Alexa. Come minimo, a queste società non dovrebbe essere consentito di acquisire altre grandi aziende, come Spotify o Snapchat. La seconda alternativa è quella di regolare un’ azienda come Google come un’ impresa di pubblico interesse, imponendogli di concedere l’ uso dei brevetti, per una cifra simbolica, sui suoi algoritmi di ricerca, sugli scambi pubblicitari e su altre innovazioni fondamentali. La terza alternativa è quella di eliminare la clausola del Safe Harbor contenuta nel Digital Millennium Copyright Act del 1998, che consente a società come Facebook e YouTube di Google di muoversi liberamente su contenuti prodotti da altri. Il motivo per cui ci sono quarantamila video dell’ Isis su YouTube, molti dei quali con annunci pubblicitari che fanno guadagnare chi li pubblica, è che YouTube non deve assumersi la responsabilità dei contenuti della sua rete. Facebook, Google e Twitter affermano che monitorare le loro reti sarebbe troppo oneroso. Ma questo è assurdo: controllano già le loro reti per quanto riguarda la pornografia, e molto bene. Eliminare la clausola del Safe Harbor costringerebbe le reti sociali a pagare per i contenuti pubblicati sui loro siti. Un semplice esempio: un milione di download di una canzone su iTunes farebbe guadagnare all’ esecutore e alla sua casa discografica circa novecentomila dollari. Con un milione di stream della stessa canzone su YouTube ci guadagnerebbero circa novecento dollari. Non mi illudo minimamente che, con magnati ultraliberali dell’ industria tecnologica come Peter Thiel nella cerchia delle persone più vicine al presidente Trump, la regolamentazione antitrust dei monopoli internet diventi una priorità. In sostanza, può darsi che dovremo aspettare quattro anni, e a quel punto i monopoli saranno così dominanti che l’ unico rimedio sarà quello di smembrarli. Costringendo Google a vendere Double-Click. Costringendo Facebook a vendere WhatsApp e Instagram. Woodrow Wilson aveva ragione quando disse, nel 1913: “Se il monopolio continua, esso rimarrà sempre alla guida del governo”. Ignoriamo le sue parole a nostro rischio e pericolo. © NEW YORK TIMES, 2017 TRADUZIONE DI LUIS E. MORIONES © RIPRODUZIONE RISERVATA.


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