Indice Articoli
Piccoli editori i successi dei numeri primi
Facebook e google troppo grandi per sopportarli?
Papà disney arruolo Murdoch contro i big tech
Viva l’ Ing. giornalisticamente scorretto
«La nostra televisione conquista il mondo»
Fake news, cresce l’ allarme Beffato un italiano su due
“Software e web salvano l’ editoria specializzata” Il settore vale 550 milioni
La carta stampata si vende sul web facendo leva su prezzi bassi e servizi
Piccoli editori i successi dei numeri primi
L’Economia del Corriere della Sera
di Francesca Gambarini e Maria Elena Zanini
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C’ è NN che si è fatta strada grazie a un nome e a un titolo: Kent Haruf e Le nostre anime di notte . Oppure Ponte 33, con le sue autrici iraniane e le copertine firmate da disegnatori persiani. Bao publishing ha puntato sulla graphic novel , e ha trovato sulla sua strada – incontro fortunato – Zerocalcare. O barra O , invece, ha scoperto la letteratura contemporanea del Sud Est asiatico. Altra è la storia de La Giuntina , che da 37 anni pubblica testi ebraici. Si dice piccoli e medi editori ma si legge in migliaia di modi: oltre 4.500 per la precisione (stime 2016). E i dati confermano che, anche per quest’ anno, il terzo consecutivo, i «concorrenti» dei big , Mondadori-Rizzoli e Gems sono agguerriti: vanno addirittura meglio della media del mercato. Lo dicono i dati di Aie (Associazione italiana editori) e Nielsen, presentati alla 16esima fiera della Piccola e media editoria «Più libri più liberi». Il mercato del libro di carta dei primi dieci mesi (senza la grande distribuzione organizzata, nella quale trovano meno spazio), i piccoli crescono del 3,3% in valore e dello 0,6% per numero di copie. I grandi scalano una marcia: + 2,7% in valore e + 0,4% per copie. Mentre sul fronte internazionale il 12,5% delle vendite dei diritti è stato coperto dai piccoli (+31,9%). Oggi questi piccoli valgono il 39% del mercato: sono quei marchi editoriali indipendenti con un venduto a prezzo di copertina sotto i 16milioni di euro, che pubblicano fino a cento titoli, anche se più della metà rimane sotto i dieci. Nel 2016, quasi il 50% degli intervistati da Aie dichiarava di aver superato la crisi e di aver migliorato i bilanci. «Il mercato editoriale si è ripreso da due anni e i numeri confermano un andamento positivo, anche se più lento rispetto ad altri settori – spiega Giovanni Peresson, dell’ ufficio studi dell’ Aie -. I piccoli, pur dotati di minore capacità finanziaria o capitalizzazione, in questi anni hanno aumentato la quota di mercato. Il problema, però, non è aprire una casa editrice: per farlo bastano da 10 a 50 mila euro. Il punto critico è l’ accesso alle librerie». Nell’ accezione più concreta del termine. «I piccoli non entrano con facilità nelle grandi catene, perché i buyer (chi individua nuovi titoli per le librerie, ndr ) dei macro gruppi cercano di accaparrarsi le novità- spiega Diego Guida, presidente del gruppo Piccoli editori di Aie – . E il meccanismo del conto deposito ci penalizza: i libri rimasti negli scatoloni o gli invenduti, dopo 90 giorni, sono resi: in sostanza si scommette su una vendita ipotetica». Che per non rimanere tale, ormai, ha bisogno di ingredienti in più. Di un piano editoriale disruptive rispetto ai concorrenti, come negli esempi citati. O di strategie che ribaltano i piani di business noti e collaudati. «Oggi le librerie hanno difficoltà a immobilizzare i titoli dei piccoli editori, che hanno rotazioni più basse – riflette Peresson -. Mentre i canali dell’ ecommerce hanno bisogno di una comunicazione specifica, e in case editrice si sono fatte spazio figure nuove». Ecco che la sfida è stata trasformarsi da classiche imprese editoriali a startup. Negli anni i piccoli hanno affiancato alla produzione di libri attività non specificatamente editoriali, ma che rientrano nel perimetro culturale in cui operano: « Iperborea organizza festival e corsi di lingue scandinave, e ha trovato in Ikea uno sponsor per l’ ultima fiera di Torino. In Piemonte c’ è anche Effatà , che edita volumi e organizza viaggi», elenca Peresson. Ed è sicuro Guida: «I nostri piccoli sono uno dei settori più innovativi dell’ editoria italiana, con una grande volontà di esplorare nuovi generi, nuove letterature internazionali e nuovi autori». E che non hanno certo smesso di sognare il «salto». Come Sellerio , che dopo il successo di Andrea Camilleri ha saputo scegliere i nomi giusti per crescere. O come E/O che, grazie alla trilogia dell’ Amica geniale di Elena Ferrante, ora può puntare su nuovi mercati, Stati Uniti in testa. La stampa digitale, poi, ha avuto un ruolo fondamentale. «Con un costo pagina di poco superiore alla tradizionale stampa offsett si fanno, in digitale, 500 copie – conta Peresson -. Così si raggiungono fino a 400 librerie e, se il libro va bene, si può anche ristampare, senza immobilizzo di capitale o costi di magazzino». Tra innovazione e specificità, i margini per fare (ancora) meglio ci sono. Ma il trend è destinato a durare? «Esistono reali possibilità di crescita, del resto è un settore dove è facile entrare o rientrare, come ci ricorda l’ esempio della milanese Sem (fondata da tre ex manager della Mondadori, ndr ) – conclude Peresson -. Non conosciamo però gli indici di mortalità delle aziende, perché non c’ è un meccanismo di cancellazione dall’ Isbn. Ma per far quadrare i numeri, alla fine, ciò che conta è avere un progetto. Perché la crisi ha fortificato e premiato chi è stato capace di farsi riconoscere».
Facebook e google troppo grandi per sopportarli?
L’Economia del Corriere della Sera
di Gustavo Ghidini e Daniele Manca
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Non si devono dormire sonni tranquilli a Seattle, Cupertino, Menlo Park e Mountain View. Il potere dei quattro dei big dell’ hi-tech Apple, Amazon, Facebook e Google, è evidente a chiunque. Ma mai come in queste settimane sembra stia montando da parte dei legislatori, come dei cittadini, una sorta di fastidio nei loro confronti. Multe pesanti in Europa, ingiunzioni da parte del Fisco per arretrati delle tasse, e generale insoddisfazione per il peso raggiunto nelle nostre vite, sono gli esempi più evidenti. Scott Galloway, docente di marketing alla New York University, dice senza mezzi termini che i quattro big andrebbero spezzettati, modello At&t nel 1982. Una mossa decisa dall’ Antitrust americana che resterà nella storia statunitense e di quella del capitalismo. Eh sì, perché così come nel 1982 si trattava di preservare il principio alla base del libero mercato, e cioè la possibilità di evitare posizioni dominanti che deprimessero la concorrenza, alla stessa maniera oggi si dovrebbe capire come meglio affrontare, nel diverso scenario «smaterializzato» del web globale, il potere raggiunto dai giganti del web. Per farlo, come ricordavamo nell’ articolo del 20 novembre su L’ Economia , non bastano pur utili «aggiustamenti», occorre ripensare in profondo il complesso dei fattori del «potere di mercato» contemporaneo. Un potere che dal mercato si proietta sulla società, incidendo su snodi essenziali della vita democratica, come la formazione dell’ opinione pubblica e non solo dei «consumatori». Galloway, oltre ad essere considerato uno tra i 50 migliori professori di Business in America, ha una radicata esperienza del mondo dell’ impresa. Ha fondato nove società, è stato in innumerevoli consigli d’ amministrazione a cominciare da quello del New York Times , ed è uno «Youtuber» affermato grazie alla sua rubrica settimanale Winner & Losers . Sul potere dei big dell’ hi-tech ha appena pubblicato un libro: «The Four, the Hidden Dna of Amazon, Apple, Facebook and Google», per la Penguin, che si può acquistare, ovviamente, su Amazon. Il potere delle quattro società è reso plasticamente dal fatto che nel giro di quattro anni sono passate ad avere un valore complessivo pari a quello del prodotto interno lordo russo e quest’ anno supereranno quello dell’ India. Per capirne l’ influenza più stretta sulla vita di ognuno di noi basti pensare che, in America, la scorsa primavera c’ erano più famiglie abbonate al servizio Prime di Amazon (52%) di quelle che andavano in Chiesa (51%) o di quelle che possedevano un’ arma (44%). È il risultato di un mercato che ha visto regolatori deboli e forse in ritardo come spesso accade, ma anche consumatori che si sono giovati di servizi a buon prezzo se non gratuiti. Effetti perversi del capitalismo? Come dice Galloway parafrasando Churchill sulla democrazia, «Il capitalismo è il peggiore dei sistemi economici eccetto per tutti gli altri che sono stati provati». Ma un capitalismo che è destinato a naufragare se rinunciasse ai principi base della difesa della concorrenza e del divieto di abuso di posizioni dominanti (compreso il rafforzamento di tali posizioni grazie ad abusi, come quelli sulla manipolazione dei dati di cui diremo tra un attimo). Probabilmente non basta, nell’ assetto giuridico dell’ economia di mercato, osservare il crescere del potere di alcune aziende per decretarne la «svestizione», nel lessico antitrust americano. È comunque evidente, però, l’ urgenza di identificare i criteri capaci di misurare effettivamente, a 360 gradi, il potere di mercato di questi come di altri colossi che verranno, e altresì di capire come e in quale direzione modificare le regole che garantiscono mercati competitivi. La recente vicenda dell’ asta alla quale Amazon ha chiamato le varie città americane, affinché si contendessero la seconda sede centrale del gruppo di Jeff Bezos, la dice lunga. Di fronte al fatto di poter ospitare 50 mila nuovi impiegati di Amazon, è partita la gara di chi offriva terreni gratis (la California) fino a una tassazione di favore (Chicago) che mette in crisi le stesse regole di una comunità allargata come quella degli Stati Uniti. È per questo che l’ individuazione dei criteri che rendono i big dell’ hi-tech potenti è molto più sottile di quanto una legge Antitrust americana vecchia di 150 anni e una europea (60 anni) di derivazione Usa possano fare. La ricerca di nuovi indici che possano aiutare nell’ individuazione del reale potere di mercato dei big dell’ hi-tech è forse lo scoglio maggiore. Steven Davidoff Solomon, professore a Berkeley, da tempo richiama l’ attenzione sullo strumento «lobbystico», che i web-oligarch usano (vedi da ultimo il pressing di Uber sul Senato messicano) per trasmettere i loro desiderata a parlamentari, governanti e legislatori (talora incoraggiati da generose «donazioni» ai partiti di riferimento). E ancora, sul controllo di mezzi di informazione: a parità di «quota» di mercato rilevante secondo gli indici tradizionali, il controllo di giornali e/o emittenti non dovrebbe essere percepito dal radar dell’ antitrust (Jeff Bezos ha rilevato il Washington Post permettendogli di sopravvivere)? Le partecipazioni in imprese e gruppi operanti in settori diversi, e relativi incroci di consigli di amministrazione, non dovrebbero essere opportunamente considerate come altri fattori di «evidenze circostanziali» di potere di mercato? Anche noi consumatori diamo (o finiamo per dare) un forte contributo alla creazione di posizioni dominanti di mercato delle imprese. Come nel caso della presunta gratuità di certe applicazioni, a fronte della quale si cedono informazioni costanti sui propri consumi; ma anche al carattere esperienziale dei servizi resi attraverso i nuovi media che necessitano, per il proprio sviluppo, del contributo del consumatore (mediante impacchettamento dei servizi e conseguente blocco). L’ assenza di transazioni economiche si coniuga evidentemente con la presenza di scambi di informazioni e di dati. In questa prospettiva, una questione cruciale (al di là di quella dell’ uso collusivo di tali scambi), si rivela la relazione tra i cosiddetti Big Data e la capacità di creare profili sempre più precisi degli utenti di una piattaforma. Si tratta di capire quanto questa capacità di Big Data contribuisca ad alimentare il potere di mercato di un’ impresa. E in base a che cosa misurare questa capacità? E come governarla nell’ interesse collettivo? In alcuni studi, come quello di Andrea Giannaccari in Mercato, concorrenza regole dell’ agosto 2017, si nota come la stessa definizione del concetto di Big Data non sia affatto semplice. Di Big Data si parla come una sorta di nuova moneta, come ha fatto anche Margaret Vestager nel suo celebre discorso del 2016 Competition in a big data world . Una condivisa qualificazione di essi viene ormai incentrata sulle cosidette «quattro V» : volume, velocità, varietà, valore. Ma non manca forse, all’ equazione, una « T» come trasparenza? Pensiamo soltanto per un momento quale dibattito si scatenerebbe se l’ enorme mole di dati che forniamo quotidianamente a Facebook, come a Google o Amazon, venisse immagazzinata da un organismo pubblico. Immediatamente si porrebbe un problema di penetrante controllo sulla raccolta e la gestione di quei dati. Si attiverebbe,in particolare, una pressante richiesta di trasparenza lungo tutta la filiera di utilizzo di quei dati: dall’ acquisizione all’ impasto (profilazione), e all’ uso dei dati e dei profili diretto o per cessione a terzi (quali? A che condizioni?). Richieste pressanti di trasparenza, dunque, nella logica sostanziale di un servizio pubblico universale: tanto più che, come accennato, «sulle piattaforme i dati sono oggetto di uno scambio economico, anche se il consumatore non ha consapevolezza al momento della cessione», come scrive Gabriella Muscolo in un libro in uscita intitolato proprio Informazione e Big Data tra innovazione e concorrenza . Quelle stesse esigenze sostanziali di servizio pubblico non possono essere disattese solo perché i gestori/controllori del traffico dei Big Data sono soggetti privati. Quale differenza può questo fare rispetto alla soddisfazione di interessi generali? La logica del servizio pubblico è «universale» rispetto non solo alla platea degli utenti, ma anche a quella dei fornitori. In questo senso – specie per la responsabilizzazione di tutte le imprese che trattano e gestiscono dati – suscita qualche speranza il regolamento europeo sulla data protection del 2016, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio. Speriamo regga alla prova di un’ attuazione non burocratica e farraginosa,che renderebbe impraticabili dal cittadino i diritti affermati sulla carta. Ma comunque, nemmeno questa misura è idonea a ricondurre a compatibilità concorrenziale il «potere di mercato» degli oligarchi della Rete. Il problema del controllo della loro «superdominanza» rimane dunque intero. E anzi, si è fatto più arduo. Avendo le grandi imprese modificato radicalmente i modelli di business e inventatone di nuovi, per la protezione della concorrenza diventa ancora più necessario aggiornare la cassetta degli attrezzi dell’ antitrust dotandola di nuovi strumenti come quelli che abbiamo descritti prima. Nemmeno Adam Smith pensava che il mercato medica se stesso. Quando il potere si fa gigantesco, chi lo detiene resiste a tutto, per dirla con Wilde, tranne che alla tentazione di abusarne. L’ aveva ben visto il geniale cinismo di Napoleone Bonaparte: «A che serve il potere se non se ne abusa?».
Papà disney arruolo Murdoch contro i big tech
L’Economia del Corriere della Sera
di Maria Teresa Cometto
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È la quinta volta che Bob Iger sposta in là la data del suo pensionamento. La prossima scadenza sarebbe non più il 2019, ma la fine del 2021, quando avrà 70 anni suonati. A chiedergli a gran voce di restare ancora a capo della Walt Disney Company – che lui guida già da 12 anni – sono i suoi azionisti. Fra i quali ora c’ è Rupert Murdoch con la sua famiglia, che la settimana scorsa ha accettato di vendergli per 60 miliardi di dollari il grosso delle attività di 21st Century Fox, fra cui gli studios televisivi e cinematografici, le tv via cavo FX e «National Geographic», una serie di canali regionali sportivi americani, il 39% della pay tv europea Sky e la tv Star India. L’ operazione comporta uno scambio di azioni per cui alla fine, secondo le stime dell’ agenzia finanziaria B loomberg , i Murdoch diventeranno proprietari del 5% di Disney. E si capisce l’ entusiasmo dei soci per Iger: da quando, nell’ ottobre 2005, lui è diventato ceo, le quotazioni a Wall Street del «regno magico» di Topolino sono cresciute del 350%, quasi il triplo della media della Borsa (indice S&P500) e della stessa Fox. La speranza degli investitori è che con Iger la Disney, arricchita dei contenuti di Fox, continui ad essere la società più profittevole al mondo nel business dei media e dell’ intrattenimento, riuscendo a risolvere i problemi «epocali» che ha di fronte: la crescente concorrenza non più dai rivali tradizionali – come Comcast, il gruppo che comprende la rete tv Nbc e gli studios Universal e DreamWorks -, ma dai giganti high-tech come Neflix e Amazon, che producono anche contenuti originali e li distribuiscono in streaming e come Google (YouTube) e Facebook, che incassano la grande maggioranza degli introiti pubblicitari digitali. Da tempo Iger ha ben presente il problema. A soffrirne di più infatti sono le reti tv di Disney – Abc ed Esp – che storicamente hanno generato la maggioranza del fatturato e dei profitti del gruppo, ma stanno perdendo quota: nel 2012 avevano prodotto due terzi dei profitti operativi, ora sono scese a meno del 47%. La causa: il fenomeno del cord cutting , il taglio del cavo, cioè la disdetta dell’ abbonamento alla tv, praticata da sempre più spettatori, soprattutto giovani, che preferiscono guardare film, telefim e altri show offerti in streaming da Neflix & co. «Lo scopo di questa operazione – ha spiegato Iger a proposito dell’ acquisto di Fox – è creare prodotti di qualità superiore per i consumatori di tutto il mondo e distribuirli in modi molto più innovativi ed efficaci». Nei suoi programmi c’ era già il lancio, l’ anno prossimo, di Espn plus, un servizio in streaming di programmi sportivi e quello di un servizio in streaming di contenuti per le famiglie nel 2019, quando scade l’ accordo per la loro distribuzione con Netflix. Con Fox Iger conquista anche il controllo di Hulu, un altro servizio Usa di video in streaming: secondo alcuni analisti potrebbe pensare di trasformare la stessa Sky in una «Hulu europea». La passione per la tv e lo show business, ma anche per l’ innovazione tecnologica, una lunga esperienza e una grande dedizione al lavoro: sono le qualità di Iger che possono aiutarlo a farcela. Dei suoi 66 anni, ben 43 li ha spesi in questo mondo. Da ragazzo sognava di diventare un giornalista tv. Per questo aveva scelto di studiare all’ Ithaca college – non lontano dalla sua città natale, New York -, la cui scuola di comunicazione è considerata al top per chi è interessato ai media e all’ entertainment. Da studente aveva debuttato sul piccolo schermo come conduttore di «Campus probe», uno show televisivo della sua università. Laureato nel 1973, l’ anno dopo è entrato nella rete tv Abc dove ha cominciato invece la sua carriera manageriale fino a diventare responsabile operativo della società che controllava la tv e che sarebbe stata comprata da Disney nel ’96. La sua scalata ai vertici è continuata fino a diventare nel 2000 responsabile operativo di tutta Disney, il numero due sotto il ceo e presidente Michael Eisner. E l’ ultimo salto, la nomina ad amministratore delegato, l’ ha fatto con l’ appoggio di Roy Disney, il nipote del fondatore Walt Disney, che aveva guidato una campagna contro Eisner criticando fra l’ altro la sua cattiva gestione dei rapporti con lo studio di animazione Pixar e con il suo padrone Steve Jobs. Una delle prime mosse di Iger come ceo era stata proprio ricucire i rapporti con Jobs: aveva capito che Pixar sarebbe stata una componente chiave della rivitalizzazione dei cartoni animati di Disney e Apple un partner importante per affermarsi nel nuovo mondo digitale. Così nell’ ottobre 2005 Disney fu la prima società a mettere le sue produzioni tv su iTunes, fruibili sull’ iPod e poi è stata fra le prime a sviluppare applicazioni per l’ iPhone e l’ iPad. L’ innovazione tecnologica è stata da subito uno dei tre punti del programma di Iger, insieme al rilancio dei contenuti creativi e all’ espansione internazionale del gruppo. E infatti Disney è la società dove contenuti e high-tech si sposano meglio, secondo il parere di protagonisti della Silicon valley come Sheryl Sandberg, la chief operating officer di Facebook e Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter, entrambi membri del suo consiglio di amministrazione. Lo stesso Iger a sua volta è consigliere di Apple e si occupa in prima persona della parte tecnologica di Disney. Per arricchire i contenuti, prima di Fox Iger ha speso oltre 15 miliardi di dollari per comprare la stessa Pixar (2006), Marvel (2009) e Lucasfilm (2012), conquistando serie di film – come «Guerre stellari» – che garantiscono non solo ricchi incassi al botteghino ma generano anche attrazioni nei parchi Disneyland e merchandising. Per l’ espansione globale è stato importante acquisire Sky in Europa, Star in India e i canali internazionali di Fox attivi dall’ America latina all’ Africa. Topolino parla quindi sempre meno americano e sempre più le lingue di tutto il mondo. La sfida di Iger è mantenerlo anche ultra redditizio.
Viva l’ Ing. giornalisticamente scorretto
Il Fatto Quotidiano
Antonio Padellaro
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Una semplice domanda: a 84 anni, dopo aver costruito un impero finanziario e creato le basi di un impero editoriale (che a loro volta hanno portato ricchezza e prestigio alla tua famiglia) sarà permesso esprimere liberamente una propria opinione? Senza che tuo figlio, e la società che hai generato, ti scrivano contro in un gelido comunicato che una tua intervista “non rappresenta il pensiero degli azionisti né del vertice societario”? Non intendiamo qui entrare nelle dinamiche interne che hanno indotto Marco De Benedetti presidente del gruppo Gedi, editore di Repubblica , a censurare l’ intervista al Corriere della Sera del padre, Carlo De Benedetti. Là dove (oltre a dissentire orrore! sull’ istituto della condirezione), egli polemizzava con un’ altra vecchia colonna, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, a proposito di un’ altra assai controversa e libera opinione (“tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo”). C’ interessa invece condividere il diritto alla schiettezza di un personaggio che non è certo l’ Arcangelo Gabriele ma che non è mai stato un tartufo, nel senso di chi pratica l’ ipocrisia sotto la maschera della devozione al politicamente corretto per non sbagliare mai. A costo di sbagliare e di sbagliarsi l’ Ingegnere nei suoi interventi pubblici cerca invece di non essere mai banale o scontato, alla luce di quella grammatica giornalistica che, riteniamo, egli pratichi più da lettore che da editore. Quella regola, ha detto ad Aldo Cazzullo nelle dichiarazioni fuori linea, secondo la quale: “Un giornale non è solo latte e miele; è carne e sangue. Può avere curve deve avere anche spigoli”. Sacrosanto aggiungiamo noi a cui piacciono da morire le pagine stampate fatte di carne e di sangue. Giornali provvisti di spigoli con cui spesso ci facciamo male. E che mai scambieremmo con le delizie latte e miele che abbiamo smesso di pretendere in età adulta. Viva dunque tutti coloro che “rappresentano” solo il loro libero pensiero, senza preoccuparsi se non coincide con quello di figli e azionisti e lettori. Lo scriviamo anche in ricordo di Claudio Rinaldi, grande direttore e grande uomo che dell’ Ingegnere aveva una profonda, divertita ammirazione.
«La nostra televisione conquista il mondo»
Il Messaggero
MARIA ELENA BARNABI
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l’ INTERVISTA Laura Carafoli ha 48 anni anni, bei capelli («sono fortunata: non ne ho uno bianco»), e tante cose da dire, che dice veloce veloce gesticolando molto. Il suo viso, invece, dice poco, ma sul suo biglietto da visita c’ è scritto: Chief Content Officer Discovery Networks Southern Europe – Italia, Spagna, Portogallo e Francia. Che poi vuol dire essere la responsabile dei contenuti di tutti i canali di Discovery (con 7 canali free, 7 pay, 2 servizi on demand, è ormai il terzo editore nazionale con un 7,2 per cento di ascolto medio) ed è conosciuta come nostra signora della factual tv. Avete presente il lancio di Real Time nel 2010 con tutte i programmi su sepolti in casa, malati imbarazzanti, boss delle cerimonie e compagnia bella? Ecco, dietro c’ è lei (e tutto il suo team). E sempre lei c’ è dietro al lancio di Nove, il canale generalista di Discovery, che in un anno ha fatto registrare più 40 per cento. Da Novara con furore, Carafoli ha una laurea in filosofia ed è sposata con Paolo, architetto-pallanuotista conosciuto all’ università. Senza figli, ha tre nipoti di 18, 16 e 13 anni, che segue sui social. Cresciuta in una tv locale, figlia di un pubblicitario, ha lavorato in Rai con Freccero, in Fox – dove ha lanciato Fox Crime – e poi a Discovery dal 2009. È nella sede milanese di Discovery Italia – 300 dipendenti, di cui la metà donne e il 40 per cento millennials – che la incontriamo. I suoi uffici sono pieni di ragazze, è una donna anche il suo presidente, Marinella Soldi, ma sul Nove, che è la vostra grande sfida come canale generalista, le vere star sono tutti maschi: Crozza, Cannavacciuolo, Saviano, Gomez «È vero. Ma tenga conto che Real Time è pieno di star donne, da sempre. Comunque ci stiamo pensando». Avete nuovi contratti in ballo? «Non posso dire niente. Per ora solo i nomi delle persone con le quali mi piacerebbe lavorare». Prego. «Virginia Raffaele: è brava e il suo nome reggerebbe sicuramente quello di Crozza. E poi Sabrina Ferilli: la conosco, la corteggio. Potrebbe fare qualsiasi cosa, ha una capacità di racconto della realtà molto profonda, potrebbe avere una chiave originale». E quindi? «Vedremo. Chi lo sa?». Un’ imprendibile? «Maria de Filippi, lunica grande star della tv italiana. Una divinità». Addirittura? «Quando l’ ho conosciuta, ho sentito fortissimo il suo carisma. Mi sono detta: Se lo merita tutto il suo successo. Noi già ci lavoriamo perché Real Time ha i casting e in futuro la striscia quotidiana di Amici, un programma che guardo da 12 anni e che non mi annoia mai». Cos’ altro guarda in tv? «Tutte le prime puntate di qualcosa. Mio marito adora L’ eredità: azzecca tutte le risposte della ghigliottina, io manco una. Lo guardiamo insieme, è uno dei nostri riti. Poi mi piacciono i film, il basket lo guardo sul nostro Eurosport Player. Le serie tv le vedo in modalità binge watching, cioè mi metto lì e mi sparo tutte le puntate, perché non ho tempo di aspettare». Guarda la tv on demand dei concorrenti? «Certo. Lo scorso weekend io e mio marito siamo riusciti a far arrivare un wi-fi decente in tutta la casa e abbiamo visto Alias Grace, una storia vera di una serva che ammazza il padrone, va in carcere e viene psicanalizzata. Inutile nascondersi: oggi da una parte c’ è l’ intrattenimento tradizionale che parla alla pancia delle persone, tipo Grande Fratello che fa il 26 per cento di ascolto. E poi c’ è quello superverticale dell’ on demand». Quanto durerà l’ intrattenimento tradizionale, come lo chiama lei? «Minimo per altri dieci anni, anche quindici. Ma prima o poi finirà, come probabilmente finiranno i giornali di carta. La cosa positiva per noi che lavoriamo in questo ambiente è che il mercato si è evoluto e allargato: tra grandi, medi e piccoli produttori, oggi c’ è lavoro per tantissime persone». In futuro niente più palinsesto ? «L’ appuntamento settimanale rimarrà, magari di approfondimento, ma non possiamo nasconderci: i settantenni del futuro siamo noi, che a 40-50 anni siamo sempre con il cellulare in mano. Io ultimamente sono pazza delle Instagram Stories, i filmati che durano 24 ore. Seguo le mie nipoti, i loro cantanti preferiti, da Ghali a Dark Polo Gang, ma anche le celebrities, le modelle, Fedez e Ferragni. Adoro Miley Cyrus, geniale» Non ha mai pensato di tradurre questi filmati in tv? «Non riesco a trovare il modo, ed è frustrante. Ma le Stories in fondo stanno bene dove sono, su Instagram. Figurarsi se i ragazzi le vogliono vedere con il telecomando in mano, quando le hanno già sul cellulare. Ma comunque tutti dobbiamo stare al passo. E infatti a dicembre il sito di Real Time diventerà una piattaforma di contenuti social molto vicina alle millennials». La cosa che più la inorgoglise della sua carriera? «L’ essere riuscita a fare quello che volevo: pensare la televisione. Io vengo dalla provinciale Novara, e questo dà una marcia in più: non ti fa mai dimenticare il Paese reale, e ti dà voglia di arrivare. E poi il fatto che il mio team sia considerato a livello internazionale fra i più creativi di Discovery: abbiamo fatto programmi come Undressed esportati in tutto il mondo. E da un’ idea presa dalla serie Le regole del delitto perfetto abbiamo cucito su Roberto Saviano Kings of Crime: il decreto Franceschini dovrebbe considerare anche questi programmi produzioni italiane. Ma soprattutto mi fa piacere essere l’ orgoglio delle mie nipoti. Essere brava ai loro occhi è molto di più che essere apprezzata da un marito, un amante, o un collega». Il tema della solidarietà tra donne è importante in questi giorni in cui si parla di molestie. Lei ne ha mai subite? «Sul lavoro mai. Ma da ragazzina a Novara, un domenica pomeriggio un ragazzo si fermò in auto a chiedermi informazioni, e quasi mi trascinò dentro. Riuscii a divincolarmi, piansi per due giorni, e da allora non andai più in giro da sola la domenica pomeriggio». Come si vede tra dieci anni? «Libera dall’ inferno quotidiano delle 9.50 con i dati auditel. Chi fa il mio lavoro non ha sabato né domeniche, non ha orari: in qualsiasi parte del mondo ti trovi, ti svegli alle dieci ora italiana e ti colleghi per vedere come sono andati i tuoi canali. Avendone 14, è raro che vadano bene tutti insieme. Il venerdì sera, però, abbiamo Fratelli di Crozza sul Nove, quindi la mattina dopo è di zucchero. Ma in futuro mi vedo a fare altro». Che cosa? «Bella domanda. Non lo so». Maria Elena Barnabi © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Il gruppo ha tre miliardi di telespettatori nel mondo e nel nostro Paese con 7 canali free è il terzo editore
Il Messaggero
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IL NETWORK Conosciuto nel mondo come leader della factual tv (quella che racconta la realtà a 360 gradi) con i suoi 3 miliardi di telespettatori dichiarati, il gruppo Discovery è stato fondato da John Hendricks, ma è controllato attraverso la Liberty Media dal tycoon multimilionario americano John C. Malone, secondo Forbes al 174esimo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo (padrone anche della Formula 1 e della squadra di baseball Atlanta Braves). Classe 1941, studi a Yale, è conosciuto con il soprannome di Cable Cowboy e di Darth Vader (affibbiatogli da Al Gore) per via delle sue operazioni con la tv via cavo negli anni 70 e 80. Filantropo, amante delle vacanze in camper, Malone è sostenitore delle politiche su tasse e immigrazione di Donald Trump e nemico giurato di Rupert Murdoch, con il quale ha ingaggiato ben più di una battaglia. In Italia il gruppo Discovery è presente da due decenni, e ad oggi è il terzo editore televisivo nazionale, con circa il 7% di share e 14 canali, 7 free e 7 pay, più l’ on demand. I canali free sono Nove, Real Time, DMAX, Giallo, Focus, K2 e Frisbee, mentre tra quelli pay ricordiamo Discovery Channel e Animal Planet che vanno su Sky, e Eurosport 1 e 2 che vanno su Mediaset e Sky. Nel 2015 il gruppo Discovery aveva acquistato i diritti per la trasmissione in Europa delle Olimpiadi per di 1,3 miliardi di dollari, ma recentemente è stato raggiunto un accordo con la Rai che trasmetterà 100 ore, mentre Eurosport trasmetterà l’ intero evento. La sede italiana di Discovery è anche il quartier generale della Regione Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo e Francia) ed è in capo alla manager italiana Marinella Soldi, che recentemente è stata nominata anche Chief Strategy Officer della Regione EMEA (Europa Medio Oriente e Africa). M. E. B. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Fake news, cresce l’ allarme Beffato un italiano su due
La Repubblica
ILVO DIAMANTI,
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segue dalla prima pagina ROMA Per prima la Russia. Tuttavia non avrebbero potuto condizionare gli orientamenti della società se non si fosse verificata, in pochi anni, una vera rivoluzione nelle pratiche e nei sistemi di informazione e di formazione dell’ Opinione pubblica. Infatti, per informarsi, dieci anni fa, il 30% degli italiani ( intervistati) utilizzava, ogni giorno, i quotidiani cartacei. Il 25% consultava internet. Oggi il rapporto si è rovesciato. In misura molto marcata. Il 63% si informa attraverso internet. Sempre più, anzi, soprattutto, attraverso lo smartphone. Il 58% di essi: è sempre connesso. Con il telefonino fra le mani. Dovunque. Solo il 17%, invece, si informa attraverso i giornali ” di carta”. Questo ” rovesciamento”, in effetti, si è consumato in un periodo molto breve. In particolare: negli ultimi anni. Il ricorso a internet, nel biennio 2014- 15, era già salito quasi al 50%. Pressoché il doppio rispetto ai quotidiani di carta, nel frattempo scesi al 24- 26%. Ma negli ultimi due anni il distacco si è accentuato ulteriormente. E oggi, nel 2017, è divenuto quasi un abisso: 63% su internet, 17% su carta. I giornali, cioè, continuano ad essere consultati. Ma in tempo reale, su internet. Gli altri media hanno tenuto le loro posizioni. La televisione: davanti a tutti gli altri. Consultata quotidianamente da oltre 8 italiani su 10. E quindi sempre importante, per ( in) formare l’ opinione pubblica. Poi la radio. Il medium che continua ad essere considerato più affidabile. Ma la rete ha occupato spazi sempre più ampi. In settori di popolazione sempre più estesi e trasversali. Fra i giovani e non solo. Utilizzando il traino dei Social Media. Destinati a divenire presto il crocevia di ogni comunicazione e di ogni informazione. ( Lo documenta, in modo efficace, un recente studio di Vittorio Meloni, pubblicato da Laterza: ” Il crepuscolo dei Media”). Così, le informazioni tendono a diffondersi e a venire diffuse in modo rapido. Anzi: im- mediato. Scavalcando mediazioni e media. Ma, di conseguenza, anche i controlli. Che vengono affidati agli stessi canali. La rete e social- media. Tutti, cioè, possono controllare tutti. E tutti, al tempo stesso, possono entrare nella rete. Introducendo e diffondendo informazioni. Immediate. Difficili da controllare. Anche perché, in rete, talora, anzi, spesso, la news, la novità, ha valore in sé. La verifica: verrà dopo. Perché domani è un altro giorno. Si vedrà. Così, oggi, metà degli italiani ammette di aver creduto ” vera” una notizia letta su internet, che poi si è rivelata ” falsa”. Ma solo il 22% afferma di non essere mai stato ” ingannato”. In particolare: coloro che in rete ci vanno in modo saltuario. E, per questo, sono meno esposti ai messaggi che vi circolano. Tuttavia, internet non è solo il luogo dell’ inganno, ma, per sua natura, anche della de- mistificazione. Dell’ auto- controllo. D’ altra parte, un italiano su tre ( 34%) considera Internet il canale dove l’ informazione circola ” più libera e indipendente”. Il 44% dichiara di avere fiducia, nella rete. Un dato in crescita di 7 punti, negli ultimi due anni, dopo un periodo di declino, successivo al 2013. Probabilmente dettato da giudizi e pregiudizi politici. Visto il collegamento immediato con il risultato del M5s alle elezioni politiche di quell’ anno. Gli elettori dei 5s, peraltro, sono fra quelli che ammettono, in maggior misura, di aver creduto nelle ” False notizie” che circolano in rete. Rilanciandole, a loro volta. Lo stesso si osserva tra i più giovani. Perché la confidenza con internet espone alle fake news. Ma, al tempo stesso, fornisce strumenti e competenze per farvi fronte. Prima degli altri. Così, se circa metà degli italiani sostiene di essere caduto nella trappola, per la precisione, nella ” rete” delle fake news, quasi altrettanti riconoscono di averle riconosciute – e demistificate – con lo stesso – e ” nello” stesso – mezzo. Cioè, in rete. Su internet. Il rischio maggiore, per questo, è che le voci infondate si riproducano con ” altri media”. In particolare, la tivù. Il cui pubblico ” esclusivo” è anche il meno attrezzato a riconoscerle. Comunque, a esercitare la ” sfiducia preventiva”. Per questo motivo, mentre ci avviciniamo alla campagna elettorale, e anzi ci siamo già entrati, è meglio ” diffidare”. Valutando con attenzione, quel che passa sulla rete. Ma anche in tv e sui media ” tradizionali”. I quali, tradizionalmente, rilanciano – e amplificano – i messaggi che promettono più audience. Falsi o veri, si vedrà. Più avanti. Al tempo stesso, a maggior ragione, c’ è bisogno di Osservatori che vigilino non solo sulla ” Par condicio”, ma sulla ” verità” delle news. Per evitare, oggi più che mai, di entrare in un clima d’ opinione e, dunque, in un clima elettorale, inquinato. Da false notizie, falsi sondaggi, false rappresentazioni. Fino a produrre una fake campaign © RIPRODUZIONE RISERVATA.
“Software e web salvano l’ editoria specializzata” Il settore vale 550 milioni
La Stampa
CHIARA MERICO
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Passa dall’ innovazione il futuro dell’ editoria professionale in Italia: secondo una recente ricerca realizzata da Cerved e Databank, il digitale è la chiave per lo sviluppo di un settore che lo scorso anno nel nostro Paese ha realizzato un giro d’ affari di 550 milioni di euro. Si tratta di un mercato molto concentrato, in cui i primi quattro operatori detengono quasi il 60% delle quote. Al terzo posto si colloca la storica casa editrice Giuffrè, specializzata nelle aree giuridica e fiscale, che da sole coprono il 75% del totale del settore. E mentre tutti i supporti tradizionali e i contenuti offline stanno registrando un andamento negativo, le banche dati online, i servizi internet e i prodotti digitali sono cresciuti nel 2016 del 7,5% e ora rappresentano circa il 35% del mercato. «Il futuro dell’ editoria professionale è sempre più legato alla capacità di offrire strumenti di informazione e di lavoro innovativi, in grado di integrare i supporti tradizionali con la capacità di archiviazione e di ricerca, e con l’ interattività degli strumenti digitali», commenta Antonio Giuffrè, dal 2005 al timone dell’ omonima casa editrice. Giuffrè è editore di 17 portali tematici che trattano di fisco, diritto e lavoro, come IlFamiliarista.it, IlPenalista.it e Fiscopiù.it; la famiglia di software Cliens consente agli avvocati di accedere alla banca dati DeJure, che permette di consultare gli estremi di legge e le sentenze. «Già a inizio anni ’80 – sottolinea Giuffrè – avevamo realizzato la prima banca dati su cd rom e oggi contiamo su un’ offerta molto ampia, per permettere agli avvocati e ai professionisti fiscali e contabili di fare ricerche accurate e aggiornate e di poter gestire le loro pratiche in modo facile e veloce». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
La carta stampata si vende sul web facendo leva su prezzi bassi e servizi
Affari & Finanza
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NEGLI USA IL MERCATO HA FATTO BOOM, PIÙ LENTO IN ITALIA. IL CASO DI PRINTERED CHE SI RIVOLGE A PMI, AGENZIE DI COMUNICAZIONE, RIVENDITORI DI ARTI GRAFICHE E SINGOLI Milano «N egli Stati Uniti il 50 per cento dei prodotti di carta si acquistano già oggi online. In Italia siamo al 10 per cento ma registriamo una crescita costante e le potenzialità offerte dal settore sono enormi ». Gianpiero Colonna è il responsabile marketing e comunicazione di Printered. Una start up con sede a Matera, in Basilicata, che ambisce a crescere offrendo un servizio efficiente attraverso il suo portale, nella convinzione che il mercato della carta stampata e della grafica siano cambiati in modo radicale in questi anni e si debba rispondere alle nuove esigenze del consumatore. Nata lo scorso luglio, Printered, ha un obiettivo ambizioso. «Nei prossimi anni vorremmo diventare uno dei cinque principali portali nazionali per il prodotto stampato », racconta Colonna. La start up si rivolge in modo particolare alle piccole e medie imprese, alle agenzie di comunicazione, agli stessi tipografi, ai rivenditori di arti grafiche, ma anche ai singoli clienti: «Già oggi la maggior parte del nostro business arriva dal mondo delle imprese». Il portale punta soprattutto sul servizio di assistenza continuo e poi sui prezzi competitivi. «Su qualche articolo, – afferma Colonna – grazie alla nostra organizzazione, siamo anche in grado di far pagare un 10 per cento in meno rispetto alla spesa media di mercato». La spedizione è offerta in modo gratuito. Così anche, lo storage online, grazie al quale ogni cliente ha uno spazio cloud dedicato all’ archiviazione dei suoi file, utile quando serve rimandare in stampa un documento su cui si è già lavorato. Sempre gratuita anche la verifica dei file di stampa da parte di un operatore esperto, in aggiunta a un controllo automatizzato che non sempre basta a stare tranquilli. «Se ci rendiamo conto, per esempio, che una certa foto, se stampata, uscirebbe sgranata, avvisiamo il proprietario del documento». Sulla strada di Printered da diversi anni si stanno muovendo tutte quelle realtà del settore dello stampato che, secondo dati Confartigianato del 2016, conta in Italia circa 18mila operatori tra tipografie, editori di riviste, di libri, aziende specializzate nella stampa serigrafica, che effettuano stampa digitale, imprese con attività focalizzata sulla stampa editoriale, legatorie. Soprattutto le tipografie tradizionali hanno dovuto affrontare non solo un cambio culturale, ma anche di struttura organizzativa, attuando un rinnovo delle professionalità. Anche in questo mondo di carta si cercano sempre più spesso figure legate alle nuove tecnologie. Tra il 2012 e il 2015, secondo una ricerca Censis, più della metà delle imprese grafiche (quasi il 55 per cento) ha sostituito vecchie professionalità con quelle nuove o ha aggiornato le competenze presenti in azienda nella sfera commerciale, in quella del marketing, della produzione e della ricerca e sviluppo. La digitalizzazione è un fattore sul quale concentrarsi proprio grazie a percorsi formativi mirati, in cui sono coinvolte un’ impresa su tre (il 29 per cento). Ogni realtà ha poi il suo approccio al mondo del digitale. Quello di Printered ricalca la visione degli artwork realizzati dal grafico e calligrafo Luca Barcellona che utilizzando i social media e gli strumenti del digitale, già da tempo raccoglie consensi portando la manualità di un’ arte antica, come la bella scrittura. Lui è diventato un po’ il testimonial di Printered, che vuole mantenere un approccio artigianale, fatto di qualità e relazione, ma senza rinunciare alla rapidità offerta dal mondo del web. (st.a.) © RIPRODUZIONE RISERVATA Negli Stati Uniti hanno fatto boom i servizi online di vendita e realizzazione di carta stampata e grafica. Il fenomeno è in crescita in Italia grazie anche alle startup.