Indice Articoli
Manca la cultura per capire l’ interesse nazionale
Sulla web tax il vento sta cambiando
Repubblica da Oscar 10 premi per il design
Gettano un libro nella Rete e pescano lettori col passaparola
Ogni giorno Cairo si sveglia e taglia 300.000 euro in Rcs
Manca la cultura per capire l’ interesse nazionale
Il Giornale
Alessandro Sansoni
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Alessandro Sansoni Disgraziato quel paese in cui manca una cultura dell’ interesse nazionale. Per esempio l’ Italia. Si tratta di una patologia che inquina il dibattito ed impedisce all’ opinione pubblica di farsi un’ idea chiara in politica estera. Uno svantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni. In generale gli italiani mostrano scarso interesse verso i fatti del mondo: solo in casi eccezionali i quotidiani dedicano più di un paio di pagine agli esteri. A ciò va aggiunto l’ approccio dei media mainstream: sempre ideologico, orientato alla ricerca dei «buoni» e dei «cattivi», mai a un’ analisi razionale dei fatti in una prospettiva collegata all’ interesse nazionale. Un problema: non solo perché è sbagliato valutare i fatti politici secondo il metro dell’ etica, ma soprattutto perché il giudizio morale, riguardo ai conflitti internazionali, è sempre orientato da una narrazione strumentale, la cui efficacia dipende dalla «potenza di fuoco» di chi la produce. Il recente passato mostra diversi casi in cui agli italiani è stata offerta una narrazione delle crisi internazionali non in linea con i loro interessi: pensiamo alle «primavere arabe», dipinte come il trionfo della democrazia e della libertà. Esse suscitarono entusiasmo in tutti i partiti, nei principali media e nella pubblica opinione. Solo poche voci isolate si levarono per mettere in guardia dai problemi che avrebbero causato: Mediterraneo in preda al caos, islamismo trionfante, la Libia. Lo stesso potrebbe dirsi della crisi ucraina e delle sanzioni anti-russe. Talvolta i giudizi veicolati sono così smaccatamente contrari ai nostri interessi da far pensare che ci sia malafede. In realtà c’ è un problema più profondo: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia è stato considerato equivoco qualunque atteggiamento «patriottico» e messa al bando la formazione «geopolitica» delle classi dirigenti e degli intellettuali. Mancano insomma gli strumenti culturali per «pensare l’ interesse nazionale». Mancano anche le infrastrutture: troppo spesso le notizie vengono riprese dalle grandi agenzie di stampa internazionali di lingua inglese, che costituiscono la fonte primaria dalla quale attingere informazioni su ciò che accade nel pianeta. Le notizie, però, a differenza dei fatti, non sono mai neutre e la loro selezione influenza i giudizi. In particolare nell’ era del giornalismo «copia e incolla».
Libri in scena, ovvero: musica e teatro per leggere tra Serra di Cassano e l’ antico palazzo de’ Liguoro
Il Mattino
Alessandra Gargiulo
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Raccontare emozioni. Dalle pagine di un testo ad uno spartito musicale, ad un copione teatrale: storie d’ inchiostro da leggere, ma anche ascoltare e guardare per trasformare ogni volta la presentazione di un libro in coinvolgenti performance. Sono le «prospettive» letterarie di «Libri in scena 2018», seconda edizione della rassegna itinerante all’ interno di storici palazzi di Napoli ideata dall’ associazione culturale Ilmiofuoriorarario col patrocinio dell’ Istituto italiano degli Studi filosofici. Cinque appuntamenti fino a maggio in cui la musica, la recitazione e la lettura a voce alta contribuiranno a rendere piacevole ed ancora più emozionante la conoscenza di alcuni testi, perché un libro «può essere letto da tanti punti di vista – sostiene Maria Ammaturo, presidente dell’ associazione -. Così abbiamo pensato ad un percorso teatrale e musicale che possa connettere nel modo più immediato il pubblico alle pagine di un testo, unito alla scelta di validi autori con libri interessanti in location suggestive». Da Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio, splendido esempio della maestria dell’ architetto napoletano Ferdinando Sanfelice e dal 1975 sede dell’ Istituto italiano degli Studi filosofici, a Palazzo de’ Liguoro di Presicce alla Sanità di origini cinquecentesche, oggi di proprietà di Donna Paola de’ Liguori, discendente diretta di Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, «il più napoletano dei santi, il più santo dei napoletani», come amava ricordare Benedetto Croce. In questi luoghi pregni di storia e cultura autori e pubblico «entreranno in connessione»: ogni presentazione sarà caratterizzata da una pièce teatrale alternata ad una conversazione con l’ autore, il tutto accompagnato da un commento musicale dal vivo. La rassegna, inoltre, prevede che ogni appuntamento sia preceduto da un itinerario guidato alla scoperta della location e un aperitivo offerto ai partecipanti. Si comincia questa sera (ore 17.30) nel salone degli Specchi di Palazzo Serra di Cassano con lo scrittore Nando Vitali e la sua «Ferropoli» (Castelvecchi editore) in cui, sullo sfrondo della Bagnoli ex Italsider, dagli inizi degli anni Settanta fino al 2001, si snodano tra gelosie e tradimenti le vicende di due musicisti, amici dall’ infanzia, Luciano e Rocco, e delle loro compagne, Angela ed Elena. Da programma, la presentazione del libro seguirà la visita guidata, mentre le collaborazioni musicali saranno a cura di Marco Gesualdi, le suggestioni teatrali di Alessandro Errico e Maria Luisa Coletta. «Libri in scena» proseguirà poi domenica 8 aprile con «Sacrificio» (sempre Castelvecchi editore) di Andrea Carraro, questa volta nel salone da ballo di Palazzo de’ Liguoro di Presicce che in seguito ospiterà anche l’ appuntamento del 6 maggio con gli «Insperati incontri» (Gaffi editore) di Silvio Perrella. Si ritornerà invece a Palazzo Serra di Cassano rispettivamente il 22 aprile ed ancora il 27 maggio, ultima tappa di quest’ interessante viaggio letterario, in cui saranno proposte al pubblico le artistiche letture de «La cura dell’ acqua salata» di Antonella Ossorio e de «La consonante K» di Davide Morganti, entrambi Neri Pozza editore. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Sulla web tax il vento sta cambiando
Il Sole 24 Ore
Mauro Marè
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La manipolazione dei dati di Facebook e la tassazione delle basi imponibili digitali confermano che oltre a molti vantaggi, esistono anche vari lati oscuri del web. Come scrisse all’ inizio degli anni 60 un famoso cantautore, i tempi stanno forse cambiando nel giudizio sul web e qualcosa soffia nel vento. Continua pagina 7 La diffusione delle piattaforme digitali ha enormemente aumentato l’ accesso alle informazioni, accresciuto enormemente l’ offerta di beni e servizi per i consumatori, ridotto i costi di transazione e aumentato l’ efficienza e la produttività, modificato nel profondo intere industrie e settori – editoria, cinema, istruzione, sanità, logistica, distribuzione beni e servizi e altri ancora. L’ uso dei dati personali disponibili in rete per finalità politiche e di condizionamento delle elezioni, i rischi che nella storia la democrazia diretta ha fatto emergere per quella rappresentativa, hanno reso evidente che il web, oltre a un fattore di propulsione economico e politico potentissimo, rischia anche di essere sul piano politico la tomba della democrazia. La questione della proprietà dei dati e soprattutto del loro possibile uso distorto va attentamente monitorata, ormai sul piano mondiale per varie ragioni, compresa la lotta al terrorismo. Un’ altra fonte importante di instabilità e di limitazione della sovranità democratica degli Stati deriva dal vincolo alla libertà di tassazione delle diverse basi imponibili che l’ economia digitale pone agli stessi. Ai lavori del G20 di Buenos Aires (19-21 marzo), 5 ministri della Ue e 2 membri della Commissione Ue hanno presentato una dichiarazione politica molto forte in favore di una tassazione comune della web economy, per ragioni di efficienza, di limitazione delle distorsioni alla concorrenza e di equità della tassazione (fair share of tax). Sempre al G20, l’ Ocse ha presentato il rapporto della Task Force on Digital Economy. L’ analisi è molto approfondita sul piano tecnico ma non contiene proposte concrete, data la posizione molto critica degli Usa. Il rapporto infatti non associa alla critica insistita che viene svolta alle misure di breve termine – come la web tax italiana o le altre degli altri Paesi – un intento propositivo efficace sulle misure comuni di lungo termine che possono essere adottate sul piano internazionale. Sia chiaro, le soluzioni unilaterali o di breve periodo possono presentare incoerenze ed effetti distorsivi per il buon funzionamento dei mercati. Però, mentre ci si dilunga sui possibili difetti di queste soluzioni in termini di efficienza e di distorsioni alla concorrenza, nulla di fatto si dice sulla necessità di trovare una soluzione comune di lungo periodo proprio per le stesse ragioni di efficienza e di welfare. Per questo una novità molto importante e un passo in avanti decisivo è la pubblicazione di due proposte di direttiva che la Commissione Ue ha pubblicato questo mercoledì. La prima è sulla tassazione societaria e stabilisce alcune regole per basarla sul concetto di presenza digitale significativa. La seconda propone invece l’ introduzione di un’ imposta sui servizi digitali (digital services tax) comune nella Ue. L’ idea di fondo è che la tassazione dei profitti basata sulle vecchie regole definite in economie in parte chiuse sono ormai inadeguate in un mondo sostanzialmente digitale. Larga parte dei ricavi e dei profitti nel nuovo contesto digitale derivano chiaramente da dati forniti dai consumatori, che hanno cambiato la catena del valore e la produzione dello stesso. Le imprese digitali pagano un’ aliquota effettiva decisamente più bassa di quella pagata dalla imprese tradizionali (9,5% e 23,2%). Le imposte sui profitti non catturano più i nuovi modelli di business digitale, le nuove forme di creazione del valore che originano dai dati e dall’ uso degli utenti delle varie piattaforme. C’ è perciò un disallineamento tra il luogo in cui si crea il valore – le basi imponibili – e quello in cui le imposte sono pagate. È necessario introdurre nella definizione delle basi imponibili e nella ripartizione del gettito tra Paesi un legame più stretto con i dati e i consumatori-utenti – ma stabilirne i criteri è complicato sul piano tecnico e politico. La prima proposta di direttiva definisce perciò alcuni criteri su cui basare la presenza digitale: superare una soglia di ricavi annui di 7 milioni di euro in un Paese membro; avere più di 100mila utenti o un numero di contratti superiore a 3mila unità. Quindi il valore di mercato degli user data conterà nella tassazione societaria e nella ripartizione del gettito tra gli Stati. Ma la vera novità del progetto della Commissione è appunto la proposta di un’ imposta sui servizi digitali che assomiglia molto alla web tax italiana e che pone al centro i dati e la partecipazione degli utenti. Essa dovrebbe tassare con un’ aliquota del 3% i ricavi lordi, al netto dell’ Iva, derivanti dalla fornitura di tre tipi di servizi digitali (solo B2B, escludendo B2C): a) pubblicità on line; b) vendita di dati degli utilizzatori delle piattaforme digitali, generati dall’ attività degli utilizzatori medesimi; c) servizi di intermediazione forniti tramite le piattaforme multisided. La definizione di due soglie di fatturato – 750 milioni di ricavi sul piano mondiale e 50 milioni all’ interno della Ue – servono infine a definire la scala adeguata delle imprese oggetto di tassazione e ad esentare le piccole (start up) aziende europee. Molti obiettivi ambiziosi, ancora molti dettagli da definire – quello della riscossione, del pagamento dell’ imposta e soprattutto la ripartizione del gettito tra stati – e ancora vari ostacoli da superare – ridurre le possibili forme di doppia imposizione e i problemi per il mercato unico. L’ imposta sui ricavi non viola però i Trattati, né presenta discriminazioni rispetto alle norme Ue. Quindi, un passo in avanti decisivo, che lancia la sfida: essa pone al centro del progetto europeo l’ efficienza nella tassazione delle basi imponibili e forme eque di prelievo tra Paesi. Università Luiss © RIPRODUZIONE RISERVATA.
New York Times al primo posto
La Repubblica
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Il New York Times è sul podio del World’ s Best-Designed Newspaper, prestigioso premio dedicato al design dei quotidiani. Il giornale newyorchese fondato nel 1851 ha vinto il primo premio sia per l’ edizione cartacea che per quella digitale: e non era finora mai accaduto che una stessa testata conquistasse entrambi i riconoscimenti. Gli altri due vincitori del World’ s Best sono l’ olandese Het Parool e il tedesco Die Zeit, che erano tra i sette finalisti insieme a Repubblica, HS Viikko (Finlandia), La Nación (Argentina), Politico Europe (Belgio)
Repubblica da Oscar 10 premi per il design
La Repubblica
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Il restyling. Gli inserti. I critici del World’ s Best-Designed Newspaper votano lo “stile intelligente e sofisticato”. E il giornale finisce tra i magnifici 7 di tutto il mondo Testo di Raffaella De Santis Astretto giro dalla rivoluzione grafica, Repubblica vince dieci premi di eccellenza al World’ s Best-Designed Newspaper. Il prestigioso riconoscimento per il design dei quotidiani cartacei e online, organizzato dalla Society for News Design (SND), ha incoronato Repubblica tra i sette giornali meglio disegnati al mondo. La SND è una organizzazione internazionale che dalla fine degli anni Settanta si dedica al visual journalism su carta, web e ora anche su mobile. Gli “award” arrivano a pochi mesi dalla riprogettazione del design del giornale, firmata a novembre dall’ art director Angelo Rinaldi e da Francesco Franchi. Repubblica porta così a casa tre premi per il restyling grafico del quotidiano e dei supplementi RClub e RSalute e sette riconoscimenti per i progetti grafici degli inserti Robinson, RLab, RFood, Super8, RClub, RSalute. Oltre a un premio di eccellenza ad Agostino Iacurci per le sue illustrazioni. La cerimonia di premiazione si è tenuta venerdì nella sede newyorchese della New School, la scuola di design dei creativi della Grande Mela, un bellissimo edificio nel cuore del Greenwich Village. Il New York Times si è assicurato il podio, cumulando due medaglie d’ oro, quella per il miglior design cartaceo e digitale: “Leggere il New York Times è come seguire una lezione accademica di narrazione visuale”, recita la motivazione della giuria. Gli altri due vincitori sono, per il secondo anno consecutivo, l’ olandese Het Parool e il tedesco Die Zeit. A Repubblica dieci premi d’ eccellenza e l’ onore di essere tra i sette finalisti, insieme ai tre vincitori assoluti e a HS Viikko (Finlandia), La Nación (Argentina), Politico Europe (Belgio). «È motivo di orgoglio che il nostro lavoro abbia avuto un apprezzamento a livello internazionale », dice Francesco Franchi. Nello speech tenuto venerdì di fronte a designer arrivati da tutto il mondo, Franchi ha illustrato il nuovo progetto grafico: «Abbiamo iniziato mostrando il video di Eugenio, il carattere tipografico protagonista della nuova Repubblica ». Un carattere, il cui nome è un omaggio al fondatore Eugenio Scalfari, commissionato ad hoc allo studio Commercial Type, lo stesso che ha disegnato il font del Guardian. Angelo Rinaldi ha raccontato invece al pubblico di esperti la storia del giornale, partendo dal primo Bodoni, quello delle origini, che dal numero 1 del quotidiano, 14 gennaio 1976, rivoluzionava anche a livello grafico il modo di fare giornalismo: «L’ innovazione – ha detto Rinaldi – è sempre stata un punto di forza di Repubblica, all’ avanguardia nella grafica e in un certo tipo di giornalismo che trasforma il contenitore in contenuto». Per Repubblica è la conferma del successo di un restyling grafico che ha saputo dare al giornale una nuova veste senza tradirne lo spirito originario. L’ idea di Rinaldi e Franchi è stata quella di partire dal carattere per eccellenza della tradizione tipografica italiana, il Bodoni appunto, per pensare qualcosa di nuovo e rendere il giornale più elegante, più chiaro e più leggibile. E la motivazione della nomination a Repubblica data dalla giuria del premio è la riprova che a vincere è stata proprio la capacità di innovare non perdendo il contatto con le radici del giornale e l’ identità dei suoi lettori di riferimento: “Questo giornale brilla per la sua eleganza discreta, la stampa raffinata, la tavolozza dei colori e la squisita organizzazione. Conosce chiaramente il suo pubblico e si rivolge ad esso. Ben curato a tutti i livelli, Repubblica usa sottili punti visivi e uno stile grafico intelligente e sofisticato per spiegare storie ai suoi lettori e posizionarli nel suo mondo”. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Gettano un libro nella Rete e pescano lettori col passaparola
La Repubblica (ed. Milano)
TERESA MONESTIROLI
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Può la Rete costruire una comunità di lettori che con il passaparola trasformano il manoscritto di un esordiente in un caso letterario? I consigli che un tempo giravano alle cene tra amici oggi si sono spostati sui social? Con quale efficacia? Intorno a queste domande ruota l’ incontro che oggi alle 11 la casa editrice Bookabook organizza a Book Pride (sala Marple). «Un italiano su quattro compra un libro basandosi sui consigli di un amico – racconta Tomaso Greco, tra i fondatori della casa editrice che dal 2014 pubblica solo attraverso il crowdfunding online. Attraverso le campagne di prenotazione copie costruiamo delle comunità di lettori che diventano parte del progetto editoriale, non solo perché ricevono il libro che hanno scelto in anteprima, ma perché possono partecipare alla lavorazione del testo, dalla correzione delle bozze alla scelta grafica della copertina, fino al rapporto con l’ autore. In un certo senso è come se portassimo i lettori dentro la casa editrice creando una relazione forte con il volume. Questo li spinge a consigliarlo ad altri. Li abbiamo soprannominati editori morali». Funziona così. La casa editrice pubblica online le schede di manoscritti precedentemente selezionati, indicando come tetto minimo di prenotazioni per la stampa in 200 copie. Se il libro le raggiunge, si procede. «In quattro anni abbiamo fatto uscire 70 titoli, circa la metà di quelli proposti in rete – continua Greco -. Con un caso eccezionale, Papà, Van Basten e altri supereroi che con il passaparola è arrivato fino ai calciatori del Milan che spontaneamente hanno fatto la foto con il volume in mano e l’ hanno pubblicata permettendoci di raggiungere moltissime persone». La tiratura è salita a 10 mila copie, ancora ben lontano dal caso editoriale che ha fatto scuola, Storie della buonanotte per bambine ribelli, ma una cifra importante per una piccola casa editrice. © RIPRODUZIONE RISERVATA La squadra I giovani editori di Bookabook.
Ogni giorno Cairo si sveglia e taglia 300.000 euro in Rcs
La Verità
FABIO PAVESI
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fabio pavesiCi deve essere del genio sicuramente in quell’ uomo, ma soprattutto ci deve essere molta tenacia e meticolosità. Il metodo è fondamentale. Lui è Urbano Cairo l’ imprenditore, patron del Torino (di fatto l’ unico editore puro in Italia) che in poco tempo ha fatto rinascere Rcs dalle ceneri. In neanche 20 mesi, da quando conquistò l’ editrice del Corriere della Sera, nella piena estate del 2016, Urbano Cairo è riuscito nel miracolo di resuscitare dalle ceneri il primo gruppo editoriale italiano, reduce da perdite per oltre un miliardo negli ultimi anni. Pensavano in molti allora che per uno, certo molto capace ma che veniva dall’ editoria periodica di stampo nazional popolare, l’ impresa della conquista del colosso Rcs fosse un azzardo. Di fatto c’ era il rischio che l’ impegno finanziario messo nella partita dell’ esangue Rizzoli-Rcs potesse travolgere lui è la sua Cairo communication. Ha smentito molti. Lo dicono le cifre sfornate nel primo anno intero della sua gestione, il 2017 appena chiuso. Pur con ricavi in calo (come accade per tutta l’ editoria italiana ormai dal lontano 2010) di 72 milioni tra il 2016 e il 2017 è riuscito, e qui si misura la sua tenacia e abilità gestionale, a restituire la redditività perduta del gruppo Rcs. Il margine industriale, salito da 90 milioni a 138 milioni, valeva a fine 2017 il 15,4% dei ricavi, una profittabilità che ben pochi oggi vantano nel settore. Già a fine del 2016 quando da neanche cinque mesi Cairo era salito sulla tolda di comando la redditività industriale era sì salita, ma si fermava a meno del 10% del fatturato. Ma la velocità con cui Cairo ha messo mani ai conti del gruppo è impressionante. A giugno del 2016 un mese prima della conquista, il margine operativo lordo del gruppo Rcs era a quota 34 milioni su 504 milioni di ricavi non andando oltre il 7%. Un anno e mezzo è bastato all’ imprenditore alessandrino cresciuto in gioventù a pane e pubblicità alla scuola di Silvio Berlusconi, per raddoppiare di fatto la profittabilità industriale. Il segreto non è poi così oscuro e miracoloso. Bastava affondare le mani, mani di forbice vien da dire, nelle colossali inefficienze gestionali del primo editore italiano cui i vecchi, plurimi e litigiosi azionisti di peso evidentemente non badavano. Nel primo anno pieno del suo controllo Cairo ha tagliato tra costi operativi e costo del lavoro la bellezza di 117,5 milioni. Il ritmo metodico è di meno di 10 milioni al mese. Se volete fanno 300.000 euro al giorno, sabato e domenica compresi, di risparmi. Più del 90% della sforbiciata hanno riguardato le spese generali e i servizi, il personale ha contribuito per soli 10 milioni. Oggi, o meglio a fine 2017 il complesso di tutti i costi valeva 749 milioni su 896 milioni di ricavi. Nel giugno del 2016, un mese prima dell’ arrembaggio riuscito alla corazzata nello scontro a colpi di Opa con Andrea Bonomi e la cordata di Mediobanca e vecchi soci, quei costi si mangiavano oltre il 92% dell’ intero fatturato. E che dire del 2015 quando su un miliardo di ricavi i costi toccavano i 998 milioni? Ora l’ equilibrio tra costi e ricavi è raggiunto e l’ utile netto è salito a 71 milioni dai soli 3,5 milioni del 2016. Un cambio di pelle radicale. Non solo. Cairo ha portato i debiti con le banche a 287 milioni dai 487 milioni che gravavano su Rcs fino a tutto il 2015. Ora quei debiti, per i quali le banche, Intesa in testa, hanno seriamente temuto, sono del tutto sotto controllo. Valgono solo due volte il margine lordo e poco più di una volta e mezzo il capitale. Tra l’ altro l’ imprenditore alessandrino ha promesso di ridurre ulteriormente il debito finanziario per fine anno a 200 milioni. E di tagliare entro la fine del 2018 altri 28 milioni di euro, con la stessa proporzione tra costi operativa e costi del lavoro, ovvero nove a uno. Già oggi Rcs non è più in tensione finanziaria come è stata per anni e la crescita così sostenuta dei margini non lascia dubbio alcuno sulla rimborsabilità futura del debito. Risanata e di nuovo fortemente redditizia. Il margine operativo lordo a oltre il 15% del fatturato oggi se lo sognano tutti i concorrenti. Il gruppo l’ Espresso (oggi Gedi dopo a fusione di Repubblica con la La Stampa e il Secolo XIX), da sempre quello con la più alta profittabilità, arriva a malapena a un margine lordo sui ricavi all’ 8% quasi la metà del risultato sfornato in poco più di un anno e mezzo dalla nuova Rcs a marchio Cairo. La cura sui costi senza deprimere l’ efficienza aziendale è la specialità, riconosciuta da tutti, in cui Cairo è maestro. Tutte le sue attività producono profitti e flussi di cassa. La Cairo Communication non ha mai chiuso in perdita anche negli anni della crisi e sforna una media di utili di 20 milioni l’ anno. In cassa ci sono tuttora 125 milioni di liquidità, praticamente intonsa dalla quotazione nel lontano Duemila. La7 che perdeva 100 milioni quando l’ acquisì nel 2013, pur con qualche tribolazione in più, farà il primo utile quest’ anno. Che ci sappia fare a giostrare tra costi e ricavi è indubbio. Ma anche lui sa che se i ricavi nella grande editoria non smettono di flettere, allora raschiato il barile dei costi da tagliare ci sarà da arrendersi. Ma lui nasce e viene dalla pubblicità e non a caso anziché ridurre formati e pagine, come fan tutti, lui rilancia e allarga. Nuovi dorsi, più carta, più contenitori. Sarà da lì che un domani Cairo si aspetta di fermare l’ emorragia dei fatturati dell’ industria editoriale. Un’ altra scommessa. Vincerà anche questa?
Occhio alle anomalie
L’Espresso
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I dati di Nielsen o Gfk o Arianna sono strumenti sempre più perfetti. Analisi di mercato raffinate, oggi attendibili. Perché sono dati analitici, ricavati dagli scontrini delle librerie che aderiscono al sistema, sui quali poi si fanno delle proiezioni in base a criteri statistici e demoscopici. Ogni libreria, ogni notte, invia: Codice ISBN, numero di copie vendute, data. Il mercato si divide in librerie fisiche (catene o indipendenti), librerie online e la Gdo (grande distribuzione, cioè supermercati). Monica Manzotti, BookScan Manager Italy di Nielsen, spiega che dispongono di un panel di più di 5000 negozi, compresa la grande distribuzione. Simonetta Pillon, amministratore delegato di informazioni editoriali di Arianna, precisa: «Tecnicamente le classifiche le fanno Nielsen e Gfk, i due grandi istituti di ricerca. Si basano però sui dati Arianna per le indipendenti e per il catalogo, cioè per la descrizione del titolo e il suo inserimento in una categoria. Saviano sta nella saggistica o nella narrativa? Non lo decide l’ editore, lo decidiamo noi, secondo rigide regole redazionali». Il grande mistero ruota intorno a Amazon, che ufficialmente non rilascia i suoi dati. Ma è l’ unico. Il resto, sono leggende metropolitane. «È impossibile alterare i dati delle classifiche, viene fatto un controllo qualità tutte le settimane», spiega Manzotti. «Se di colpo ci sono grandi quantità di libri venduti, si certifica se c’ è stato un evento, una presentazione, e la vendita è corretta. Altrimenti quel dato viene cancellato». Quindi, se un autore pensa di scalare posti in classifica mandando il cugino a comprare cento copie del suo libro, commette un’ ingenuità. L’ anomalia balza evidente. E non gli resta che rivendere le copie agli amici.
Trucchi, soldi e librerie
L’Espresso
CATERINA BONVICINI
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Le classifiche? Ambite o demonizzate. Autori che le controllano ossessivamente o che le ignorano sprezzanti. Editori sensibili, sempre. Ma quanto sappiamo di quel mondo? Poco, in realtà. È un universo più complesso di quel che sembra. E più sfuggente. «Le classifiche di oggi pesano il 40 per cento in meno di cinque anni fa. Perché i best seller vendono meno e il catalogo vende di più», spiega Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del gruppo Gems. «È una conseguenza dello sviluppo dell’ e-com che rende tutto disponibile. Siamo davanti a una mutazione genetica: il consumatore che prima sceglieva fra 5000 titoli, oggi sceglie fra un milione. Si è dimezzata la vendita nei supermercati, che facevano il 50 per cento su un best seller e adesso fanno il 25 per cento. Ma è stata compensata dalla vendita on line. I primi 10 titoli dell’ anno vendono il 40 per cento in meno, i primi 100 il 30 per cento in meno, i primi 1000 il 10 per cento in meno. Però tutti gli altri vendono un pochino di più». Tendiamo a pensare alle classifiche così come ci vengono proposte dai giornali (Robinson e La Lettura si affidano a Gfk e Tuttolibri a Nielsen). Quindi a concentrarci solo sui primi 20. Invece, gli editori si servono di uno strumento più profondo, più serio di qualunque spasmodico desiderio e di ogni demonizzazione, cioè di uno strumento asettico, professionale. Tanto che spesso rizzano le antenne studiando le posizioni medie o basse, che noi nemmeno vediamo. «Un indicatore molto interessante è quello che succede in mezzo, non in cima», dice Carlo Carabba, responsabile editoriale della narrativa italiana Mondadori. «Se un esordiente, su cui non c’ è stato strepito, vende 200 o 250 copie a settimana, mi dico: però, che bella tenuta nel tempo». E Paolo Repetti, direttore Einaudi Stile Libero, racconta: «Le classifiche sono uno strumento utile soprattutto nelle parti basse. Io vado sempre a vedere fra il tremillesimo e il cinquemillesimo posto. Quando abbiamo preso De Giovanni era pubblicato da Fandango e io trovavo due o tre libri suoi nelle parti basse, ma sempre, tutte le settimane. Facevano 50 copie al mese però lui era fisso lì. Era come se la brace fosse un po’ accesa. Aveva una potenzialità di vendita inespressa». «Dopo il ventesimo posto sembra aprirsi un vuoto, che non aiuta a rendere conto di quello che si muove al di là della magica soglia», conferma Piergiorgio Nicolazzini, agente letterario (Pnla), «al lettore manca uno sguardo più completo e articolato, ne ricava un’ impressione parziale, estremizzata, che alimenta il circolo vizioso del vende ciò che già vende e dà l’ impressione che il mondo editoriale si concentri sulle punte più significative. La vera forza di una classifica invece è quella di alimentare una lettura trasversale e disincantata. Cioè scoprire linee di tendenza, potenzialità, far dialogare novità e catalogo, valorizzare autori che navigano sotto la magica soglia ma di sorprendente continuità, o altri di piccolo ma costante rendimento su cui investire». Marco Vigevani, agente letterario (The Italian Literary Agency), fa l’ esempio di una sua autrice: «Un libro può vendere molto nel tempo e non entrare mai in classifica. Mariapia Veladiano, con “Lei” ha venduto 20.000 copie senza mai comparire. Se la classifica è molto alta, intorno a 900 o 1000 copie a settimana, certi romanzi non appaiono». Perché troviamo sempre gli stessi nomi nelle top? Perché i librai tendono a ordinare lo stesso numero di copie vendute del libro precedente. Quindi gli autori da classifica continueranno a tornarci, raramente capita il contrario. Nessun editore cerca più di inondare il mercato. È una strategia vecchia, che oggi porta solo alla rovina. Adesso si fanno solo tirature vicine alle prenotazioni. Di solito meccaniche, ripetitive. «La cosa veramente complicata, specie nel mercato di oggi che è abbastanza conservativo, è immettere nuovi autori nelle classifiche», dice Carabba. «Quindi bisogna pensare in un altro modo. Io non credo in un’ editoria del tutto e subito, del numerone, in cui conta il venduto dei primi due mesi, se no remi in barca. È un modello che non si può più sostenere. Bisogna tornare a un modello di maggior valorizzazione del medio e lungo periodo. Non parlo di mesi, ma di anni. Siamo in una fase storica in cui i venduti sono molto calati. E non tutti i libri devono essere giudicati solo dal risultato commerciale. Su alcuni c’ è un obiettivo soprattutto commerciale e, se non si raggiunge, il risultato è insoddisfacente. Su altri invece ci si concentra di più sulla comunicazione, sulla valorizzazione dell’ autore. Se poi non si raggiungono abbastanza lettori, pazienza. Imposti le basi per farlo con il romanzo successivo. Io credo all’ idea di percorso. Se uno segue un autore, deve farlo con un’ idea prospettica». Lo stesso pensa Nicolazzini: «Le classifiche sono una risorsa a disposizione dei professionisti dell’ editoria per rafforzare una visione, soprattutto a medio e lungo termine, senza la quale non si può interpretare né gestire quell’ inestricabile rapporto fra qualità e quantità che è insito nel mercato e nella natura stessa dei libri e di chi li scrive». Come si fa a mandare un libro nella top ten? «Ahahah», risponde Mauri. E Repetti rilancia con una battuta: «Quando chiesero a Somerset Maugham le leggi per scrivere un best seller, rispose: Ci sono tre regole fondamentali. Peccato che io non sappia quali sono». Antonio Franchini, direttore editoriale Giunti Bompiani, parla di «una preghiera laica dell’ editore. Se avessimo la formula». Beatrice Masini, direttore di divisione Bompiani, ricorda i casi di Kent Haruf o di Annie Ernaux, il miracolo di un piccolo editore indipendente come NN: «Chiamando a raccolta i lettori forti si riesce a scansare un meccanismo che per sua natura sembra dominato dai grandi gruppi. È molto bello il rovesciamento». Quindi smettiamola di mitizzare il potere degli editori. Se fosse in vendita una formula matematica (o magica), sicuramente la pagherebbero più di qualsiasi loro autore. Invece tutti si trovano di fronte a una realtà complicata, per certi aspetti troppo conservativa e per altri in continuo mutamento. Ma se nessuno ha la formula per fare entrare un libro nella top ten e le classifiche sono uno strumento più sottile di quel che si pensa, naturalmente esistono delle strategie ben precise per lanciare un libro. La pubblicità sui giornali, a detta di tutti, ormai conta poco. Le cifre? Si va da 4.000 euro per una pagina su un supplemento di cultura agli 8.000 per un’ uscita in prima di un quotidiano nazionale. Ben più di quanto ricevono tanti autori per un romanzo, magari costato anni di fatica. E se un libro viene pagato caro, cioè più di 50.000 euro, la preoccupazione diventa recuperare l’ anticipo (per un anticipo di 50.000 euro serve vendere 30.000 copie, per esempio). Dunque perché investire tanto per un paginone sui giornali? Per fare piacere agli autori, ti rispondono. Funziona come segnale al mondo culturale e ai librai (questo autore per noi è importante: vi invitiamo al nostro matrimonio R.S.V.P.). Sembra che sia più utile per i libri letterari che non per quelli commerciali, perché il pubblico che legge i supplementi culturali è medio-alto, e il resto così non si raggiunge. «In certi casi è meglio tappezzare gli autobus o gli spazi metropolitani con una pubblicità davvero massiccia», dice Vigevani. «Servono idee nuove», aggiunge Mauri. «Quando Mondadori ha fatto la prima pubblicità in tivù, ha funzionato. Non si usava. Ma quando hanno ripetuto l’ idea, non hanno avuto gli stessi risultati». E poi, siamo nell’ era dei social. Dice Repetti: «Siamo nel regno del politeismo assoluto, non c’ è più un solo dio che governa il mercato. Come le firme autorevoli sui giornali di una volta. In America hanno spostato l’ investimento pubblicitario al 70 per cento sull’ on line e al 30 per cento sul cartaceo. In Italia questa cosa non c’ è ancora. Al massimo si può sponsorizzare un post di un autore già molto seguito, come Michela Murgia, ma costa molto». Nel caso dei romanzi di genere, dicono, aiuta coinvolgere i blogger del settore. Ci sono poi dei piccoli accorgimenti che possono fare la differenza. «Può contare anche il giorno di uscita», spiega Vigevani. «Perché la classifica per gli editori esce di giovedì, anche se viene pubblicata la domenica. Se fai uscire un libro di mercoledì, hai un solo giorno di rilevamento. Se lo fai uscire di venerdì, per la settimana dopo, hai un vantaggio». Un lettore innocente e sprovveduto può affidarsi alle vetrine delle librerie di catena. Non sa che quegli spazi vengono comprati. Come quelli all’ ingresso o alle casse. Si pagano anche gli espositori. Ogni posizione ha un prezzo, e anche molto alto. Si chiama attività di marketing punto vendita. Può costare fra i 7.000 e i 15.000 euro, un investimento oneroso, che però ha un suo ritorno, più efficace della pubblicità. Ma si può fare solo all’ inizio, per una quindicina di giorni, mica si possono spendere cifre così per tutto l’ anno. Uno può pensare che se pubblichi da Feltrinelli è facile riempire le Feltrinelli con la tua copertina. Come le Mondadori con un libro Mondadori. Invece no. È più complicato. Feltrinelli editori è una società diversa da Feltrinelli librerie. Le Mondadori sono in franchising. Più in generale, le grandi catene guadagnano grazie alla concorrenza, gli altri editori sono clienti importanti. Quindi un po’ di riguardo per il proprio gruppo c’ è, ma non troppo: bisogna mantenere il giusto equilibrio, per fare tornare i conti. In poche parole: affittare spazi serve eccome per fare entrare chi si vuole in classifica. È ovvio che un lettore compri più facilmente un libro che vede piuttosto che uno subito messo a scaffale. Ma questa spesa si può sostenere solo per pochi autori, dal potenziale commerciale alto. Quelli che hanno sempre venduto poco, che hanno dei «pregressi» come si dice (la fedina pedale di uno scrittore, quasi sempre sporca), di solito ricevono un anticipo più basso dell’ affitto di uno spazio in libreria, e i conti sono presto fatti. Esistono però dei modi per alzare le prenotazioni, se un editore ti sostiene. Un autore che vende poco non è necessariamente spacciato. «Il libraio tende a pensare che un libro replicherà il risultato commerciale del precedente e a prenotare lo stesso numero di copie», spiega Carabba. «Ovviamente si può ricredere. Per questo si fanno le “copie librai”». Si può mandare una staffetta del libro, cioè le bozze non corrette, il primo capitolo, un folder promozionale. «L’ importante è creare un rapporto di fiducia. Il risultato commerciale non deve diventare un’ ossessione. E bisogna superare l’ idea che qualità e quantità siano contrapposte». «In ognuno di noi c’ è un lettore letterario, una donna, un pensionato, un appassionato di romanzi storici, una casalinga», dice Franchini, «in ognuno di noi ci sono lettori diversi in grado di entusiasmarsi per libri che si comportano in modo diverso». L’ imprevedibilità appartiene soprattutto al long seller, e Repetti cita il caso Agassi: «Siamo partiti con una prima tiratura di 11.000 copie, ne abbiamo vendute 700.000. Naturalmente non era programmato». n di CATERINA BONVICINI Provocazioni Cultura Cultura Provocazioni Perché troviamo sempre gli stessi nomi nelle top ten? Perché i librai tendono a ordinare lo stesso numero di copie vendute dall’ autore con il libro precedente.
L'articolo Rassegna Stampa del 25/03/2018 proviene da Editoria.tv.