Indice Articoli
Clamoroso su internet: il giornalismo è buono
Addio al mio caporedattore onniscente
Torri: Inwit e Rai Way arroccate la mossa sta a EiTowers e Cellnex
Pagare tutti per i dati. E far pagare i servizi I social non devono vivere di sola pubblicità
Google Home è sbarcato nel Belpaese l’ assistente virtuale ora parla italiano
Facebook, Apple, Amazon e Google i sette peccati dei feudatari del web
Streaming, la pubblicità sugli Ott arriverà a 40 miliardi nel 2020
Molotov.tv dalla Francia all’ Europa ecco la Netflix dei canali televisivi
Clamoroso su internet: il giornalismo è buono
Il Fatto Quotidiano
Diletta Parlangeli
link
Apple ha fieramente siglato un accordo per l’ acquisizione di Texture, una piattaforma che garantisce accesso a oltre 200 riviste previo abbonamento. Google ha appena annunciato un rinforzo delle proprie iniziative contro le fake news in supporto al “giornalismo”, mentre Facebook – prima di trovarsi al centro del ciclone Cambridge Analytica m- già spaziava tra un progetto e l’ altro dedicato all’ informazione. Stai a vedere che alla fine, il tanto vituperato giornalismo, a qualcosa serviva. Nell’ aprile del 2017, la squadra di sicurezza di Facebook rilasciava un rapporto nel quale avvisava, senza giri di parole, che la politica stesse sfruttando la piattaforma per operazioni mirate alla distorsione del sentimento politico, locale e non, a scopi strategici. Leggere alla voce: propaganda. Il rapporto non fece alcun clamore, eppure, c’ era già tutto. La propaganda non è niente di nuovo, ma occhio perché, si leggeva “leader e pensatori, per la prima volta nella storia, possono raggiungere (e potenzialmente influenzare) un pubblico globale attraverso i nuovi media”. Venne il Russiagate e il mondo si svegliò: molteplici attori vicini al Cremlino avevano mosso una macchina da guerra dell’ informazione che sarebbe stata capace (o quanto meno aveva le potenzialità) di influenzare le ultime presidenziali americane e altre elezioni altrove. La già iniziata mobilitazione anti-fake news, da quel momento, non è stata più solo un’ opzione. Preso il toro per le corna, le piattaforme sono partite fornendo strumenti di controllo più adeguati, cambiando persino gli algoritmi. Anche il recente scandalo di Cambridge Analytica, società che avrebbe sfruttato i dati sottratti agli utenti di Facebook grazie a un’ applicazione apparentemente innocua, oltre il limite che gli sarebbe stato consentito, ha a che fare con la disinformazione. Quei dati sarebbero stati sfruttati per una profilazione al dettaglio da usare, guarda un po’, per indirizzare della propaganda. A giorni dallo scoppio della bomba, il Ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha ipotizzato che forse, per quanto riguarda il rapporto pubblicità e politica, le piattaforme dovrebbero avere più regolamentazione, come quella a cui già devono rispondere sia la stampa, che la televisione. Sembra proprio che le più grandi potenze tecnologiche, neanche troppo timidamente, stiano volteggiando intorno al giornalismo professionale in una danza di corteggiamento. Eddy Cue, senior VP di Apple, commentando l’ acquisizione del “Netflix delle riviste”, Texture, ha parlato di “impegno per un giornalismo di qualità e fonti affidabili”. E l’ ultimo aggiornamento dell’ App Store stesso, il negozio delle applicazioni della mela, è pieno di schede editoriali, come un magazine. Facebook ha da tempo attivo un progetto dedicato al giornalismo, uno spazio di collaborazione tra l’ azienda e gli editori, dal quale è emerso anche un investimento da 3 milioni di dollari per incentivare gli abbonamenti digitali delle testate locali. Negli Stati Uniti una sperimentazione è dedicata a una sezione per le notizie locali, che gli utenti chiedevano con forza: il giornalismo locale, l’ avamposto storico dell’ informazione. La ricerca dell’ informazione professionale in contrapposizione a quella cialtrona, e peggio, contro quella strategica (di organizzazioni e politica), non passa inosservata. E infatti, ha pensato Rupert Murdoch, sai che c’ è? Che ce le pagassero loro (le piattaforme) le notizie di qualità. Secondo quanto riportato dalla BBC , per il magnate gli editori non vengono ricompensati adeguatamente perché non esiste “nessun modello di abbonamento che riconosca veramente l’ investimento e il valore sociale del giornalismo professionale”. Una provocazione, ma mica poi tanto. L’ investimento è quel pezzo d’ ingranaggio fondamentale che viene sottovalutato. Come trovarsi con due viti in più in mano, una volta finito di montare l’ armadio, e scoprire che alla lunga, quelle due viti servivano a non far crollare l’ anta, anche se sembrava reggere. “Il giornale è sicuramente una struttura antiquata, ma in quella gerarchia, c’ era qualcosa da salvare. C’ erano soldi investisti in persone che potevano fare inchiesta, spostandosi o meno, impiegando del tempo – commenta Paolo Mieli, giornalista e saggista – C’ era il momento fondamentale in cui si crede in qualcuno, che viene infatti pagato e assunto”. Quello snodo in cui “qualcuno investe nel lavoro di una persona sapendo che ci guadagnerà. Se ho potuto fare il giornalista è perché esistevano dei signori ricchi che investivano – continua Mieli, già direttore de La Stampa e de Il Corriere della Sera – A chi fa i conti nell’ editoria, non viene ancora oggi riconosciuto un ruolo fondamentale”. E su questo, è stata la categoria stessa, a inciampare: “Per lungo tempo abbiamo rappresentato l’ imprenditore che pagava come un ‘purtroppo’”. Certo, sempre sperando che l’ editore “non usi il proprio mestiere per fare ricatti”. Il giornalismo, d’ inciampi, ne ha fatti parecchi: come quando, invece di capire quali equilibri la rete stesse cambiando davvero, era lì a guardarsi l’ ombelico, dedicando energie a quello che, pensava, gli avrebbe sottratto il ruolo sociale, il citizen journalism. E invece, è successo che in rete sono arrivati i professionisti dell’ informazione, a far quello che già facevano prima, ma con più mezzi, cioè la propaganda. Mentre i cittadini non hanno rubato il posto proprio a nessuno (anzi, hanno fornito ancora più fonti da verificare). “Nel film di Spielberg The Post, quello che emerge, oltre al valore dei giornalisti, è soprattutto il ruolo della proprietà. Katharine Graham, signora dell’ alta società, rischia tutto, perché sa che il suo prodotto, il giornale, diventerà un atto di eccellenza – ribadisce Mieli – Il dramma di internet è che non ha selezionato figure del genere e che anche quando l’ ha fatto, come nel caso di Zuckerberg, le ha selezionate in base a criteri che non afferivano al mondo dell’ informazione, ma della tecnologia”. Quel grande impero, ora, sta facendo con il giornalismo quello che l’ industria musicale ha fatto con l’ online, ma a parti invertite: ha cercato di sottovalutarlo, per poi chiedergli una mano. Ché la rottamazione, a tutti i livelli, difficilmente premia, a differenza dell’ integrazione. Se anche il giornalismo lo capisse, sarebbe fatta.
Addio al mio caporedattore onniscente
Libero
link
V.F. – Ieri ho appreso una brutta notizia: è morto Carlo Galimberti, un giornalista di straordinaria bravura, un professionista d’ altri tempi che non amava apparire e in effetti non è mai apparso. Era un uomo di macchina, infallibile: controllava tutti i testi e faceva dei titoli perfetti. Non gli sfuggiva un errore, una imprecisione, uno sfondone. Galimberti era caporedattore del settore politico, il più apprezzato da Giovanni Spadolini che la sera si sedeva al suo fianco per sapere tutto del Palazzo. Carlo era una colonna invisibile ma solidissima del Corriere della Sera. Un mostro come il quale non ne esistono più. Infatti i quotidiani, persino il Corriere, per non dire di Libero, sono pieni di puttanate: sintassi e grammatica approssimative, sbagli di vario genere che una volta erano impensabili grazie a personaggi attenti e colti quali Galimberti (ne ricordo un altro simile, Zucchelli, che non so dove sia). Carlo aveva 90 anni. Quando fui assunto in via Solferino, il direttore Piero Ottone mi affidò alle sue cure. Per un anno Carlo mi tenne in naftalina, mi assegnava compiti marginali per mettermi alla prova. Lui vergava i titoli della prima e della seconda pagina. Li scriveva a mano. Divenni il suo vice. Un giorno mi ordinò: d’ ora in poi delle aperture e dei tagli te ne occupi tu. Fu una scuola meravigliosa. Io facevo, lui correggeva. Finché non mi corresse più. Divenimmo amici. Mi confidò che nella sua lunga vita professionale aveva scritto un solo articolo: venti righe su un torneo di tennis. Lo pubblicò sul Gazzettino di Venezia dove esordì in redazione. Era figlio di un proto, un supertipografo. Laureato in filosofia, gli occhiali sul naso. Piero Ostellino lo inviò nella capitale, capo dell’ ufficio romano, il più importante, e tenne a battesimo Giuliano Ferrara, lo stimava assai, sosteneva che fosse un notista fenomenale, e aveva ragione. Io ne presi il posto a Milano, ma non durai a lungo. Mi fecero inviato. Qualche anno dopo Galimberti tornò in sede, segretario di redazione. Ci perdemmo di vista. Lui andò in pensione e non ci incontrammo più. Sapere che è scomparso mi ammazza di dolore. Non gli devo molto: tutto. Era un maestro. Mi viene in mente un episodio divertente. Spesso Carlo mi telefonava a casa la mattina e mi ingiungeva di raggiungerlo al tavolo di lavoro. In una circostanza non risposi io bensì la cameriera la quale, su mio suggerimento, disse: il signore è fuori a cavallo. Era una balla. Ma Galimberti non mi chiamò più per anticipare il mio rientro al Corriere. Non ho mai avuto il coraggio di confessargli la burla. Ciao Carlo, a presto. riproduzione riservata.
Torri: Inwit e Rai Way arroccate la mossa sta a EiTowers e Cellnex
Affari & Finanza
link
L’ INCERTEZZA POLITICA PER LA RAI DA UNA PARTE E QUELLA SUGLI ASSETTI TIM DALL’ ALTRA: IN ITALIA IL CONSOLIDAMENTO È IN STALLO. A MENO CHE NON SI CONCRETIZZI IL PASSAGGIO DELLA SOCIETÀ SPAGNOLA SOTTO IL CONTROLLO DIRETTO DI BENETTON. LE OPZIONI PER MEDIASET Sara Bennewitz Milano C ome si muove una pedina, a cascata anche tutte le altre iniziano a cadere. Così nel settore delle torri di trasmissione la miccia ad innescare la nuova ondata di consolidamento, doveva essere la vendita di Persidera che si è impantanata per colpa delle beghe di Telecom e dei suoi azionisti. Ora invece il cambio di padrone della spagnola Cellenex, sotto la regia dei Benetton, potrebbe provocare un terremoto anche in Italia, e far sentire i suoi effetti sull’ asta per la conquista della torri francesi e portoghesi messe in vendita da Altice. L’ arrivo degli esteri Cellnex oltre a essere il leader delle torri broadcast in Spagna, è anche il terzo operatore delle torri telefoniche italiane e tra i primi in Europa, forte di una capitalizzazione da 5 miliardi di euro. Il gruppo che fa parte di Abertis, salvo imprevisti di qui al 16 aprile, dovrebbe essere passare attraverso Atlantia direttamente nel portafoglio di Edizione, la holding industriale della famiglia Benetton che controlla il gruppo di abbigliamento, le autostrade, gli Autogrill e il 3% delle Generali. Attraverso la controllata Galata, il gruppo guidato da Tobias Martinez ha infatti rilevato le torri di Wind e quelle di Atlantia, ed è andata a un passo da conquistare il controllo della Inwit di Telecom Italia. Ma ora che Cellnex ha un nuovo padrone, che a differenza di Abertis sarà concentrato e determinato a investire nel consolidamento del settore europeo, Francia e Italia saranno tra i primi mercati dove investire. In questo contesto, si inserisce il processo di vendita delle torri di Altice, il gruppo telefonico di Patrcik Drahi che essendo oberato dai debiti, ha messo in vendita le infrastrutture in Francia e in Portogallo. Al momento tra i pretendenti si è affacciato il fondo Kkr, che e è già socio di minoranza al 40% delle torri di Telefonica-Telxius e il colosso americano American Tower. Se American Tower o Crown Castle, mettessero finalmente piede nel Vecchio Continente, tutte le aziende europee del settore potrebbero diventare target potenziali, dato che i due colossi Usa hanno una capitalizzazione rispettivamente di 63 e 45 miliardi di dollari, pari a oltre 10 volte la maggiore delle aziende europee del settore, soprattutto telefonico anche perché l’ arrivo del 5g imporrà a tutti questi operatori, nuovi importanti investimenti. Morale per tutte le aziende europee questo sarà il momento di prendere una decisione, per schierarsi tra i potenziali predatori, prima di correre il rischio di diventare prede degli americani. Il quadro italiano L’ Italia, al contrario di quanto succede di solito, è il Paese che è più avanti degli altri in questo contesto di infrastrutture, perché possiede ben tre aziende delle torri quotate, che considerando anche Cellnex in salsa veneta, diventeranno presto quattro. Un numero significativo, che apre il fianco a consolidamenti necessari e auspicabili, per creare sinergie ridurre i costi e proteggere le aziende da eventuali raider ostili. In particolare il settore broadcast è quello che più avrebbe senso consolidare, ma la tanta agognata fusione tra Rai Way e la Ei Towers di cui Mediaset controlla il 40%, giace in un cassetto da anni. In assenza di un governo è difficile immaginare che la Rai possa partire alla conquista del suo primo rivale, peraltro partecipato da un imprenditore che comunque avrà un ruolo in Parlamento. Morale Ei Towers potrebbe muoversi autonomamente, almeno un primo passo, confluendo verso Cellnex, e in un secondo momento cedendo le attività televisive alla Rai. Il gruppo spagnolo non solo gestisce già il 98% delle torri broadcast spagnole, ma da anni è anche un importane fornitore di Mediaset Espana-Telecinco. Tanto più che Ei Towers, che in settimana ha annunciato positivi risultati 2017, con l’ occasione ha anche rinnovato il contratto con le tv che fanno capo a Fininvest fino al 2025. Cellenex potrebbe anche tornare a fare la sua migliore offerta alla Inwit di Telecom. Ma difficilmente il gruppo che fa capo a Telecom potrà prendere una simile decisione in tempi brevi. Per prima cosa Inwit sta per rinnovare l’ intero consiglio: alla presidenza verrà indicato Stefano Siragusa- che ha assunto anche l’ incarico di capo di tutte le infrastrutture di Telecom – mentre il nuovo ad al posto di Oscar Cicchetti sarà Giovanni Ferigo, ex responsabile della divisone Technology della capogruppo. In secondo luogo mentre il cda è dimissionario e non si capisce se a comandare l’ azienda nel prossimo futuro sarà Vivendi (padrona del 23,9%) o Elliott (socia al 5,7%) e i fondi attivisti che la supportano, difficilmente Telecom potrà avviare un processo di vendita di Inwit, e concluderlo in tempi bevi. Inoltre gli analisti fanno notare che per Telecom che è già molto indebitata, l’ introduzione del nuovo standard contabile Isfr 17, potrebbe essere un boomerang. Vendere Inwit oggi potrebbe infatti tradursi in un costo più che in un’ opportunità per ridurre il debito del gruppo guidato da Amos Genish, che pure aveva detto che le torri «non erano strategiche». E così con Inwit paralizzata da Vivendi- Elliott e Rai Way da un governo che non c’ è, Cellnex e Ei Towers potrebbero trovare due volte interessante mettere insieme le forze nel breve termine, e aspettare che le acque si calmino. A quel punto, se a comprare le torri di Berlusconi fosse un gruppo spagnolo controllato da una famiglia di imprenditori italiani, come i Benetton, per la Rai sarebbe molto più facile negoziare solo l’ acquisto delle attività broadcast di Ei Towers (finite dentro Cellnex) e creare così notevoli sinergie. Ma c’ è di più perché se Rai Way fosse supportata da un partner finanziario come F2i, che già l’ aveva affiancata per la conquista di Persidera, il gruppo guidato da Aldo Mancino potrebbe anche muovere i suoi passi sulle torri televisive spagnole. Telefoni e tv Cellnex, che non ha mai fatto mistero di preferire le torri telefoniche rispetto a quelle televisive, in futuro potrebbe essere interessante a far consolidare a Rai Way le antenne delle tv spagnole, liberando risorse da investire nuovamente su Inwit, o su altre aziende europee in modo da consolidare un’ importante quota di mercato per prendersi un boccone indigesto alla calata dei colossi americani. Fatto sta che i giochi, che finora erano fermi, tornano ad aprirsi, e l’ Italia e le aziende italiane, potrebbero avere un ruolo importante e attivo nello scacchiere del consolidamento europeo di queste infrastrtuture. Ne è convinta anche Mediobanca, che in un corposo studio su tutti i titoli media e telefonici, scommette che il 2018 sarà un anno all’ insegna delle fusioni e delle acquisizioni. E per partecipare al gioco del consolidamento delle torri Mediobanca punta su Rai Way (giudicata outperform con un target di 5,85 euro) e su Ei Towers (che sovraperformerà fino a 65,1 euro), mente è più tiepida e attendista su Inwit (che riceve un giudizio neutrale con un target di 6,18 euro). © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Pagare tutti per i dati. E far pagare i servizi I social non devono vivere di sola pubblicità
L’Economia del Corriere della Sera
MARIA TERESA COMETTO
link
Questa volta non si tratta di uno scandalo passeggero. E’ una crisi esistenziale quella che Facebook deve fronteggiare. Il suo stesso modello di business è in discussione insieme alla possibilità di continuare a crescere e macinare profitti. «Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati e, se non riusciamo a farlo, allora non meritiamo di essere al vostro servizio», ha detto il fondatore e ceo di Facebook Mark Zuckerberg lo scorso mercoledì, promettendo di risolvere i problemi che hanno portato allo sfruttamento dei dati di 50 milioni di «amici» americani per la campagna elettorale di Donald Trump. Ma molti utenti hanno già deciso che non si fidano di lui e hanno aderito alla campagna #DeleteFacebook, Cancella Facebook. Non si può sapere per ora quanti siano usciti dal social , ma la tendenza preoccupa sia Zuckerberg sia gli investitori. «Il maggior problema è se #DeleteFacebook porterà a un calo degli utenti e alla scelta di investire i dollari di pubblicità altrove – hanno commentato gli analisti di Barclays -. La reazione negativa del pubblico può danneggiare anche la capacità di Facebook di arruolare nuovi talenti». Sapere tutto sui propri utenti, convincendoli a usare la piattaforma il più spesso possibile e a condividere una enorme quantità di dati su se stessi e i loro amici, per poter poi vendere questi dati agli sviluppatori di applicazioni e agli inserzionisti pubblicitari: questo è il cuore del business di Facebook. Che così è cresciuta a un ritmo vertiginoso. Da quando si è quotata in Borsa nel 2012 ha quasi raddoppiato il numero delle persone connesse almeno una volta al mese: sono quasi una ogni tre abitanti della Terra. Mentre il fatturato è più che quintuplicato da 7,9 a 40,6 miliardi di dollari e i profitti netti sono più che decuplicati da 1,5 a 15,9 miliardi. Ma è impossibile per Facebook monitorare completamente come gli sviluppatori di app e i pubblicitari impieghino i suoi dati. Per questo si moltiplicano gli appelli all’ intervento delle autorità di controllo. «I problemi di Facebook sono strutturali – ha scritto sul Wsj Paul Bergevin, veterano della comunicazione nel settore high-tech, ex Ibm e Intel -. Nella ricerca della crescita del fatturato non ha incentivi a denunciare i contenuti degli impostori. Le autorità di controllo avranno l’ ultima parola, in particolare perché Facebook sta trattando gli attuali problemi come una crisi di pubbliche relazioni invece che come una minaccia al suo modello di business». Secondo Bergevin, Facebook deve anche smetterla di pretendere di non essere una media company: «Se non si assume le responsabilità di un editore verificando l’ identità degli utenti, filtrando i contenuti pubblicati e affrontando la questione dei post con fatti speciosi o provocatori, Facebook deve aspettarsi interventi dall’ esterno. Così com’ è, Facebook è fuori controllo e non può durare». La risposta fornita finora da Zuckerberg è giudicata insufficiente dagli esperti. «È ora che prenda il suo posto Sheryl Sandberg, la responsabile operativa: comunica meglio ed è un leader migliore», ha detto Jason Calacanis, investitore nel settore tech. «Zuckerberg deve inginocchiarsi. Dev’ essere convincente. Può vincere solo se perde in fretta», ha twittato Jeff Macke, ex responsabile della finanza a Yahoo!, evocando il rischio che Facebook ripeta gli errori di Microsoft, quando nel 1998 fu accusata dal ministero della Giustizia Usa di pratiche monopolistiche: «Spese così tanto tempo e risorse per cercare di sconfiggere le autorità americane e Netscape da non accorgersi dell’ emergere di Apple». Più drastico è Scott Freeze, manager dell’ Etf Fang, specializzato sul settore nuove tecnologie e media: «Qualsiasi piattaforma di social media prima o poi è destinata a sparire come MySpace. Nessun giovane oggi usa Facebook. Lo scandalo di Cambridge analytica accelera la sua fine». I primi segni di un declino di Facebook verso i giovani erano già apparsi: nel 2017 aveva perso 2,8 milioni di utenti sotto i 25 anni negli Stati Uniti e ne perderà altri 2 milioni quest’ anno, secondo stime di eMarketer precedenti l’ attuale scandalo. Inoltre per la prima volta nell’ ultimo trimestre 2017 il numero degli utenti attivi ogni giorno in Nord America era calato di 700 mila unità a 184 milioni. Uscire da questa crisi non sarà semplice per Facebook. L’ inventore del world wide web Tim Berners-Lee l’ accusa di essere, insieme agli altri giganti di Internet, protagonista di una concentrazione di potere che «ha reso possibile trasformare il web in un’ arma di massa». Ma secondo lui è un mito che la pubblicità sia l’ unico modello di business delle web company, così come l’ idea che sia troppo tardi cambiare il modo in cui i social media operano. Quindi Berners-Lee ha fatto appello alle «menti più brillati» per affrontare le minacce e trovare un’ alternativa. Che secondo l’ Economist potrebbe essere pagare gli utenti per i dati o farli pagare per usare le piattaforme senza pubblicità.
Google Home è sbarcato nel Belpaese l’ assistente virtuale ora parla italiano
Affari & Finanza
link
È IL PRIMO SPEAKER CON CONTROLLO VOCALE A METTERE PIEDE IN ITALIA. BRUCIATI I CONCORRENTI DI AMAZON ED APPLE. DA MOUNTAIN VIEW ASSICURANO: “SAPPIAMO COSA CHIEDETE AL NOSTRO MOTORE DI RICERCA SUL WEB” Maria Luisa Romiti U na sorpresa? Non del tuttoera prevedibile che quello di Google fosse il primo speaker con controllo vocale ad arrivare in Italia. Ed è diventata quasi una certezza quando si è saputo che Google a metà marzo ha rilasciato la lingua italiana sia per Google Home sia per Google Home Mini. Ora, però, è ufficiale: da domani questi device saranno disponibili sullo store online Google Store e da Euronics, Mediaworld e Unieuro a un prezzo, rispettivamente, di 149 e 59 euro. Dal 3 aprile saranno in vendita anche con Tre e Wind. Abbiamo avuto modo di vedere Google Home in anteprima e si confermano le impressioni avute valutandolo in foto. Ha dimensioni molto compatte e si presenta con un design elegante che si adatta a qualsiasi ambiente. È in vendita con la base in tessuto grigio che è però staccabile per poterla sostituire con un’ altra sempre in tessuto nei colori viola, acqua marina e corallo oppure metallica in bianco, arancio e grigio antracite. Attualmente le basi non sono disponibili sullo store italiano. Questo smart speaker dispone di due microfoni, due driver e due diffusori passivi e integra l’ Assistente Google: questo consente di inviare comandi vocali di vario genere. Si inizia dicendo “Ok Google” e poi si fanno la domanda o la richiesta. Qualche esempio”Quali sono le pizzerie in zona?”, “Domani piove?” “Metti un po’ di musica”, “Aggiungi le uova alla lista della spesa”. In quest’ ultimo caso va a inserire il prodotto all’ interno della Lista della Spesa integrata nell’ applicazione Google Home che consente anche di configurare e gestire gli speaker. Inoltre se si prova a chiedergli “Come sarà la mia giornata” ci dà le informazioni utili: dalle condizioni meteo, al tragitto giornaliero fino agli eventi in calendario, oltre a un riepilogo delle notizie da una fonte a scelta tra quelle al momento disponibili (Corriere della Sera, Rep di La Repubblica, RMC, RTL 102.5, Sky News 24, Sky Sport, TGCOM24). Non mancano gli aspetti ludici e “spiritosi”. Infatti se si vuole racconta curiosità, barzellette o fa ascoltare il suono del mare. Sempre tramite comando vocale si può ascoltare la radio attraverso TuneIn, si riproducono brani, playlist, artisti e album dai servizi musicali Google Play Musica e Spotify, e si controllano, per esempio, gli altoparlanti che hanno un dispositivo Chromecast Audio collegato o Chromecast integrato. Inoltre si possono trasmettere contenuti a qualsiasi tv con Chromecast collegato o integrato: al momento da YouTube e Netflix ma se ne aggiungeranno altri. Google Home permette anche di controllare luci e interruttori di sistemi di automazione domestica compatibili come Philips Hue, TP Link, D Link, LIFX, Wemo, a cui presto si aggiungeranno i termostati di Nest e altri partner. Google Home Mini offre tutte le funzionalità del fratello maggiore, ma in dimensioni ancora più piccole: così compatte e minimali che, se appoggiato sul comodino in camera da letto o su un mobiletto in bagno, quasi non si vede. Funziona da solo, ma soprattutto potenzia la portata di Google Home così da poter disporre dell’ Assistente Google in tutte le stanze o ascoltare la musica dovunque per la casa. In Italia è disponibile nei colori grigio chiaro, grigio antracite e corallo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Qui sopra, l’ assistente virtuale di Google, il “Google Home” che arriva in Italia ad un prezzo di 149 euro; parla italiano e c’ è anche in versione “mini”
Facebook, Apple, Amazon e Google i sette peccati dei feudatari del web
Affari & Finanza
link
POCHI CONTROLLI, REGOLE SCARSE, LA TENDENZA A CONSIDERARE LE LEGGI E LE NORME DEGLI OPTIONAL: COSÌ HANNO RIVOLUZIONATO I MEDIA, IL COMMERCIO, LA FINANZA. MA ORA CRESCE LA CONVINZIONE CHE SI SIANO SPINTI TROPPO IN LÀ E SERVA UN VERO E PROPRIO NEW DEAL Arturo Zampaglione segue dalla prima C onosciute a Wall Street come Faang (che è l’ acronimo di Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google), hanno visto crescere esponenzialmente utili e quotazioni (+40 per cento in un anno). Giovedì scorso, a dispetto dello scivolone di oltre 700 punti del Dow Jones, le Faang avevano una capitalizzazione complessiva di Borsa di quasi 3mila miliardi di dollari, cioè di un quarto del Nasdaq. Aggiungendovi anche il valore di Microsoft, la cifra arrivava a 3.633 miliardi di dollari (per capire l’ ordine di grandezza, la Fiat Chrsyler capitalizza appena 32 miliardi). Già da qualche tempo si intravedevano incrinature nella immagine pubblica dei padroni del web. Ma il vero Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei, è cominciato la settimana scorsa con lo scandalo della Cambridge Analityca. Basandosi su dati personali di 50 milioni di utenti sottratti a Facebook e sotto la regia di Steve Bannon, punto di riferimento della destra sovranista americana, la società inglese di consulenza politica ha dato un contribuito forse essenziale alla campagna elettorale di Donald Trump. Facebook era al corrente del problema dal 2015, ma non ha fatto nulla fino a quando la vicenda è finita sulle prime pagine dei giornali. Solo dopo essersi preso una settimana di riflessione, Zuckerberg è uscito allo scoperto, con un mea colpa pubblico e la promessa di maggiori controlli sulla privacy. Troppo poco e troppo tardi, hanno sentenziato analisti, investitori e persino il popolo del Web. Mentre scattava una campagna per cancellare gli account con l’ hashtag #deletefacebook, le azioni Facebook sono crollate e si sono moltiplicate le inchieste di magistrati e parlamentari. Ma non è solo il gruppo di Zuckerberg a tremare. La realtà è che il caso Cambridge Analytica sta facendo da catalizzatore ad una serie di scorrettezze sistematiche commesse, quasi senza accorgersene, dal “feudalesimo hi-tech”. E adesso questi “sette peccati capitali” sembrano venire al pettine, ponendo ai padroni della rete una vera sfida esistenziale. Si moltiplicano infatti le richieste a livello politico di un “new deal” nei big data, capace di regolare l’ accesso alle informazioni del pubblico anche a costo di offuscare l’ immagine dei padroni del web. Su questi i “sette peccati” su cui si concentrano ora riflessioni, proposte (e tentativi di rivincita). Eccone una sintesi. 1) Scarsa tutela della privacy Il “business model” di social network e motori di ricerca ruota attorno alla capacità di raccogliere e poi sfruttare i dati personali degli utenti per messaggi mirati, analisi o pubblicità. Questo “sistema”, ovviamente, dipende dalle garanzie di privacy offerte al pubblico: sulla carta ci sono tante promesse, ma nei fatti, controlli e difese sono insufficienti. Di sicuro non impediscono i ricorrenti hackeraggi. E l’ impressione degli esperti è che le società hi-tech investano troppo poco per la tutela, in personale e software. In alcuni casi, chiudono addirittura un occhio: come è successo proprio a Facebook che, quando anni fa ha capito che la Cambridge Analytica aveva acquisito i dati senza autorizzazione, ha solo chiesto di distruggerli (senza poi controllare) e non ha neanche informato gli utenti “scippati”. Adesso Zuckerberg promette di farlo: ma appare una conferma della superficialità dell’ approccio, che ovviamente provoca la reazione irritata di 2 miliardi di utenti Facebook. 2) Propaganda politica È stato lo stesso Trump a vantarsi su twitter di aver sfruttato i social media molto meglio di Hillary Clinton e di quello che pensavano gli esperti. In effetti, non solo Facebook ha dovuto ammettere di essere diventato un canale privilegiato per la propaganda segreta pro-repubblicana orchestrata del Cremlino nelle ultime presidenziali, ma il caso di Cambridge Analytica ha evidenziato il modo in cui i consulenti politici britannici, pagati dal miliardario Robert Mercer e dalla figlia Rebekah, e ispirati da Bannon, si sono serviti dei dati personali sottratti al sociale network per inviare messaggi micro- mirati capaci di far leva sulla psicologia di milioni di elettori. Zuckerberg e i suoi collaboratori non si sono accorti di nulla: almeno dicono così. Ma il chief security officer, cioè il capo della sicurezza interna del gruppo, Alex Stamos, si è dimesso per protesta ben prima che scoppiasse lo scandalo. E ora la società di Menlo Park, in California, si sta attrezzando per proteggere da interferenze esterne le elezioni di midterm americane a novembre. 3) Elusione fiscale Operando nel mondo virtuale del web, le imprese hi-tech hanno avuto sempre la tendenza a considerare l’ imposizione fiscale come una sorta di “optional”, come un “costo” da minimizzare con ogni mezzo. Finora la strada maestra è stata di convogliare gli utili in stati a bassa tassazione, come ha fatto la Apple con l’ Irlanda, o dove potevano contare su aiuti specifici e spesso segreti, come Amazon in Lussemburgo. Ma dopo anni di conflitti, frustrazioni e multe, come quella di 16 miliardi all’ Irlanda per il trattamento di favore alla Apple, l’ Unione Europea ha proposto adesso una webtax: una tassa del 3 per cento sul volume d’ affari dei servizi digitali. L’ obiettivo: incassare 5 miliardi di euro e soprattutto ristabilire una equità nei confronti delle altre imprese, che oggi pagano mediamente in Europa una aliquota del. 23,2 per cento, rispetto al 9,5 delle società hi-tech. A dispetto dell’ avversione che Trump ha sempre avuto per il mondo della Silicon valley, e in particolare per la Amazon di Jeff Bezos, la Casa Bianca si prepara però a contrastare la mossa europea, accusandola di essere protezionista e anti-americana. 4) Contenuti editoriali I giornali tradizionali hanno denunciato da sempre la prassi delle società hi-tech di rilanciare gratuitamente sui loro siti, articoli e contenuti di informazione originali prodotti da altre testate. Qualcuno ha parlato di furto. Il fenomeno ha accelerato le difficoltà dei media su carta stampata, che si sono trovati di fronte a una concorrenza sleale. Negli Stati Uniti sono stati persi negli ultimi 20 anni 20mila posti di lavoro nel settore giornalistico. 5) Infrazioni sul lavoro Il braccialetto elettronico brevettato da Amazon per facilitare la localizzazione dei prodotti da parte dei dipendenti è diventato un simbolo del tentativo sistematico dei colossi hi-tech di massimizzare il rendimento dei lavoratori, spesso a scapito delle norme di legge e di una serena attività produttiva. Certo, in questa fase i giganti del web sono quelli che assumono di più, ma le condizioni di lavoro spesso lasciano a desiderare. I signori del web si avventurano anche in altri comparti, come la sanità o le banche, senza particolari attenzioni per le regolamentazioni vigenti. 6) Pubblicità non trasparente È stato lo stesso Zuckerberg, nelle interviste che ha concesso (malvo-lentieri) dopo lo scandalo, a notare come la pubblicità sui social network non deve sottostare alle stesse regole della tv o della carta stampata. In effetti gli utenti di Facebook non sono in grado, oggi, di sapere chi paga per un certo messaggio mirato. In molti casi, come ad esempio durante le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, dietro alla pubblicità c’ erano gruppi legati al Cremlino o i consulenti della Cambridge Analytica pagati da Trump. 7) Violazioni Antitrust La commissione europea cominciò nel 1993 le prime offensive contro la Microsoft di Bill Gates per il mancato rispetto delle norme della concorrenza. E da allora Bruxelles ha dovuto lavorare sodo: perché le aziende hi-tech hanno sempre cercato di approfittare indebitamente della loro posizione di mercato dominante. Un esempio? Google, che ha appena ricevuto dalla Unione Europea una multa di 2,7 miliardi di euro. Anche l’ anti-trust americano ha aperto vari procedimenti contro Microsoft e vari altri giganti, senza però incidere veramente negli assetti societari dei “feudatari del web”. © RIPRODUZIONE RISERVATA Mark Zuckerberg, fondatore e ceo di Facebook, nel mirino delle critiche per la vicenda Cambridge Analytica.
Streaming, la pubblicità sugli Ott arriverà a 40 miliardi nel 2020
Affari & Finanza
link
[ I NUMERI] Si chiama ” addressable tv” ed è la nuova frontiera del mercato pubblicitario: vuol dire aver la possibilità di erogare contenuti di annunci diversi a segmenti di pubblico diversi che guardano lo stesso programma tv su Iptv e set top box, in modalità live, playback o Vod, ossia video on demand. È in pratica il nuovo capitolo del progressivo spostamento della tv dal semplice broadcasting tradizionale alla rete. Non significa che non ci saranno più i palinsesti e le trasmissioni in diretta, ma solo che queste saranno affiancate da diverse modalità di visione differita e personalizzata degli stessi contenuti. E anche quando l’ utente starà guardando un evento in diretta, lo farà attraverso una piattaforma che lo terrà connesso con un canale di ritorno. Questa tendenza è illustrata dal volume crescente di investimenti pubblicitari sulle tv in streaming, i cosiddetti Ott. La spesa degli inserzionisti in Ott dovrebbe raggiungere i 40 miliardi di dollari entro il 2020, eMarketer prevede che intanto, nel 2019, la spesa pubblicitaria in addressable tv raggiungerà i 3 miliardi di dollari. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Molotov.tv dalla Francia all’ Europa ecco la Netflix dei canali televisivi
Affari & Finanza
link
UNA PIATTAFORMA UNICA PER IL 90% DELLE EMITTENTI IN CHIARO TRANSALPINE: È UN OTT CHE PERMETTE D I VEDERE I PROGRAMMI ON DEMAND, DI MEMORIZZARLI E DI FERMARLI ANCHE QUANDO SONO IN DIRETTA ORA STA TRATTANDO CON GLI ALTRI BROADCASTER UE Anais Ginori Parigi I l nome è un po’ scioccante, ma niente equivoci: è stato scelto proprio pensando a un cocktail esplosivo. E dopo qualche anno di rodaggio, Molotov.tv ha mantenuto la promessa. La piattaforma che permette di avere a portata di clic un’ ottantina di canali ha già conquistato cinque milioni di francesi, e dalla settimana scorsa è disponibile anche per tutti i cittadini dell’ Unione europea a 28. L’ idea è di un trio di lunga esperienza: Pierre Lescure, fondatore delle pay tv Canal + e poi dell’ italiana Telepiù, Jean-David Blanc, creatore del sito di cinema Allociné e Jean-Marc Denoual, già manager da Tf1. La promessa è semplice: “Reinventare la televisione”, ovvero portare la rivoluzione digitale dentro al piccolo schermo. Non solo: conquistare il pubblico più giovane che non guarda o quasi la vecchia tv analogica, dove pure si concentra ancora il maggior investimento per la produzione di contenuti. Secondo il trio che ha promosso la piattaforma è tempo di aggiornare la televisioni alle nuove abitudini come l’ immediatezza, l’ accessibilità, la condivisione, il controllo del tempo, la mobilità e l’ interattività. Se molti canali si sono adeguati al mondo digitale, le interfacce sono spesso diverse, non tutti propongono le funzioni richieste dal nuovo pubblico e soprattutto navigare tra diverse applicazioni e siti richiede tempo e disperde l’ attenzione. L’ obiettivo di Molotov.tv è insomma di concentrare in un unico luogo tutta l’ offerta televisiva, passando dallo zapping con il telecomando a quello con il touch screen, rendendo di nuovo attraenti i palinsesti tradizionali davanti all’ offensiva di You-Tube e altre piattaforme di video online. Con un’ interfaccia immediata, Molotov.tv è un gigantesco mosaico di programmi, film, eventi, in cui è facile navigare. La piattaforma permette di guardare quasi tutti i programmi tv (il 90% delle emittenti gratuite) in un’ unica applicazione con funzione come start-over (visione dall’ inizio di un programma in corso), replay, registrazione nel cloud. Il business model è basato per una parte sul freemium, con la proposta delle principali emittenti gratuite francesi, e per l’ altra sulla commercializzazione dei canali a pagamento e di alcune opzioni come l’ acquisto di spazio di memoria supplementare e l’ aumento del numero di dispositivi. La società francese sostenuta da Idinvest Partners, società europea leader nel Private equity, e da un gruppo di investitori privati, si appresta a lanciare una nuova raccolta fondi per espandersi, dopo quella del 2014 (10 milioni di euro) e del 2016 (22 milioni di euro). I dirigenti francesi hanno dato mandato alla banca Rain per cercare 50 milioni di euro. Forte del suo successo, la piattaforma over-the-top lanciata nel luglio 2016 ora punta ad espandersi all’ estero. Dal primo aprile, i contenuti di Molotov.tv potranno essere visibili anche nei ventotto paesi dell’ Unione Europea, grazie al regolamento sulla portabilità dei contenuti in linea. «E’ la prima volta nella storia della televisione che si potrà guardare anche all’ estero », ci spiega il ceo di Molotov. tv, uno dei tre fondatori,, Jean-David Blanc. Unico requisito: possedere una carta di credito francese per giustificare la residenza. E’ una misura europea che sarà disponibile anche ad altre piattaforme. «E’ una possibilità che sarà particolarmente apprezzata dai nostri utilizzatori che potranno continuare a vedere i contenuti tv francesi anche durante soggiorni all’ estero o vacanze” commenta Blanc che ha calcolato un pubblico “mobile” all’ estero è pari a quasi 2 milioni di persone. Il ceo di Molotov.tv sostiene di voler guardare oltre frontiera. «È solo la prima tappa della nostra espansione all’ estero». I primi paesi a cui la società francese – che si presenta come una sorta di Netflix della tv – punta sono Italia, Germania, Regno Unito, Spagna, Belgio. Alcune trattative sono già in corso, in particolare in Germania, ma i tempi non sono ancora definiti. I dirigenti francesi sperano di poter battezzare la prima succursale all’ estero entro la fine dell’ anno. «Dobbiamo prendere accordi con ogni canale», spiega Blanc. In Francia, le trattative con i vari gruppi televisivi francesi sono durate quasi due anni prima di poter finalmente lanciare l’ offerta globale sulla piattaforma. La piattaforma non è una concorrenza, ma viene considerata come un distributore di contenuto. Molotov.tv ha siglato un accordo con Mediamétrie, l’ equivalente del nostro Auditel, che permette ai canali tv che aderiscono alla piattaforma di raccogliere dati sull’ audience da parte degli utilizzatori. Sui programmi diffusi attraverso Molotov.tv gli spazi pubblicitari vengono rispettati come nel palinsesto analogico, e pure le formule di abbonamento. Nonostante le molte garanzie e gli incentivi alla conquista di nuovo pubblico, l’ adesione di gruppi tradizionali non è scontata. In Francia, Vivendi ha tardato a concedere i suoi canali, e ancora oggi Molotov. tv non può trasmettere neppure i contenuti gratuiti di Canal +. Il successo dell’ applicazione ha anche provocato qualche contenzioso. Alcune emittenti, come il canale M6, hanno deciso di rinegoziare gli accordi o di passare alla formula a pagamento. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
L'articolo Rassegna Stampa del 26/03/2018 proviene da Editoria.tv.