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Rassegna Stampa del 27/11/2017

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Indice Articoli

Più coraggio e indipendenza Solo così vivono i quotidiani

Diritti tv, si rischia la nuova apocalisse

Lega di A, prove di accordo per evitare il commissario

Fake news, legge del Pd multe fino a 5 milioni

Photoshop e siti fac-simile ecco come nasce una bufala

Mister news la mia sfida a google a colpi di tweet

Pubblicità e affari online l’ italia non sarà più un paradiso fiscale

Re del web, basta trucchi È ora di pagare le tasse

Le regole delle casse restano disallineate

Più coraggio e indipendenza Solo così vivono i quotidiani

Il Giornale
RICCARDO RUGGERI
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S ono da dieci anni nel mondo dell’ editoria, ho una mini casa editrice, scrivo sui giornali, ogni mattina posto sul mio Blog (riccardoruggeri.eu) una sbarazzina «Rassegna stampa del Cameo», ogni tanto produco un Cameo Video di 4 minuti, cercando di spiegare la politica ai miei nipotini e a quelli che hanno meno di 18 anni. Ciò premesso, mi sfugge perché noi editori, giornalisti, stampatori, fornitori, si subisca supinamente la strategia delle Big Five, intenzionate semplicemente a ucciderci, e con noi il cartaceo, e pure le versioni internet. Può darsi che sia una partita persa (io non ci credo) ma almeno combattiamo, come fece la cavalleria polacca contro i tank nazisti (oltretutto costoro hanno evidenti connotati nazi). Lo confesso, attendevo con ansia l’ uscita della nuova Repubblica per scoprire se, con l’ occasione del cambio del vestito (chapeau!), avrebbe modificato anche il suo posizionamento strategico. Dio sa quanto, nello sfacelo della socialdemocrazia europea, ce ne sarebbe bisogno. Pensavo lo facesse su un tema ove era facile trovare comunanze multiculturali: accendere fari critici sul mondo di cipria (sporca) delle Big Five, ergo sul ceo capitalism. Alcuni articoli degli ultimi mesi di Federico Rampini, particolarmente critici verso questi monopolisti d’ accatto, erano stati innovativi, avevano illuso persino un apòta come me. Per ora non ho colto alcun cambiamento. Mario Calabresi, nel primo numero spiega «Perché il giornale cambia», dandosi tre risposte: lo hanno chiesto i lettori, lo chiede il tempo in cui viviamo, è nel Dna di Repubblica. Come lettore fedele fin dal primo numero (14 gennaio 1976) ho assistito alla splendida giovinezza di Repubblica (al mattino presto correvo all’ edicola per prendere Repubblica e il Giornale di Montanelli), alla sua breve maturità, all’ improvvisa vecchiaia. Come tutti i grandi quotidiani occidentali, anche Repubblica non ha saputo gestire il dopo caduta del muro, si è trasformata in un house organ del potere liberal dominante, per intenderci il più losco, quello dei Clinton, dei Blair, che ci ha portato alla crisi del 2008 e all’ oscuro futuro che ci attende. La nuova veste grafica può dirsi un capolavoro del politicamente corretto. È pieno di segnali deboli di dove stia andando il mondo, alcuni sono interessanti, altri coraggiosi, ma si capisce che il protocollo editoriale è ancora quello in essere. Pensavo che abbandonasse il profilo di giornale-corazzata per reinventarsi il ruolo di giornale-cacciatorpediniere multiruolo. Per ora nulla. Solo Eugenio Scalfari, non su Repubblica ma a La 7, si può permettere di dire un’ ovvietà intelligente su Silvio Berlusconi, che almeno metà degli italiani ha apprezzato, ma 48 ore dopo è costretto a un defatigante lavoro di cesello per riposizionarsi. Prendiamo il caso dello sciopero in Amazon, il giorno del Black Friday. Repubblica, in verità come gli altri giornali, fa commenti mosci, edulcorati, anziché parlare dell’ oligopolio che si è costituito nella logistica, sottolineando come con queste «non regole» chi distribuisce decide per l’ intera catena di produzione (è strategicamente inaccettabile). Concorrenza, libero mercato per costoro sono concetti che vanno a farsi benedire, i cittadini si chiedono perché concedere tanti vantaggi fiscali all’ e.commerce, alle multinazionali monopoliste postate in Lussemburgo o nelle isole del Canale? Bastava prendere il libro «En Amazoine» (2013) di uno di noi, il giornalista infiltrato J.B. Malet, costantemente geo localizzato da Amazon, e farci dei ragionamenti critici. Nessuno, non solo Repubblica, l’ ha fatto. Oggi i lettori di un giornale cartaceo le notizie le prendono altrove, vogliono commenti brevi, netti, intellettualmente indipendenti. Questa la nostra sfida. www.riccardoruggeri.eu.

Diritti tv, si rischia la nuova apocalisse

Il Fatto Quotidiano
Paolo Ziliani
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Dopo l’ Apocalisse 1 (Italia fuori dai Mondiali 2018), l’ Apocalisse 2. Dove per evento catastrofico s’ intende la possibile, temuta sparizione dei soldi dei diritti tv, quelli che da sempre tengono in piedi il malandato baraccone del calcio di casa nostra. Mentre per le esequie del Sommo Pontefice Tavecchio tutto è ancora da decidere, a cominciare da loculo e sacerdoti, un piccolo passo indietro è necessario per raccontare quel che bolle in pentola (nel silenzio dei più) sullo scabroso tema dei soldi televisivi. Il 26 maggio scorso la Lega di serie A, nell’ intento di anticipare l’ asta-Uefa dei diritti Champions, emette in gran fretta il bando per i diritti del triennio 2018-2021. L’ obiettivo è il raggiungimento di quota 1 miliardo (incasso precedente: 943 milioni), ma quando a giugno si aprono le buste, a tutti vengono i sudori freddi: Mediaset e Tim non hanno presentato alcuna offerta, Sky ha scritto in busta 440 milioni per i due pacchetti satellite e digitale (il primo con base d’ asta 400), Perform 50 per i diritti web (base d’ asta 100). Totale offerte: 490 milioni, meno della del preventivato. Il bando viene annullato. “Le offerte non rappresentano il valore reale del calcio italiano”, spiega Tavecchio. Si rimanda a fine anno. La speranza è che Mediaset, in pieno contenzioso con Vivendi per la cessione poi abortita di Premium, raggiunga un accordo con i francesi e torni competitiva. Ma De Siervo, Ad di Infront, l’ advisor della Lega, dichiara: “Se non andasse in porto il polo Vivendi-Telecom-Mediaset, il canale della Lega sarebbe l’ unica ipotesi possibile”. Lega Channel. Sono passati sei mesi, poco è cambiato sul fronte Mediaset-Vivendi, l’ Italia si è fatta eliminare dal mondiale deprimendo ulteriormente il movimento e abbattendo il valore dei diritti-tv: e in questa situazione oggi la Lega si riunirà, tra le altre cose, per discutere e votare il nuovo bando, dopodiché entro il 15 dicembre ci sarà l’ apertura delle buste. Ebbene: nessuno lo dice, ma con Mediaset sempre più decisa a uscire dal business-calcio gravata da una perdita di 375 milioni e con Sky e Rai impegnate a prendere accordi sull’ acquisto di Champions League (già avvenuto) e Mondiali 2018, con ipotesi di scambi di partite, il flop del secondo bando si staglia minaccioso un po’ come l’ iceberg davanti al Titanic. Lo conferma l’ inserimento nel bando di un cosiddetto Piano B, il progetto “Lega Channel”, la tivù fatta in casa dalla Lega, una specie di Sarchiapone, un’ entità spaventevole e immaginaria evocata ogni volta che Sky e Mediaset provano a fare il braccino corto. In realtà, per realizzare la tv della Lega (con relativo rischio d’ impresa), che userebbe Sky e Mediaset come taxi per arrivare agli abbonati, occorre trovare prima sia un partner industriale (Discovery?) sia un partner finanziario ( JP Morgan? Merrill Linch?). Dopodiché, messa in piedi una redazione pescando tra i professionisti di Sky e Premium, nominato un direttore e stabilito che il numero di abbonati da raggiungere è 4,3 – 4,5 milioni (Premium oggi ne conta la metà), bisognerebbe trovare un accordo con tutti i soggetti in campo sulla spartizione degli utili. Secondo il piano, alla piattaforma d’ appoggio (Sky, Mediaset) andrebbe il 15%, a Infront il 18 e il restante 67% sarebbe diviso tra Lega, Discovery e la banca finanziatrice. Domanda: secondo voi succederà? Come diceva quello: campa cavallo che l’ erba cresce.

Lega di A, prove di accordo per evitare il commissario

Il Messaggero
EMILIANO BERNARDINI
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LA CRISI ROMA La battaglia per lo Statuto è solo di facciata, la vera guerra la Lega A la fa per i soldi. La ridistribuzione delle percentuali di voto, le seconde squadre e la riforma dei campionati sono discorsi giusti ma da affrontare a pancia piena. Nell’ ultima settimana i telefoni dei venti presidenti di A non hanno smesso un minuto di trillare. Contatti continui per provare a definire un piano. La verità è che nessuno vuole il commissariamento e l’ Assemblea di oggi proverà a scongiurarlo. Difficile si trovi la quadra ma qualcosa in pentola già bolle. Si sta cercando di definire la figura dell’ amministratore delegato che mettesse tutti d’ accordo. Meglio una figura che sappia vendere bene i diritti tv o una in grado di saper valorizzare il prodotto in seconda battuta? NODO SULL’ AD Al primo profilo rispondono i nomi di Tom Mockridge (ex numero uno di Sky Italia, oggi alla guida di Virgin Media), Alessandro Araimo (executive vice-presidente e general manager di Discovery Italia) e Luigi De Siervo (attuale ad di Infront). Quest’ ultimo molto ben visto dal patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis. Al secondo profilo, invece, sembrano più vicini Marzio Perrelli (ceo di Hsbc Italia) che piace al presidente del Coni Giovanni Malagò, Michele Scannavini (Presidente dell’ Agenzia ICE) e Sami Kahale (presidente della Procter & Gamble per il Sud Europa) appoggiato da Urbano Cairo numero uno del Torino e che comunque non dispiacerebbe nemmeno a Malagò. «Non credo che domani (oggi, ndr) sarà il giorno per eleggere…», ha detto ieri Cairo. Chiaro che al momento la battaglia è anche dal punto di vista strategico: chi l’ avrà vinta sull’ ad poi dovrà mollare per forza qualcosa sul nome del presidente. Ed è qui che s’ inserisce il patron della Lazio, Claudio Lotito. Parla poco, si fa vedere meno ma è attivissimo. Ha una strategia chiara: lotta per imporre il nome del presidente e se stesso. Dalla sua parte può contare sull’ appoggio del Milan e una serie di medio piccole. Più nebulosa l’ alleanza con la Juventus di Andrea Agnelli. I rapporti tra i due sono tornati molto amichevoli dopo un lungo periodo di tensione. Non si trovano sul nome sponsorizzato da Lotito quello di Ugo Marchetti, ex vice comandante della Guardia di Finanza. Il piano di Claudio è molto semplice: nominare il presidente e poi sedere sia in consiglio di Lega sia in consiglio Figc (ruoli che il Collegio di Garanzia del Coni non ha dichiarato incompatibili). Tra i nomi papabili per il ruolo di guida in Lega c’ è anche quello di Umberto Gandini in uscita dalla Roma. E proprio i giallorossi insieme a Inter, Napoli, Torino, Fiorentina, Bologna e altri due club più piccoli sono all’ opposizione di Lotito. In via Rosellini, oggi, lo scontro è sicuro. E allora difficile che si trovi una quadra. Più veritiera l’ ipotesi secondo cui l’ assemblea verrà lasciata aperta fino a giovedì quando è già più semplice si trovi l’ intesa. Questo scenario vedrebbe eletto Ezio Maria Simonelli, presidente del collegio dei revisori. Una nomina a scadenza. Il tempo di scongiurare il commissariamento minacciato da Malagò e nominare il presidente della Figc (possibili elezioni il 22 gennaio). Poi, come da accordi, rassegnerebbe le dimissioni. DIRITTI TV E TAGLI L’ obiettivo principale resta quello dell’ assegnazione dei diritti tv, l’ unico vero salvadanaio della serie A. Oggi verranno approvati i bandi per il triennio 2018-2021, poi scatterà l’ asta (15 giorni di tempo). Cinque i pacchetti a disposizione, la novità è legata alla possibilità data a soggetti terzi di comprarli e poi rivenderli (pare che ci sia già un fondo dietro cui ci sarebbe Marco Bogarelli, ex numero uno di Infront). Alla lega di A interessa vendere bene i diritti tv e spartirsi la fetta. Questo lo sa bene Malagò che nella Giunta del Coni di domani a Bari annuncerà un altro taglio al calcio: 5 milioni. Il numero uno dello sport italiano tira la cinghia e spera che alla fine prevalga il buon senso che per lui significa commissariamento. Almeno un anno, per poter mettere mano allo statuto e riscrivere le regole. Stavolta Malagò non vuole farsi sfuggire l’ occasione. Quella che perse incredibilmente nel 2014 quando mise mano allo Statuto. Emiliano Bernardini © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Fake news, legge del Pd multe fino a 5 milioni

La Repubblica
Tommaso Ciriaco Annalisa Cuzzocrea
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roma Fare pulizia delle fake news. Bloccare i teppisti da tastiera. Inseguire chi diffama, inneggia al fascismo, attenta alle istituzioni democratiche cavalcando le piattaforme social. È il cuore del progetto di legge targato Pd che sarà depositato nelle prossime ore al Senato dal capogruppo dem Luigi Zanda. Con una rivoluzione copernicana importata dalla Germania: gli spazzini della Rete dovranno essere i social network. A Facebook, Twitter, Instagram spetterà infatti filtrare le segnalazioni degli utenti. Vigilare. E se falliranno, la sanzione sarà salatissima: mezzo milione di euro per ogni singolo caso, cinque milioni per gli errori “di sistema”. Al testo – che importa le regole adottate da Berlino lo scorso settembre – lavora da due mesi la senatrice dem Rosanna Filippin. Certo, è tardi per approvarlo prima delle elezioni, ma il segnale sarà lanciato comunque: « Il ddl – assicura Zanda – sarà una base solida per ripartire nella prossima legislatura » . La cautela è d’ obbligo. « Abbiamo sgamato Lega e 5 stelle che usano gli stessi codici, le stesse infrastrutture della rete – dice Matteo Renzi alla Leopolda – ma non pensiamo a nuove leggi, figuriamoci, a pochi mesi dal voto. Ogni quindici giorni però presenteremo un rapporto sulle schifezze in rete » . « Una norma è necessaria – spiega Matteo Richetti – ma è impensabile approvarla in piena campagna elettorale». Un testo però, intanto, c’ è già, e la filosofia che lo guida è responsabilizzare al massimo l’ unico soggetto in grado di usare l’ accetta in tempi ragionevoli, cioè i social network con più di « un milione di utenti registrati sul territorio nazionale » . Restano fuori i giornali on line e WhatsApp. Cosa dovranno fare precisamente colossi della socialità virtuale come Facebook e Twitter o gli organismi di ” autoregolamentazione” esterni a cui potranno affidarsi? Raccogliere i reclami degli utenti ultraquattordicenni su fake news o contenuti illegali. Decidere se rimuoverli, bloccando gli autori. E farlo in tempi strettissimi: 24 ore se il post è « manifestamente illecito», una settimana se necessario per verificare la «denuncia». Il ventaglio dei reati nel mirino della norma è ampio. La diffamazione, innanzitutto. E ancora, minacce, stalking, pedopornografia e trattamento illecito dei dati personali. Non basta, perché l’ obiettivo è limitare anche l’ offensiva allo Stato a mezzo bufale: dai delitti contro la sicurezza nazionale al terrorismo, eversione dell’ ordine democratico e apologia del fascismo, istigazione a delinquere, associazione mafiosa e offesa a confessioni religiose. In questi casi, il motore della richiesta di rimozione sarà il pubblico ministero. E che succede se i social ignorano la richiesta delle potenziali vittime di fake news? Ciascun utente potrà rivolgersi al Garante della privacy. E i gestori dovranno rispondere all’ Autorithy – ed eventualmente all’ autorità giudiziaria – in modo rapido. Chi violerà questa disposizione, o non si doterà di un sistema efficace per far fronte ai reclami, o dimenticherà di stilare rapporti semestrali sull’ offensiva delle fake news, dovrà pagare fino a cinque milioni di euro. Tutto, insomma, è in movimento. Su vari fronti. Proprio in queste ore scende in campo anche l’ Agcom, lanciando dal prossimo 4 dicembre un tavolo tecnico per la « garanzia del pluralismo e la correttezza dell’ informazione sulle piattaforme digitali » . « Ci lavoriamo da un anno», dice il consigliere Antonio Nicita. L’ idea è quella di capire se e come i colossi del web rispondano alla disinformazione prodotta in rete, monitorando pure l’ esistenza di account falsi legati a flussi economici, anche esteri. All’ appuntamento si ritroveranno pezzi da novanta come Facebook, Google, Twitter, Fnsi, editori come Sky, Rai e Mediaset, per i relativi portali internet. Tempo sprecato, per le opposizioni grillo- leghiste. « Occupiamoci di problemi un pochino più seri – attacca Matteo Salvini – le fake news sono quelle di tg e giornali, che fanno da grancassa alle bugie del Pd». E i 5 stelle, a ruota: «Il Pd è sotto ricatto di Verdini per qualsiasi cosa – sostiene la senatrice Paola Taverna – e questi perdono tempo appresso alle fake news che si inventano da soli?». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Photoshop e siti fac-simile ecco come nasce una bufala

La Repubblica
carlo brunelli, luigi di maio
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roma Le inchiests di BuzzFeed s New York Times hanno apsrto il dibattito sulla disinformazions in Italia. Sono tantissims ls bufals girats nsgli ultimi anni, postats da divsrss tipologis di utsnti: troll, bufalari di profsssions, account faks chs fanno propaganda. Con quals facilità girano in Italia? Un anno fa la trasmissions di Rai 2 Nsmo ha dimostrato coms viralizzars una bufala in pochs mosss: è bastato affiancars alla foto di Agnsss Rsnzi un virgolsttato sul rsfsrsndum: « Mi dispiacs ma anchs io votsrò no al rsfsrsndum » . Hanno poi caricato la foto su di un sito dal noms ingannsvols “tg24.livs”, accompagnata da dus righs psr dars spsssors s contssto alla notizia. L’ articolo è stato infins postato su un gruppo fan di Salvini utilizzando un profilo faks. 81,237 intsrazioni social, dslls quali più di 16mila sono condivisioni su Facsbook, s Rsnzi ha dovuto smsntirs la notizia in confsrsnza stampa. Un gioco molto ssmplics, psr qussto molti sostsngono chs sia colpa dsgli utsnti troppo crsduloni. Siamo portati a psnsars chs a noi non possa succsdsrs, ma nsssun utsnts è immuns al prsgiudizio di confsrma. Siamo portati a crsdsrs ad una notizia chs confsrma la nostra idsa s ad ssssrs scsttici riguardo una notizia chs la smsntiscs, ssnza badars alla fonts. Nslls cosiddstts scho chambsr ls opinioni chs confsrmano il nostro prsgiudizio vsngono confsrmats s amplificats. È un msccanismo automatico, attravsrso il quals da anni visns ritsnuto crsdibils un vidso di immigrati chs distruggono una macchina dsi carabinisri, tratto dalls riprsss di una fiction. Il vidso, postato nsl 2014 dalla pagina umoristica ” Amo il mio carabinisrs”, è stato psr anni il cavallo di battaglia dsgli xsnofobi, raggiungsndo 291.500 condivisioni. Il vidso si è diffuso anchs all’ sstsro su pagins coms Australians against radical Islam s NPD Landssvsrband Baysrn. Eppurs nsl vidso si vsdono chiaramsnts microfoni s altri strumsnti tipici di un sst, s la prsssnza dsgli opsratori visns suggsrita dal lancio dsl vidso « s la gsnts chs filma non fa nulla!!!». Alla fins dsl 2015 la pagina dslla Polizia di Stato, ” Una vita da social”, ha confsrmato chs si trattava dslls riprsss di un film. Nonostants ciò, il vidso torna a circolars, rilanciato dalla pagina Nsws in Movimsnto dal Wsb, una pagina non ufficials di supporto al M5s. Sono trs anni ormai chs il vidso fa indignars nuovi utsnti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il problema fake news esiste, noi le subiamo. Le bufale nascono nei media tradizionali. Serve il controllo dell’ Osce f g CHRISTIAN MANTUANO/ ONESHOT.

Mister news la mia sfida a google a colpi di tweet

L’Economia del Corriere della Sera
di Maria Teresa Cometto
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A 75 anni Michael «Mike» Bloomberg non smette di lavorare con passione all’ azienda che ha fondato e che porta il suo nome, pensando continuamente a come innovarla. Non contento di essere da 35 anni il «re» delle news economiche per i professionisti della finanza, ora lancia la sfida ai colossi dell’ alta tecnologia, Google e Facebook, creando il primo social network dedicato alle notizie e attivo 24 ore al giorno, sette giorni la settimana. Il nuovo servizio, gestito dal dipartimento Media di Bloomberg, debutta il 18 dicembre su Twitter, ci lavoreranno 50 persone e vede la partecipazione di sei partner – Goldman Sachs, Infiniti, TD Ameritrade, CA technologies, At&t e Cme group – che hanno pagato da 1,5 a 3 milioni di dollari per far parte del progetto. L’ obiettivo di Bloomberg è aumentare la presenza digitale dei suoi media, contrastando il duopolio Google-Facebook che controlla la maggioranza del mercato pubblicitario online e mobile. «I frutti della rivoluzione nell’ industria dei media non devono appartenere solo alle piattaforme tecnologiche dominanti», ha spiegato Justin Smith, il ceo di Bloomberg Media, da cui dipendono l’ agenzia Bloomberg News, le riviste Businessweek, Markets, Pursuits, il sito Bloomberg.com, un canale tv e una radio. Mike Bloomberg aveva reclutato Smith da Atlantic quando, alla fine del 2014, dopo 12 anni come sindaco di New York, aveva deciso di tornare a gestire in prima persona la sua azienda. Narciso, ambizioso, appassionato lui per primo di tecnologia e dotato di ampie risorse – con 47,8 miliardi di dollari di patrimonio personale è il decimo più ricco al mondo, secondo Forbes -, Bloomberg vuole far conoscere anche al pubblico non specializzato il suo marchio, storicamente noto per lo più a banchieri, trader e investitori che hanno sulle loro scrivanie i suoi terminali. Bloomberg, l’ azienda, nasce nel 1981 con 4 dei 10 milioni di dollari incassati da Mike come liquidazione dalla banca d’ affari Salomon Brothers, per la quale aveva lavorato per 15 anni, facendo carriera fino a diventarne socio. Era stato licenziato in tronco, proprio all’ inizio di una delle recessioni più gravi del dopoguerra negli Stati Uniti. Bloomberg, però, ne parla sempre come la svolta fortunata della sua vita: «Dopotutto, perdere il posto di lavoro può essere un’ opportunità d’ oro per lanciare il tuo business». Perdente in una guerra di potere dentro Salomon Brothers, nel 1979 Bloomberg era stato relegato nella «Siberia» del tech support , il reparto considerato il meno prestigioso nella banca. Ma lui aveva trasformato la retrocessione nell’ occasione per sviluppare il prototipo di quello che sarebbe diventato poi il suo prodotto vincente, il terminale che porta il suo nome Fino a quel momento i trader, per informarsi sui prezzi dei titoli da trattare e sulle notizie di finanza, leggevano il Wall Street Journal di carta e facevano i conti sulle calcolatrici. Bloomberg inventò per loro una piccola macchina da scrivania che forniva in tempo reale i dati sulle quotazioni di Borsa e prevedeva anche l’ impatto sui mercati di eventi come il rialzo o il ribasso dei tassi d’ interesse. L’ ultimo suo giorno di lavoro alla Salomon fu il 30 settembre 1981. «La mattina dopo – racconta – ho iniziato con Bloomberg, l’ azienda». Che è presto diventata il numero uno sul mercato dei servizi di informazioni finanziarie e per il trading e che oggi, con quartier generale a New York, impiega 19 mila dipendenti in 176 città nel mondo, di cui oltre 4.800 esperti tecnologici. Molti hanno cercato di scalzarne il primato, senza successo. L’ ultimo tentativo risale a tre anni fa, capitanato da Goldman Sachs. La banca d’ affari era infuriata perché aveva scoperto che i suoi trader erano «spiati» dai giornalisti di Bloomberg che avevano accesso ai loro movimenti sui terminali. Goldman Sachs si è così alleata con una dozzina di altri gruppi bancari globali, da JPMorgan a Bank of America, da Citi a Wells Fargo, da Credit Suisse a Deutsche Bank, per creare «Symphony», un sistema di comunicazioni fra trader alternativo a quello offerto da Bloomberg, per trattare ordini di compravendita di titoli, scambiare notizie, commenti e battute. Oggi Simphony dichiara di avere 200 mila utenti, ma non è mai realmente decollata e per rilanciarsi lo scorso giugno ha stretto un patto con Thomson Reuters – il numero due dopo Bloomberg (che ha il 33,4% di quota di mercato contro il 23,1% di Thomson Reuters, ndr ) – per integrare i rispettivi servizi. Mike intanto continua a investire sul suo brand. Ha appena inaugurato a Londra il nuovo quartier generale europeo della società, costato – si dice nella City – un miliardo di sterline. Disegnato dal famoso architetto Norman Foster, è completamente hi tech , al 100% «verde» e con una spettacolare vista sulla cattedrale Saint Paul. All’ interno offre spazi per la «collaborazione» casuale fra dipendenti (quattromila quelli previsti nella sede londinese) e ospiti, cibo gratis, maxi schermi ovunque, una grande scala a spirale che collega sei dei nove piani, e un museo annesso dove si ammirano gratuitamente i reperti archeologici romani trovati scavando le fondamenta. A New York porta il nome di Bloomberg uno degli edifici di Cornell Tech, il nuovo campus universitario da lui voluto come sindaco per rilanciare l’ economia cittadina dopo la crisi finanziaria del 2008. Il tycoon aveva anche accarezzato l’ idea di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 come indipendente, ma i sondaggi da lui stesso commissionati non gli avevano dato alcuna chance di vittoria e da qui la rinuncia. C’ è però chi lo vorrebbe nel 2020 come avversario di Donald Trump, verso il quale lui è fortemente critico soprattutto sui temi del clima e dell’ immigrazione. Bloomberg ha detto che per ora non ci sta pensando. Non perché si considera troppo vecchio, anzi. «Forse sono ottimista, ma il mio obiettivo è vivere altri 50 anni», ha detto a Business Insider durante l’ inaugurazione della sede londinese. Una battuta? I suoi geni sono buoni (la madre Charlotte è morta a 102 anni), i soldi per finanziare la ricerca sulla longevità ce li ha, lo spirito non gli manca. Ed essere il primo a vivere fino a 125 anni renderebbe il suo nome davvero immortale.

Pubblicità e affari online l’ italia non sarà più un paradiso fiscale

L’Economia del Corriere della Sera
di Antonella Baccaro
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La via italiana alla web tax è segnata. L’ emendamento che introduce la tassazione sulle transazioni digitali è ormai in porto. Si tratta di un prelievo del 6% su operazioni esclusivamente tra imprese per prestazioni di tipo digitale. A girare la tassa al Fisco è l’ impresa pagante. La norma è costruita in modo da esentare le aziende che hanno sede stabile in Italia. A queste infatti viene riconosciuto nello stesso momento del pagamento un credito d’ imposta a totale compensazione della cifra. Il gettito? A regime anche un miliardo l’ anno. Presidente Massimo Mucchetti, lei che è alla guida della Commissione Industria del Senato, è il primo firmatario dell’ emendamento. Quanto è distante dal disegno di legge da lei stesso presentato un anno fa? «In quel disegno di legge si prevedeva il monitoraggio dei flussi finanziari in uscita dall’ Italia verso soggetti non residenti o privi di stabile organizzazione attraverso l’ azione degli intermediari finanziari e dell’ Agenzia delle Entrate. Superate certe soglie, l’ Agenzia convocava il soggetto non residente per verificare se quel giro d’ affari fosse stato realizzato tramite una stabile organizzazione. Nel caso il soggetto non si presentava o negava lo stato, i ricavi generati in Italia ma fatturati all’ estero venivano qualificati come “redditi diversi” e assoggettati alla relativa aliquota del 26%. Un forte incentivo ad ammettere la stabile organizzazione». Ma quei soggetti in fondo, esportano servizi. Non avremmo rischiato ritorsioni sulle nostre esportazioni? «Questa è la tesi di Hal Varian». L’ economista… «…che dal 2002 lavora solo per Google. E gli sembra di dimenticare che gli Over the top (Ott) non esportano come la Volkswagen ma lavorano in luoghi virtuali, dicono loro, una materia prima: i dati personali raccolti in loco , per rendere i loro servizi. I dati sono il petrolio del Terzo millennio ma le varie Google, a differenza dei petrolieri non li pagano. Certo, remunerare i detentori dei dati è oggi tecnicamente impossibile, ma il loro valore può essere difeso e remunerato attraverso le imposte del Paese di estrazione». Dal suo disegno di legge è scaturita la prima formulazione dell’ emendamento. «Che introduceva l’ imposta al 6% sui ricavi derivanti da attività digitali dematerializzate. L’ imposta non si applicava alle transazioni tra soggetti, residenti o meno, che presentavano un bilancio in Italia. Ma il governo temeva problemi in Europa. Pur non condividendo queste prudenze, ho negoziato un accordo che ha portato all’ attuale formulazione». Deluso? ««No. I negoziati sono fisiologici nell’ attività parlamentare. I progetti ambiziosi faticano a coagulare intorno a sé i necessari consensi. E può essere saggio ascoltare le ragioni altrui, prima di tutto quelle del governo, chiamato a difendere la norma sul piano internazionale». Il ministero definirà per decreto le attività sottoposte a web tax. «Non possiamo cristallizzare in norma primaria realtà in rapido mutamento. Ma non mancheranno, presumo, la pubblicità e i sistemi di prenotazione alberghiera online». L’ Agenzia delle Entrate monitorerà i pagamenti online tramite spesometro e, allo scattare di certi requisiti, farà le verifiche. Competente sarà la Direzione regionale della Lombardia. Perché? «A Milano si sono sviluppate le migliori professionalità per il contrasto dell’ elusione digitale». La norma aggiorna anche i requisiti della “stabile organizzazione” rispetto a quelli dell’ Ocse. «Sì, ma tiene conto degli ultimi orientamenti, per quanto non ancora formalizzati, in risposta alle tecniche elusive». Avete aggiunto due requisiti. «Abbiamo allargato il concetto di risorse oltre il riferimento storico a quelle naturali in modo da aprire la porta alla adeguata considerazione dei dati personali». La seconda novità? «Abbiamo individuato la stabile organizzazione nella “significativa e continuativa presenza economica nel territorio costruita in modo tale da non farne risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso” per consentire più penetranti accertamenti». Ma vi siete confrontati in audizione con questi colossi digitali? «Abbiamo invitato Apple, Google e Booking. Non sono venute, pur frequentando spesso la Casa Bianca, Berlaymont e pure i ministeri italiani. Ma essere maleducati è un diritto». La norma non viola i trattati Ue? «Non li violava la Diverted profit tax inglese alla quale mi sono in parte ispirato. Alcune multinazionali digitali presenteranno ricorsi? Non mi sorprenderebbe, ma avranno buone probabilità di perdere se l’ amministrazione italiana saprà usare gli spazi aperti dalla più recente giurisprudenza europea contro l’ elusione fiscale. Il mood è cambiato. Basta leggere l’ Economist e il Financial Times » . Una novità per la cultura d’ impresa. «In verità proprio il Corriere nel 2009 scoprì il double Irish di Google e pubblicò un articolo di fondo per denunciare i nuovi monopoli della rete e i problemi che creavano per le autorità fiscali e quelle di regolazione. Nel futuro vedo la riproposizione alle Ott degli sharing profit agreement che Enrico Mattei propose ai Paesi petroliferi». La web tax non riguarderà solo le multinazionali ma tutte le imprese web attive nei settori individuati dal ministero, quindi anche quelle italiane? «L’ imposta è erga omnes , ma genera un credito d’ imposta di pari importo che può essere compensato con i versamenti delle imposte sui redditi e, in caso di eccedenze, esclusivamente con quelli dell’ Irap, delle ritenute effettuate su compensi corrisposti a terzi, dei contributi previdenziali e dei premi Inail». Dunque solo le imprese come Google non potrebbero compensare l’ imposta. C’ è pericolo che si rifacciano sui consumatori finali? «No: stiamo parlando di rapporti tra imprese. E comunque mi parrebbe un’ obiezione curiosa dopo tante teorizzazioni liberiste sul trasferimento dell’ imposizione fiscale dalle imprese e dalle persone alle cose». Che gettito avrà la web tax? «Ci sarà un rodaggio operativo non trascurabile. Dunque, prudenza per il 2018 e i 2-3 anni seguenti. A regime ritengo che da queste Ott si possa ricavare un miliardo di gettito se l’ azione dell’ Agenzia delle Entrate sarà penetrante e se il giro d’ affari di queste Ott non perderà ritmo». Non ci sfavorirà essere il primo Paese a imporre la tassa? «L’ Italia è un mercato che genera ricavi marginali, dunque preziosissimi, per Google e Facebook nella misura di 2,3 miliardi, come risulta dalle nostre audizioni. Sarebbero folli a rinunciarvi per non dover pagare 100-150 milioni di imposte».

Re del web, basta trucchi È ora di pagare le tasse

L’Economia del Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
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i l servizio al tavolo dell’ elusione fiscale prevedeva, come piatto forte, un double Irish, dopo il quale veniva servito un Dutch sandwich. La tecnica usata da Google per pagare pochissime tasse sui profitti realizzati fuori dagli Usa era talmente nota da essersi guadagnata soprannomi suggestivi. Una pratica borderline ma legale frutto dell’ ingegno segreto degli studi fiscali internazionali, ma di dominio pubblico dal 2010 quando se ne scoprì il meccanismo: i profitti europei traghettati in due società irlandesi, il Paese Ue più generoso in materia di tasse, e poi definitivamente «sterilizzati» in parte in Olanda, altro mezzo paradiso fiscale europeo (da qui il riferimento al Dutch sandwich), in parte in altre due spiagge off shore: Bermuda e isole Cayman. Le acrobazie dell’ azienda californiana per minimizzare le tasse da pagare in Europa sono state denunciate per anni dalla stampa. Ma non erano un caso isolato: da Apple ad Amazon a tutte le altre multinazionali, non si contano le società Usa finite sul banco degli imputati per il loro atteggiamento spregiudicato nei confronti del Fisco. Centinaia di miliardi di euro di tasse non pagate accumulati negli anni: uno scandalo macroscopico. Un caso provocato dall’ atteggiamento delle multinazionali, certo, ma anche dal mancato aggiornamento dell’ anacronistica normativa fiscale americana e dai varchi lasciati dalle diverse legislazioni europee. La pubblicazione dei Paradise Papers ha aggiunto dettagli interessanti: come Apple che, capito che in Irlanda il vento stava cambiando, ha scelto l’ isola britannica di Jersey. Cambiano le località di deposito circa 2.600 miliardi di dollari accumulati negli anni, (la sola Apple ha 265 miliardi di liquidità «congelata» in giro per il mondo) ma non i meccanismi dell’ elusione, né gli argomenti per giustificarla. Anni fa chiesi al presidente di Google, Eric Schmidt, se non provasse qualche imbarazzo sulla questione. Risposta secca: «Se non sfruttassi tutte le opportunità che il sistema mi lascia per pagare meno tasse verrei cacciato dai miei azionisti». Ora, però, le cose stanno cambiando: la Ue ha messo nel mirino vari gruppi a partire da Apple, chiamata a pagare oltre 13 miliardi di euro di tasse arretrate mentre al Congresso di Washington la riforma fiscale voluta da Donald Trump potrebbe essere in dirittura d’ arrivo: approvata a tempo di record dalla Camera, adesso è al Senato. Supera il vecchio sistema «imperiale» di tassazione universale (le imprese americane tenute a pagare negli Usa e con un’ aliquota molto alta, il 35%, i tributi sui profitti realizzati in tutto il mondo) introducendo un criterio territoriale analogo a quello in vigore in Europa. E che favorisce il rientro dei capitali oggi congelati all’ estero dalle multinazionali con un’ imposta una tantum bassa (12% per le attività liquide, 5% per i profitti in attività illiquide) e pagabile in più anni. Viene così chiusa l’ enorme falla fin qui sfruttata dalle società Usa che si rifiutavano di pagare le tasse nei Paesi nei quali operavano sostenendo di essere tenute a versarle in America. Poi nessuno pagava nulla perché quei capitali sono tassabili solo quando rientrano fisicamente negli Stati Uniti. Accettando il principio territoriale (pagate dove il reddito viene prodotto) Washington sembra venire incontro all’ Europa. Ma con la Ue che, al di là dei proclami (la lettera di dieci Paesi alla Commissione perché introduca una web tax) è ancora incerta sul da farsi (tassare solo i profitti o anche il fatturato o solo alcune sue voci come le entrate pubblicitarie?), l’ insolita rapidità del Congresso rischia di lasciare ancora una volta il Vecchio Continente con un palmo di naso. Forse anche per questo l’ Italia sta cercando di affrontare nell’ ultimo scorcio di legislatura un nodo, la web tax, non risolto negli ultimi anni ( vedi articolo a fianco ). Con l’ approvazione della riforma Usa le multinazionali, che ormai non possono fare più il gioco delle tre carte, avranno tutto l’ interesse a trasferire il denaro negli States (basta ampliare l’ impatto della proprietà intellettuale made in Usa sui guadagni totali). «Chi investe nelle start up rischia molto, quindi va tassato di meno», obiettano da sempre i fiscalisti della Silicon Valley. Ma i giganti digitali non sono più start up da un bel po’. E il Fondo monetario accusa: se le multinazionali avessero pagato le tasse dove hanno prodotto reddito, i governi avrebbero avuto dai 500 ai 650 miliardi di dollari di risorse pubbliche in più, 200 dei quali nelle regioni povere. Più di quanto (142 miliardi) ricevono in aiuti allo sviluppo.

Le regole delle casse restano disallineate

Il Sole 24 Ore
Paola BonsignoreGianluca Natalucci
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Continua il dibattito delle implicazioni sulla discordanza tra la classificazione ed il trattamento del reddito prodotto dalle società tra professionisti (Stp) ai fini fiscali e previdenziali. Se da un lato è riconosciuta la natura di reddito di impresa, dall’ altro è richiesta l’ applicazione e il versamento del contributo integrativo tenendo conto di una quota di partecipazione diversa dalla realtà in presenza di soci “non professionisti”. La direzione centrale Normativa delle Entrate, con il parere protocollo 131773/2014, ha affermato che le Stp «appartengono alle società tipiche disciplinate dai titoli V e VI del libro V del Codice civile eil reddito complessivo è considerato reddito di impresa con la conseguenza che le relative prestazioni non devono essere assoggettate alla ritenuta d’ acconto ». Tale stralcio evidenzia che le Stp: generano reddito di impresa in base agli articoli 6 e 81 del Tuir; non applicano la ritenuta d’ acconto. Queste assunzioni, che escludono totalmente tali redditi dall’ alveo del lavoro autonomo, benché aventi natura professionale, non sembrano sufficienti a risolvere le “incongruenze” sorte ai fini previdenziali. Infatti, le principali casse professionali non si sono perfettamente allineate all’ anzidetto orientamento sia per quanto riguarda la fatturazione che il versamento del contributo integrativo. Continua, infatti, ad essere richiesta alle Stp l’ applicazione del 4% su tutto il volume d’ affari prodotto ai fini Iva proporzionato alla quota di partecipazione dei soci iscritti all’ albo escludendo dal calcolo quella relativa ai soci non professionisti. Per le casse è più rilevante l’ attività esercitata piuttosto che la veste giuridica assunta; il che comporta il disconoscimento, in particolare nel caso di società di capitali, dell’ autonomia rispetto ai propri soci/azionisti. Ai fini del versamento del contributo, invece, è richiesto al professionista di determinarne l’ ammontare «sulla parte del volume d’ affari Iva complessivo della Stp corrispondente alla percentuale di partecipazione agli utili spettanti al professionista stesso. Nel caso in cui nella Stp siano presenti soci non professionisti, la percentuale di partecipazione agli utili deve essere riproporzionata escludendo dal calcolo la quota di partecipazione dei soci non professionisti» (articolo 9 del regolamento Cnpadc). Ad integrazione della delibera, sui siti internet delle Casse si aggiunge che la quota dei non professionisti venga ridistribuita sugli iscritti. Tale modus operandi non solo comporta una modifica della reale quota di partecipazione agli utili, imponendo ai professionisti di versare contributi calcolati su una base imponibile superiore a quella di propria competenza, ma soprattutto sembrerebbe contrario alle norme in tema di società sia di persone che di capitali. L’ impostazione distonica assunta dalle Casse rispetto alla Dcn necessiterebbe di ulteriori chiarimenti per “sanare” giuridicamente le differenze difficilmente sostenibili di assimilare, in ambito di Stp, il reddito di impresa a quello di lavoro autonomo, che vorrebbe l’ esclusione dall’ assoggettamento al contributo integrativo dei corrispettivi, così come avviene per la ritenuta d’ acconto, nonché della quota di volume d’ affari non di competenza del professionista quale base di calcolo, che diverrebbe ancor più articolata in caso di Stp con esercizio a cavallo. © RIPRODUZIONE RISERVATA.


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