Indice Articoli
Un magistrato e un editore: associazione per i giovani del centro antico
«Detassare la beneficenza per rilanciare il Terzo settore»
Google e Facebook sono troppo grandi?
Fusione Disney-Fox. A noi non resta che “Don Matteo”
Il flirt di Giggino con i grandi giornali: «Vuole usarli per arrivare al potere»
La direttiva Ue sul copyright si ispira all’ Italia
Io e Gomorra rivoluzione criminale
Un magistrato e un editore: associazione per i giovani del centro antico
Corriere del Mezzogiorno
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Nasce a Napoli, a Palazzo Marigliano, l’ Associazione Arti e Mestieri, nel cuore del centro storico, l’ Associazione Arti e Mestieri. Promossa dall’ imprenditore Rosario Bianco, patron di Rogiosi editore, e dal magistrato Catello Maresca, sostituto Procuratore della Repubblica Gruppo Antiterrorismo e Reati contro la Pubblica Amministrazione. Il nuovo organismo propone un progetto di educazione sostenibile e solidale, che si impegni nella valorizzazione delle risorse locali, culturali, artistiche e umane. Nella sede di Palazzo Marigliano, scelta non a caso nel cuore pulsante della città – a pochi metri da via San Gregorio Armeno, la strada dei presepi e dell’ arte partenopea per eccellenza, quella presepiale – , l’ Associazione Arti e Mestieri si muoverà in due direttrici principali: il recupero delle tradizioni manifatturiere partenopee e la formazione e avviamento al lavoro di giovani provenienti da realtà difficili e disagiate. I ragazzi potranno imparare un mestiere, o avviarsi a una forma artistica, scegliendo tra proposte variegate il percorso da seguire. L’ Associazione Arti e Mestieri verrà presentata al pubblico domani alle 18 a palazzo Marigliano Nell’ occasione verrà inaugurata la Mostra «Antichi Mestieri», allestita presso le sale della sede, che espone le preziose riproduzioni degli Antichi mestieri della collezione Bianco – Rogiosi editore, opere del maestro Marco Abbamondi. Oggi i fondatori dell’ Associazione Arti e Mestieri, Rosario Bianco e Catello Maresca, si recano a Lacco Ameno, sull’ isola d’ Ischia, per incontrare le famiglie dei terremotati, alle quali verranno donati in segno di speranza, in sintonia con il messaggio di positività e fiducia trasmesso dal Natale imminente, delle sculture raffiguranti la Natività.
«Detassare la beneficenza per rilanciare il Terzo settore»
Corriere della Sera
Paolo Foschini
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MILANO Detassare senza limiti la beneficenza. L’ editore del Corriere della Sera , Urbano Cairo, l’ ha rivendicata come una «tra le battaglie a cui il Corriere crede fortemente» e come presidente di Rcs Mediagroup l’ ha rilanciata ieri – 59° Giornata nazionale del cieco – nel ricevere la Medaglia d’ oro con cui l’ Istituto dei ciechi di Milano lo ha premiato per Buone notizie , il settimanale che da settembre viene distribuito gratuitamente ogni martedì con il quotidiano per raccontare le «cose che funzionano»: in particolare ma non solo, come ha sottolineato Cairo, sul fronte del Terzo settore. A consegnargli il riconoscimento è stato il presidente dell’ Istituto milanese, Rodolfo Masto, che in una mattinata dedicata anche alla memoria delle importanti conquiste dell’ Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti si è soffermato su «quello che a mio avviso – ha detto – deve essere il nostro prossimo obiettivo, intendo nostro come Unione dei ciechi ma più in generale del mondo che chiamiamo Terzo settore: la defiscalizzazione di quello che riceviamo rispetto al servizio che offriamo». E ha chiesto: «È giusto che l’ Istituto dei ciechi paghi un milione all’ anno di tasse a fronte di tutto quello che fa?». Proprio la detraibilità della beneficenza è l’ argomento a cui Buone notizie ha dedicato l’ inchiesta dell’ ultimo numero. E Urbano Cairo lo ha ripreso dicendo che «sarebbe veramente molto importante, ed è una battaglia che il Corriere sta facendo, che anche in Italia come accade in altri Paesi del mondo la beneficenza non fosse tassata e che si potesse detrarre senza limiti, perché tutto questo porterebbe sicuramente molta gente a farne di più verso coloro i quali, come diceva Rodolfo, svolgono servizi che senza questi enti graverebbero sulla collettività». Intanto a Verona anche l’ Unione cattolica stampa italiana ha assegnato al Corriere per il settimanale Buone Notizie il Premio speciale della Conferenza episcopale del Triveneto «Giornalisti e società. La professione giornalistica al servizio dell’ uomo». Con la seguente motivazione: «Il primo quotidiano italiano riconosce che il bene fa notizia e merita di essere raccontato perché la virtù è assai più contagiosa del vizio».
Google e Facebook sono troppo grandi?
Corriere della Sera
Giuditta Marvelli
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E se, nel futuro di Google, Facebook, Amazon & ci fosse uno spezzatino? La metafora culinaria accenna al fatto che per ricondurre a dimensioni accettabili l’ enorme potere accumulato dai nuovi monopolisti digitali, una strada potrebbe essere quella percorsa dagli Stati Uniti nel 1982, quando il gigante telefonico At&t venne «smembrato» dall’ Antitrust. Altri tempi, altre prove di forza. Ma i problemi, a quanto pare, tornano a riproporsi molto simili. Ne ragiona «L’ Economia», in edicola domani con il Corriere della Sera . «Nel 1982 si trattava di preservare il principio alla base del libero mercato, e cioè la possibilità di evitare posizioni dominanti, alla stessa maniera oggi si dovrebbe capire come meglio affrontare il potere raggiunto dai giganti del web», dice la lunga analisi che apre le 56 pagine del numero. Dalla spinosa vicenda delle tasse non pagate fino alle proteste per l’ eccessiva disinvoltura con cui si trattano i nostri dati – anche se in molti casi ci hanno semplificato parecchio la vita -, i segnali che l’ era dei big data richieda una svolta, anche politica e legislativa, ci sono tutti. Come andrà a finire? «L’ Economia» prova a disegnare gli scenari e a fare l’ appello delle idee in campo. La copertina del settimanale è dedicata a Chiara Ferragni, l’ influencer da 11,2 milioni di «seguaci» su Instagram, che per la prima volta concede una lunga intervista sui suoi progetti imprenditoriali. Una donna da 30 milioni di fatturato, che racconta come il blog da cui dava consigli di moda si sia trasformato in un gruppo articolato di cui è presidente e amministratore delegato. «Il core business è la talent agency che rappresenta me e mia sorella Valentina – dice Ferragni – assorbe il 40% dei costi e porta il 90% dei ricavi». E ancora: pubblico, privato, esportazioni sono le tre facce dell’ Italia che ci definiscono e rappresentano il nostro punto di forza e il nostro limite. Tra le storie aziendali c’ è il rilancio di Avio, i programmi italiani della nuvola di Microsoft, le partite aperte di Fininvest e la sfida dei piccoli editori indipendenti che hanno fatto grandi (relativamente) numeri. Mentre tra i personaggi brilla la sfida natalizia tra i due big boss di Lego e Sony. Due multinazionali che sono arrivate sull’ orlo del fallimento e poi si sono reinventate. Poi c’ è il ritratto di Bob Iger, il papà Disney 4.0 che comprerà un pezzo dell’ impero di Murdoch per fronteggiare Netflix. Infine il risparmio. Un regalo finanziario da mettere sotto l’ albero in tre idee. Come costruire un tesoretto, una pensione integrativa o un progetto per pagare gli studi. I conti e le indicazioni per utilizzare gli strumenti più adatti. Il barile a 66 dollari non si vedeva dal giugno 2015: farà riaccendere un faro sui titoli di Piazza Affari legati all’ energia? Il freddo, la ripresa e l’ incidente in Austria spingono in questa direzione. Se è vero le azioni del petrolio torneranno alla ribalta.
Fusione Disney-Fox. A noi non resta che “Don Matteo”
Il Fatto Quotidiano
Roberto Faenza
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Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur. Ricordate il grido di dolore del cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo per l’ assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa? Lo stesso potremmo dire oggi: mentre i francesi di Vivendi litigano con gli italiani di Mediaset, il mondo della comunicazione viene espugnato. È successo che due giganti, Disney e Fox, si sono fusi per dominare il pianeta. La Fox dello squalo Rupert Murdoch conquista lo scettro di primo azionista della Disney, scalzando Laurene Powell, la vedova di Steve Jobs. La fusione manda in soffitta le ambizioni di chiunque altro voglia vendere news, sport e soprattutto cinema e fiction. I nostri media hanno dato il giusto peso alla notizia, ma temo non si siano resi conto di cosa significherà per gli spettatori italiani. Rai e Mediaset possono cominciare a tremare: se non si trasformeranno radicalmente la loro estinzione è prossima. Forse ha ragione il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, quando afferma che per salvare la Rai andrebbe messa sul mercato, cioè privatizzata. Mediaset lo è già, ma non sarà l’ eventuale pacificazione con i francesi del mini-squalo bretone Vincent Bollorè a metterla al riparo dall’ assalto dell’ accoppiata Disney-Fox. La prima conquisterà il podio nella produzione di film ultraspettacolari, mentre la seconda con Sky fagociterà il resto, dalle news alle altre forme di intrattenimento. Tramite le reti Fox, la Disney potrà bussare alla porta dei numerosi milioni di abbonati Sky, mentre questa potrà mettere piede nella library più amata al mondo da adulti e bambini. Se questo è il panorama che ruolo potremo avere noi? Prendiamo il caso del cinema: il costo medio italiano si aggira attorno ai 3 milioni di euro. Il film medio americano è venti volte tanto. Il nostro mercato, salvo rare eccezioni, non va oltre Chiasso. Quello americano è il mondo. Con l’ accordo tra Disney e Fox il divario crescerà ancora, lasciando a noi le briciole. Ve lo immaginate il nostro Don Matteo targato Rai combattere contro i Game of Thrones di domani? E che dire delle serie Mediaset, sempre più ripetitive e stanche? Anche se Vivendi, Mediaset e Rai trovassero un accordo per fronteggiare il colosso d’ oltre oceano, la partita resterebbe impari. Anche perché, tanto per restare nel campo dell’ intrattenimento, il nostro cinema e le nostre fiction risentono di una soffocante subordinazione al potere politico. Né la nostra televisione privata e tantomeno quella pubblica sono riuscite a liberarsi da questo giogo mortificante. Lo spettatore italiano quando va al cinema o resta a guardare la tv nella maggioranza dei casi è costretto a sorbirsi commediole insulse e serie tv ispirate al buonismo più insopportabile. Non bastano i successi di Gomorra o del commissario Montalbano a fare primavera, perché il resto è zavorra, utile solo a tenere in piedi un’ industria composta da un pugno di appaltatori che, come li ha definiti il cinico Aurelio De Laurentiis, sono “più prenditori che imprenditori”. A vedere il cinepanettone che ha appena sfornato lui, fatto di volgari rimasugli delle annate precedenti, c’ è da chiedersi come definirebbe se stesso. Mettendosi insieme Disney e Fox hanno capito che l’ unione è la risposta vincente di fronte all’ offensiva del web e dello streaming. All’ ok Corral a sparare c’ erano Burt Lancaster e Kirk Douglas, qui l’ assalto arriva da gruppi che investono così tanto denaro che noi europei manco ci sogniamo. Apple ha sinora immesso in produzioni originali 500 milioni di dollari: li porterà a oltre 4 miliardi nei prossimi anni. Amazon, che mira a superare Netflix, spenderà circa 8 miliardi di dollari l’ anno per cinema e fiction. Se guardiamo ai nostri investimenti vien da piangere. Rai e Mediaset, che complessivamente nel 2014 investivano nella fiction circa 500 milioni di euro l’ anno, oggi invece di crescere sono scesi a meno di 300 milioni. Dunque che fare? Forse aveva ragione Furio Scarpelli, lo sceneggiatore dei tempi d’ oro della commedia all’ italiana insieme ad Age, quando affermava che a noi italiani per salvarci resta solo la genialità.
Il flirt di Giggino con i grandi giornali: «Vuole usarli per arrivare al potere»
Il Giornale
Domenico Di Sanzo
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Domenico Di Sanzo È la stampa, bellezza. Il M5s a guida Luigi Di Maio, tra un viaggio all’ estero, un inchino al Vaticano e un giretto nel Nord produttivo, ha scoperto anche il fascino delle rotative. Soprattutto di quei giornali che, secondo il candidato premier grillino, contano davvero. Il capo politico del M5s da tempo è impegnato in una strategia di accreditamento nei confronti dell’ establishment che passa, volente o nolente, attraverso un rapporto meno bellicoso con la cosiddetta «grande stampa». E il flirt è ricambiato. Tra novembre e dicembre Luigi Di Maio ha inanellato un bel tris di interviste. Il 7 novembre scorso, a margine del teatrino sul confronto televisivo con Matteo Renzi e alla vigilia della sua ultima missione negli Usa, Di Maio si concede al Corriere della Sera. E spiega: «La vera sfida ora è coinvolgere coloro che non vanno a votare in un progetto di partecipazione attiva. Non chiediamo loro di votarci, ma di farsi promotori di progetti per migliorare le proprie città e le proprie regioni». In assenza di notizie, questa frase, un po’ banale, diventa il titolo dell’ intervista pubblicata dal quotidiano di Via Solferino. Di Maio si rivela un grande esperto nella specialità del dribbling della domanda e sfodera la sua migliore grisaglia democristiana quando, nello stesso colloquio col Corriere, dice che non servono azioni clamorose di protesta per «mandare a casa i vecchi partiti». E un bel «vaffa» a quel burlone di Beppe Grillo che i giornalisti se li vuole «mangiare per poi vomitarli». I due, infatti, da sempre la pensano in modo molto diverso sul dossier «rapporti con la stampa». Un ex collaboratore di Di Maio al Giornale la racconta così: «Luigi mal sopportava l’ astio di Grillo nei confronti dei giornali, perché li considera, insieme alla Rai, uno strumento per arrivare al potere. Che è sempre stato il suo unico obiettivo». La doppietta del capo politico arriva il 29 novembre. Quando Di Maio sceglie di nuovo il Corrierone per strombazzare ai quattro venti: «Farò anche io le parlamentarie, correrò in Campania, e quando arriveremo al governo taglieremo 400 leggi». E precisa che lui e l’ ex fidanzata Silvia Virgulti sono «rimasti amici». Perché il nuovo grillismo di Di Maio vuole apparire «moderato» pure sotto le lenzuola. Passa poco più di una settimana e il candidato premier del Movimento si traveste da europeista. E ci tiene a farlo sapere attraverso l’ austera Stampa di Torino. È il 7 dicembre e il leader grillino nuovo di zecca dice: «L’ Europa può salvarci, è un veicolo per portare i popoli verso una qualità di vita e un benessere maggiore». E poi: «Vogliamo restare nell’ Ue e senza ultimatum». Ma non c’ è solo Di Maio: il 13 novembre il Corriere Economia intervista Davide Casaleggio con lo scopo di fargli spiegare «l’ intelligenza artificiale». Cioè proprio uno dei settori principali della Casaleggio Associati. E pensare che il padre Gianroberto Casaleggio nel 2014 profetizzava: «In Italia i giornali spariranno nel 2027». Ma il visionario non aveva vaticinato la trasformazione della sua creatura politica.
La direttiva Ue sul copyright si ispira all’ Italia
Il Sole 24 Ore
Valeria Falce
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La legge italiana sul diritto di autore è oggi più che mai un importante punto di riferimento nel processo europeo di modernizzazione delle regole a tutela dei contenuti digitali creativi. Nella bozza di direttiva sul copyright la Commissione europea proponeva, infatti, di introdurre all’ articolo 11 un nuovo diritto assoluto a favore degli editori di opere giornalistiche, che dunque avrebbero potuto decidere se autorizzare o vietare la riproduzione e comunicazione al pubblico dei contenuti digitali. Le esigenze alla base del nuovo diritto erano dichiarate e sono oggi confermate nei Considerando 31 e seguenti della bozza: agevolare la circolazione diritti e rafforzarne l’ effettività, promuovere un più maturo bilanciamento tra l’ interesse degli autori/editori e quello generale, a salvaguardia «della stampa libera e pluralista» e a garanzia del «giornalismo di qualità e l’ accesso dei cittadini all’ informazione», e in ultima analisi, consentire ad editori e autori di partecipare “ad armi pari” alla catena del valore e così fronteggiare i cambiamenti radicali innescati dall’ economia digitale. La scelta normativa del resto non era peregrina ma sembrava trovare conforto in alcuni autorevoli precedenti nazionali. Germania e Spagna hanno introdotto regole ispirate alla medesima finalità, assicurare cioè “la sostenibilità” del settore dei media e dell’ entertainment attraverso la compartecipazione alle nuove forme di sfruttamento promosse da aggregatori e operatori on line. Sennonché, l’ articolo 11 è stato accolto con favore per le intenzioni perseguite, vale a dire perché ispirato all’ esigenza di rilanciare il settore dell’ editoria tradizionale, scongiurando forme di free ridiing e di appropriazione indebita. È stato invece contestato per la tecnica giuridica prescelta. Nei sistemi tradizionali, e in Italia in primis, sono gli autori i titolari originari delle opere e non gli editori. Questi ultimi sfruttano i diritti economici sulle opere e godono di un diritto di secondo livello, derivativo, che in quanto tale presuppone ed è condizionato all’ esistenza del diritto dell’ autore sull’ opera creativa. D’ altra parte, per evitare forme di sfruttamento parassitario, sempre in Italia, i titoli degli articoli e gli estratti sono sì protetti ma non attraverso le regole autoriali, che presuppongono un certo gradiente di creatività e originalità, quanto piuttosto attraverso le regole della concorrenza sleale. La nuova posizione comune di Consiglio e Parlamento, annunciata negli scorsi giorni, sembra far tesoro dell’ impianto sistematico continentale, allineandosi in larga misura alla lettera e al rationale della legge italiana. Il nuovo articolo 11 non cambierà ragione ispiratrice, cambierà piuttosto la lettera della norma, introducendo una presunzione. Si presumerà insomma, sino a prova contraria, che l’ autore di un’ opera giornalistica abbia ceduto i propri diritti all’ editore e che dunque questi possa attivarsi per perseguire i comportamenti illeciti altrui. La scelta è del tutto condivisibile perché, oltre a conformarsi ai principi fondanti la disciplina autoriale, realizza le finalità che la norma si riprometteva di raggiungere, vale a dire facilitare la diffusione delle opere nel rispetto delle regole, rafforzare il ruolo degli editori, che hanno maggiore potere negoziale rispetto agli autori, e consentire agli uni e agli altri di partecipare al valore generato dalla circolazione on line dei contenuti autoriali. Certo, nel quadro che si va delineando, gli estratti delle opere digitali rimangono al di fuori dell’ area di protezione autoriale, a meno che non qualifichino in quanto tali opere dell’ ingegno (conclusione questa non impossibile, tenuto conto che la Corte di giustizia ha stabilito che 11 parole estratte da un’ opera più ampia possono essere meritevoli di tutela autoriale) e sempre che l’ opera originale dalla quale sono tratte non fosse riservata ad una cerchia ristretta di utilizzatori (vuoi in abbonamento vuoi attraverso password di accesso). © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Donald Sassoon
La Repubblica
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di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli Nel suo ottimo italiano dice che il tempo cancella un po’ per volta la vita ma lo storico tra i vari compiti ha anche quello di ridisegnarla. In fondo il lavoro di Donald Sassoon – che martedì sera riceverà il Premio Napoli Internazionale – lo si può collocare dentro questa esperienza che è insieme mentale e oggettiva. Come storico dice di essersi occupato di parecchie cose relative al secolo scorso: «Non è facile trovare una definizione che soddisfi interamente la domanda su cosa sia stato il Novecento. Un quadro plausibile fu credo quello che disegnò Eric Hobsbawm con l’ espressione “secolo breve”». Lei è stato allievo di Hobsbawm. Che ricordo ne conserva? «Il ricordo è eccellente, anche se in realtà non ho avuto un rapporto diretto del tipo allievo- maestro. Presi con lui a Londra il PhD, in pratica il vostro dottorato, ma senza una particolare frequentazione. Apprezzavo le sue opere e in seguito continuammo a sentirci e a vederci abbastanza spesso. Si parlava di politica e di storia ed ero colpito dalla sua tolleranza verso coloro che non la pensavano come lui. Ai suoi occhi bastava che fossero delle persone intelligenti». Ma la definizione di “secolo breve” la convince? «Le periodizzazioni hanno sempre un certo grado di arbitrarietà. Potrei risponderle che il Novecento è nato effettivamente nel 1914 come pensava Eric, ma anche nel 1870 con la guerra franco-prussiana. Potrei perfino aggiungere seguendo i libri di storia che tra il 1914 e il 1945 si esaurisce l’ egemonia mondiale dell’ Europa. E che nel secondo dopoguerra si assiste al tramonto degli imperi coloniali inglese e francese. Il bello dei cicli storici è che nascono e finiscono». E tutte queste date non la convincono? « Se smettessimo di essere eurocentrici e vedessimo le cose, che so, dal punto di vista della Cina, dovremmo raccontare una storia ben diversa. L’ impero cinese ha avuto una longevità sconosciuta agli altri imperi. Arriva fino ai primi del Novecento. Poi c’ è la fase del maoismo. Mao muore nel 1976. Ancora oggi il paese è sotto la guida di un partito che si dice comunista, ma che ha completamente cambiato il volto della Cina, sposando un’ economia che non ha niente a che vedere con i suoi principi ideologici». Ritiene che una contraddizione del genere sia a lungo sostenibile? «Non lo so, quello che posso dire è che l’ unico elemento che ha fatto da collante per tutto il secolo è stato il capitalismo. Nasce in Gran Bretagna nel Settecento, si espande notevolmente nell’ Ottocento e diviene mondiale dalla fine dello scorso secolo. Non ha avversari salvo forse sé stesso. Quando ero giovane ritenevo che delle forze alternative si sarebbero opposte e avrebbero potuto prevalere, ho l’ impressione di essermi sbagliato». Di quali anni sta parlando? « Della fine degli anni Sessanta. Si era entrati in un ciclo di pensiero e di convinzioni ideologiche che avevano posto al centro l’ analisi di Marx sul modo di produzione capitalistico». Viene spontaneo chiederle, visto che ci avviciniamo al cinquantenario, come giudica oggi il Sessantotto. «In quel periodo ero a Londra, le confesso che mi sarebbe piaciuto molto di più essere a Milano, dove avevo vissuto, o a Parigi, cioè in città politicamente molto più eccitanti. All’ epoca il Sessantotto sembrava l’ inizio di un cambiamento epocale. Da tempo è chiaro che non è stato così. Se si pensa ai grandi cambiamenti che sono avvenuti nel Novecento – la fine del comunismo sovietico, la crescita del fondamentalismo islamico, l’ affermarsi di potenze economiche come Cina e India – il Sessantotto non è poi stato così importante. Anche se una qualche propensione al cambiamento del costume glielo possiamo riconoscere». A cosa pensa? «Al femminismo, e al modo nuovo di intendere le convenzioni sociali: in particolare il ruolo della famiglia». La sua famiglia da dove viene? «Sono nato al Cairo, ma provengo da una famiglia ebrea di origini medio- orientali: Bagdad, poi India, da qui mio nonno emigrò ad Aleppo e infine al Cairo. Mio padre aveva un commercio import-export di cotone. In Egitto era una delle attività più floride. Dal Cairo i miei si trasferirono in Francia e poi in Italia. Ci stabilimmo a Milano. A diciassette anni decisi di continuare i miei studi in Inghilterra, prima in un college poi all’ università studiando economia. Infine maturai il passaggio alla storia». Favorito da cosa? «La mia prima laurea aveva come sfondo le relazioni internazionali, poi con il master negli Stati Uniti cominciai a occuparmi di scienze politiche. In America scoprii Louis Althusser e i testi di Antonio Gramsci. Quando tornai a Londra programmai un dottorato sul partito comunista italiano. Proposi la tesi a Hobsbawm e lui, che amava il Pci, ne fu entusiasta». Era un lavoro ideologico? «No, mi interessava analizzare le costrizioni con cui un partito come quello comunista doveva fare i conti. Era chiaro che se voleva sopravvivere in occidente non poteva prescindere da una buona dose di realismo politico che lo mettesse al riparo da qualsiasi illusione o tentazione rivoluzionaria. Sto parlando di lucidità e disincanto: due qualità che non sempre la sinistra ha avuto». Ritiene che questo ne spieghi i conflitti e le divisioni? « Fin dall’ inizio della sua storia la sinistra ha camminato divisa. Non è una novità di questi ultimi tempi. È una difficoltà che in questo momento non riguarda solo l’ Italia, ma l’ Europa tutta». Si è passati dall’ Europa sognata a quella attuale, più simile a un incubo. « Bisognerebbe tener presente che l’ Europa fu fatta, nel dopoguerra, diciamo meglio fu fondata, su delle basi costruite da partiti conservatori: Adenauer, Schuman, De Gasperi erano leader di partiti di destra, anche se moderata. La sinistra di allora era nettamente contraria all’ idea di un’ Europa unita. Oggi assistiamo al ribaltamento delle posizioni. La destra è diventata euroscettica, la sinistra – a parte qualche frangia – difende l’ europeismo». Si può spiegare l’ euroscetticismo come effetto di una globalizzazione pesante, forzata e sbagliata? «Non metterei le due cose sullo stesso piano. Gli euroscettici cavalcano la montante ostilità nei riguardi dell’ establishment. La rivolta contro le élite. Qualunque cosa esse propongano è sbagliato per definizione. La globalizzazione è un fenomeno che nasce molto prima. Recente, semmai, è il suo enorme sviluppo. In questa versione non si può parlare di globalizzazione senza il motore del capitalismo ».
L’ IMPEGNO DELL’ EDITORE
La Repubblica
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Accogliendo la richiesta dell’ assemblea di redazione di Repubblica, che ha sollecitato un chiarimento ai vertici del gruppo Gedi dopo l’ intervista dell’ ingegnere Carlo De Benedetti al Corriere della Sera, il presidente Marco De Benedetti ha inviato questa lettera, nella quale ribadisce quanto affermato davanti al Cdr mercoledì. «L’ intervista rilasciata da mio padre qualche giorno fa ha generato disorientamento, con riferimento alla posizione della Società nei confronti di Repubblica. Desidero ribadire quanto ho avuto modo di illustrare nella riunione di mercoledì scorso, e cioè: – Ho assunto la Presidenza del Gruppo a testimonianza del fatto che, insieme ai miei fratelli quali azionisti di riferimento, credo nel valore del giornale e del Gruppo e sono impegnato a lavorare per un futuro solido e vincente. – Abbiamo varato un’ importante riforma del giornale che rappresenta molto di più di un semplice restyling. Riflette la consapevolezza della necessità di dare risposte nuove che mettano al centro qualità e professionalità e la volontà di fare un giornale che vada incontro a quanto ci chiedono i nostri lettori, che sono e sempre saranno l’ unico nostro riferimento. – Determinati a mantenere la leadership nel digitale, abbiamo ampliato la nostra offerta con Rep. – D’ accordo con Mario Calabresi, abbiamo rafforzato la Direzione con la nomina di Tommaso Cerno a condirettore. Le opinioni espresse nell’ intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello del vertice della Società, che sono tutti determinati a proseguire sulla strada tracciata. Nell’ augurarvi buon lavoro, vi invio i miei migliori saluti». Il Cdr di Repubblica accoglie la lettera del presidente Marco De Benedetti come una pubblica e ferma dichiarazione di apprezzamento e condivisione assoluta del progetto di riforma del giornale. Ci auguriamo che il gruppo Gedi continui a sostenere con determinazione, e con i necessari investimenti, l’ impegno dei giornalisti di Repubblica per confermare il ruolo di primo piano del quotidiano nel panorama editoriale del nostro Paese. Nell’ interesse del giornale stesso, dei lettori e dell’ informazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA Marco De Benedetti: l’ intervista di mio padre non rappresenta il pensiero degli azionisti né del vertice societario.
Io e Gomorra rivoluzione criminale
La Repubblica
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“Nessun filtro, nessuna censura: per raccontare un personaggio” dice Stefano Sollima, il regista del bestseller di Roberto Saviano “lo devi amare: non giudicare”. A costo di flirtare con il male? di Silvia Fumarola Le serie rinnovano la tradizione dei classici che al cinema non aveva più senso produrre. Ma, soprattutto, hanno preso il posto dei film ” di genere”, oggi sono il grande racconto popolare » . Da Romanzo criminale a Gomorra, Stefano Sollima ha innovato il linguaggio televisivo. Ha girato in America Soldado, sequel di Sicario, film da cinquanta milioni di euro con Benicio del Toro, sugli immigrati che cercano di passare la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Ironico, odia i moralisti che vorrebbero vedere il bene nelle serie tv e difende i personaggi estremi «che non vanno mai giudicati ». Sollima, le serie hanno cambiato il costume? « Il cinema e la televisione sono due esperienze diverse: vai in una sala per condividere. La serie è quella cosa che oggi segui sull’ iPad, in treno, sul maxi schermo della tua tv, seduto sul divano. È cambiato il costume ma è cambiato soprattutto il linguaggio: basta coi primi piani». Il cinema ha sofferto? «Si è serializzato: penso a Guerre stellari o The Avengers, scrivono il primo capitolo avendo in mente il secondo o il terzo. Il cinema oggi deve sgomitare per prendersi una fetta di pubblico. Prima di uscire i tuoi figli ti dicono: c’ è la serie su Sky, c’ è quell’ altra su Netflix. La tv non ucciderà il cinema come il cinema non ha ucciso il teatro, la competizione è sana, spinge a fare sempre meglio. Pensi a come si è alzata la sfida della creatività tra Amazon, Netflix e Hbo, a come sta facendo emergere i talenti nel mondo. E anche al cinema succede la stessa cosa». Ma incide meno delle serie tv, è come se avesse meno libertà. «Oggi il cinema deve creare l’ evento, ha senso il 3D, trasformare la visione di un film in un’ esperienza unica. Gli autori dovrebbero sorprendere gli spettatori. Devi offrire un’ idea per cui valga la pena uscire di casa, trovare parcheggio e pagare un biglietto». La tv non rassicura più. È un bene o un male? «È la grande rivoluzione. Grazie a Sky, Netflix, Amazon, si è potuto sperimentare. Il racconto è meno buonista, c’ è la rincorsa alla narrazione senza filtri e senza censura. Una sfida a farlo sempre più strano. Ho avuto tutta la libertà grazie a Sky e il pubblico può vedere le serie come vuole. Non esiste più l’ appuntamento perché sceglie come, dove e quando, ma anche il binge watching, l’ abbuffata, crea un vincolo esclusivo. Inizi ad amare un personaggio come se facesse parte della tua famiglia». Per Hanif Kureishi le serie sono il mezzo ideale per esplorare il personaggio “sotto pressione”. «Assolutamente sì, i personaggi hanno più sfaccettature. Mentre al cinema sei limitato, in tv puoi lavorare come fossero i protagonisti di un romanzo, hanno una complessità pari a quella delle persone vere». Li racconta senza giudicarli. Mai tentato di farlo? «Ci mancherebbe: per raccontare qualcuno non puoi giudicarlo, anzi non devi farlo. Se non l’ ami non lo racconti bene. Ogni essere umano è luci e ombre». Le critiche a “Gomorra” non sono mancate: Roberto Saviano ha dovuto personalmente rispondere ai magistrati. «Soprattutto in Italia la mancanza del bene fa paura. Lo trovo folle. È folle che intellettuali, politici e magistrati s’ interroghino su una serie e non sul fenomeno che l’ ha ispirata. Quello andrebbe preso molto sul serio». Però, a fare l’ avvocato del diavolo, gli spettatori lo prendono sul serio. «È gratificante che la gente dibatta. Mi piace essere provocatorio, va bene se fai pensare. L’ importante è fare cose non noiose, la noia e il moralismo uccidono». Quali sono le serie che hanno cambiato tutto? «Nella serialità moderna The Shield, The Wire, Breaking Bad. Ma anche Oz. La rivoluzione è partita quindici anni fa. The Wire è il modello di ispirazione più diretto per Gomorra. Cambiare i punti di vista, anzi rovesciarli, ti aiuta ad avere uno sguardo più aperto. Una volta citavi The Wire e ti guardavano: che è?». Ammetterà, tutte storie estreme. «Sì corrispondono al mio gusto. Seguivo queste serie su Hbo, quando nessuno degli intellettuali le vedeva. Ricordo certe conversazioni: ” Sai, ho visto una serie”. Ti sentivi rispondere: ” Non guardo la tv”. Oggi è nobilitante seguire le serie, anzi, si fa brutta figura se non conosci le novità». C’ è una vena polemica? «No, ironica. C’ è chi ci ha messo più tempo per capire le potenzialità». La sua rivoluzione è partita con “Romanzo criminale”. «Quando l’ ho girato avevo visto quello che si faceva nel mondo e mi sembrava allucinante che noi fossimo tanto indietro. Abbiamo portato la novità in un paese conservatore, a partire dalle facce. Per scegliere gli attori siamo andati a cercarli». Parla con passione, però ha lasciato la regia di “Gomorra”: perché? « La tv mi piace ma non quando si sviluppa a lungo, il mio contributo a Gomorra l’ ho dato, è stato anche un percorso umano, abbiamo creato un mondo. La mia creatura poteva camminare da sola, la terza serie è bellissima. Se avessi fatto per dieci stagioni Romanzo criminale, non avrei girato Gomorra. Se avessi continuato con Gomorra non mi sarei potuto dedicare a ZeroZeroZero dal libro di Roberto Saviano. Comincio a marzo, sto facendo i casting, è bello fare cose diverse». C’ è una serie che avrebbe voluto girare? «Quelle citate prima e Band of Brothers, storia di guerra kolossal, emozionante. Ma anche Black Mirror non è niente male, spregiudicata e intelligente». Non c’ è traccia di quelle in costume: “Downton Abbey” o “The Crown” «Il “period drama” non piace, non ce la faccio proprio. Non mi prende». © RIPRODUZIONE RISERVATA.