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Rassegna Stampa del 12/11/2017

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Indice Articoli

La truffa delle «fake news»

«Bugie, insulti, gossip? L’ unico limite è il codice penale»

La guerra fredda del giornalismo

“È incredibile che nessuno risponda per questi risultati disastrosi in Rai”

Cronisti insultati al corteo per i giornalisti

Perché i giornalisti sono sempre nel mirino

La truffa delle «fake news»

Il Giornale
N.Porro
link

Le fake news esistono, eccome. Cosìcome ieri non si poteva negare la dif-fusione di notizie false. Eppure sonodiventate un’emergenza. E questa èla prima delle fake news che dovremmo combattere. Cerchiamo di mettere un po’d’ordine.Oggi le notizie ritenute non veritiere (mada chi?) si incapsulano nella categoria fakenews, per dare loro una dimensione digitalee per distinguerle dalle banali notizie false,che spaventano meno. Le fake news non so-no dunque semplicemente notizie false, so-no qualcosa di più, per diffusione, persisten-za, e viralità; il passo per diventare un’emer-genza è dunque breve. Un americano me-dio tocca, verrebbe da dire accarezza, il pro-prio smartphone 2.600 volte al giorno. Le fake news, paradosso dei paradossi, combi-nate con i telefoni che sono invece smart,diventano micidiali: fake and smart news. Inun contesto in cui due sole aziende, Face-book e Google, si spartiscono metà dellapubblicità digitale mondiale e rappresenta-no il 40 per cento del consumoLe fake news esistono, eccome. Così come ieri non si poteva negare la diffusione di notizie false. Eppure sono diventate un’ emergenza. E questa è la prima delle fake news che dovremmo combattere. Cerchiamo di mettere un po’ d’ ordine. Oggi le notizie ritenute non veritiere (ma da chi?) si incapsulano nella categoria fake news, per dare loro una dimensione digitale e per distinguerle dalle banali notizie false, che spaventano meno. Le fake news non sono dunque semplicemente notizie false, sono qualcosa di più, per diffusione, persistenza, e viralità; il passo per diventare un’ emergenza è dunque breve. Un americano medio tocca, verrebbe da dire accarezza, il proprio smartphone 2.600 volte al giorno. Le fake news, paradosso dei paradossi, combinate con i telefoni che sono invece smart, diventano micidiali: fake and smart news. In un contesto in cui due sole aziende, Facebook e Google, si spartiscono metà della pubblicità digitale mondiale e rappresentano il 40 per cento del consumo (…) (…) digitale degli americani. Insomma l’ hardware, la pistola, sono gli smartphone. Il software, la pallottola, sono social network e motori di ricerca. E il dito sul grilletto è il nostro, quello di miliardi di individui che generano contenuti, news. Di queste tre categorie, le prime due guadagnano, quanto più la terza si mette a sparare, poco importa a chi. Quest’ ultima non ricava nulla dal meccanismo, se non visibilità, che scambia in modo irrazionale fornendo preziose informazioni personali. Ma questo è un altro discorso che non è il caso di confondere con la presunta emergenza da fake news. A cui velocemente ritorniamo. Le fake and smart news sono diventate un’ emergenza: è colpa loro se giovani e fragili ragazze si suicidano, governi saltano, campagne elettorali mutano direzione, politici e uomini eminenti vengono diffamati e così via. Per la prima volta grazie alle fake and smart news si può compromettere la reputazione di un membro qualunque dell’ establishment, mentre nel mondo pre-digitale era possibile al limite lo sputtanamento della sola «bocca di rosa» e per di più con strumenti di diffusione non proprio di massa. Per questo l’ establishment vuole correre ai ripari: la notizia falsa, ma non solo quella, del passato era in un certo modo arginabile grazie al rapporto con l’ editore. Oggi la proprietà è diffusa, parcellizzata. Ciò rende la situazione esplosiva poiché letteralmente incontrollabile. Come tutte le emergenze, a definirle è un piccolo club di decisori che tra la moltitudine di cataclismi sceglie, con criteri del tutto arbitrari anche se consolidati, quale affrontare. La prima conseguenza è che a occuparsi dell’ emergenza saranno proprio coloro che l’ hanno dichiarata e dunque necessariamente lo Stato, nelle sue diverse articolazioni. La seconda, collegata alla prima, è che il fallimento si ritiene essere sempre del mercato e dunque contro di esso si deve intervenire, presumendo che un pugno di decisori pubblici sappia come meglio affrontare e risolvere la questione. Che d’ altronde loro stessi hanno imposto in cima all’ agenda delle cose da fare. In un cortocircuito maledetto. Nel caso specifico a essere potenzialmente sotto attacco diventa così una nostra libertà fondamentale, quella di parola che gli americani alla fine del ‘700 hanno voluto codificare con il Primo emendamento. Come il welfare state, pensato con la buona intenzione di fornire risorse vitali a chi non le aveva, è stato il grimaldello con cui si è affermato il socialismo europeo, così la guerra alle fake news rischia di diventare una nuova e rinnovata forma di socialismo. Robert Spencer nel suo favoloso saggio sul free speech, non a caso nota come la battaglia per la libertà di parola, per il free speech, appunto, per il rispetto del Primo emendamento, sia stata abbandonata dalla sinistra liberal del secolo scorso, che tanto la rivendicò. La sinistra infatti persegue oggi i suoi fini di centralismo più o meno democratico con strumenti nuovi: con la scusa dell’ hate speech viene ricercato un controllo della parola, una sanzione, una riduzione della portata e della forza del Primo emendamento. L’ Economist, questa settimana, ha dedicato un approfondimento proprio alle fake news, sostenendo che i social media invece di diffondere cultura stanno diffondendo veleni. Lo stesso settimanale inglese nota però come gli americani, i cittadini governati dal Primo emendamento, solo nel 37 per cento dei casi si fidano delle informazioni recuperate sulla rete. Insomma, questa si chiama risposta di mercato. Le fake and smart news esistono, è ovvio. Ma la strada per combatterle non è, dice giustamente Spencer, scardinare il Primo emendamento che ci dovrebbe dare la possibilità anche di fare «discorsi di odio» poiché la loro censura sarebbe un male peggiore della loro diffusione. Si dovrebbe, dicevamo, attendere la risposta del mercato, che sa selezionare la buona informazione dalla cattiva. Almeno quanto è in grado di farlo chi ci governa. Pensiamo ad alcuni casi recenti e capirete bene come la presunzione che in pochi colti, intelligenti, savi possano capire meglio della moltitudine dei bruti che cosa sia fake e che cosa no, si rivela una bufala. Oggi molti si scagliano contro le intromissioni, operate attraverso i social, fatte da operatori interessati e forse russi nella campagna elettorale americana. Tutti volti a favorire Trump. La cosa è tutta da dimostrare, ma diamola anche per buona. Resta il fatto che gli americani hanno poi votato e usato la loro democrazia eleggendo Trump e avviando così un gigantesco cambio di poteri a cui stiamo assistendo a Washington. Gli stessi poteri forti americani scalzati e che criticano le ingerenze social dei russi pro-Trump adottarono i medesimi strumenti digitali di cui si sentono oggi vittime, come leve della loro politica estera. Qualcuno ci sa dire che cosa ci sia di diverso nell’ utilizzo che le passate amministrazioni americane hanno fatto per le altrettanto clamorose rivoluzioni arabe, per l’ estromissione del loro ex alleato Mubarak dall’ Egitto? Rivoluzioni che in molti oggi considerano essere state un pericoloso fallimento e strumento di destabilizzazione di un’ area dove sta prosperando il terrorismo fondamentalista. In quel caso la retorica dei social che facevano scendere i giovani in piazza, funzionava. La fake news, come si è rivelata a distanza di anni, di una rinnovata e laica società araba, allora nessuno riuscì a combatterla. Perché in quel caso stampa, opinione liberal, sinistra internazionale e digitale erano tutti dalla stessa parte. Ora le cose non stanno più così e gli stessi social che hanno alimentato piazza Tahrir, la rivoluzione ucraina e le rivendicazione dei diritti di Teheran sono diventati pericolosi. Ma chi lo ha deciso? Nicola Porro.

«Bugie, insulti, gossip? L’ unico limite è il codice penale»

Il Giornale
Luigi Mascheroni
link

Luigi Mascheroni Fake news, decaloghi anti-bufale per gli studenti (lo hanno stilato il presidente della Camera Boldrini e il ministro dell’ istruzione Fedeli), incitamento all’ odio in Rete e falsi profili. L’ informazione ai tempi della post-verità. C’ è di che preoccuparsi. Ma qualcuno, come Giuseppe Cruciani, conduttore su Radio 24 del programma La Zanzara – voce dissonante e posizioni provocatorie – sostiene che non sono le notizie a essere false. È falso il problema. È così? Le prime fake news sono le fake news? «Le fake news non esistono. Esistono notizie che possono essere interpretate, anche se a qualcuno danno fastidio. E poi esistono notizie false, punto. Il problema delle fake news esiste solo per chi ha interesse a fare una campagna mediatica – cioè una propria propaganda personale – contro certe notizie, o interpretazione delle notizie, che non condivide. Sono i grandi moralizzatori che si scagliano contro il gossip, le posizioni politicamente scorrette, l’ inverificato… Ma non è mai successo nella storia, prima d’ ora, che qualcuno criminalizzasse il gossip, ad esempio. E che cos’ è il gossip, secondo le categorie di certi censori, se non una fake news? Ma il gossip fa parte di un’ informazione sana. Infatti nei Paesi in cui non c’ è gossip non c’ è democrazia». Per qualcuno la democrazia e la libertà di pensiero è messa a rischio anche dai poliziotti del politicamente corretto. «Basta non retrocedere di un passo, mai. Io ne so qualcosa. Se faccio l’ elogio della carne, i vegani mi vogliono silenziare. Se parlo di abitudini sessuali, insorgono i perbenisti. Se critico i musulmani, mi accusano di islamofobia. Se dico che non voglio clandestini in Italia divento un razzista senza diritto di parola. Se manifesto dubbi sul caso Weinstein, sono uno sporco sessista. Tutti vogliono insegnarti come devi parlare. Ecco: quando qualcuno mi chiede di moderare i termini, senza spiegarmi il perché, io continuo. Anzi, alzo i toni. La cessione di spazi di libertà d’ espressione è sempre la premessa alla cessione di spazi di sovranità. Mai retrocedere. Ci si ferma solo davanti al codice penale, oppure a un’ Authority». E l’ hate speech? Alcuni giuristi americani pensano che alcuni discorsi che potrebbero essere considerati incitamento all’ odio debbano essere esclusi dal Primo emendamento che tutela la libertà di espressione a 360 gradi. «Una follia. E non a caso sostenuta dalle stesse persone che denunciano il pericolo delle fake news, che vogliono zittire le voci dissonanti, che chiedono di oscurare i siti internet complottisti, suprematisti, negazionisti… Invece tutto ciò – anche se nessuno di noi condivide le idee degli incitatori all’ odio – è fondamentale in un sistema di informazione democratico. Prima deve rimanere ferma la libertà delle proprie opinioni, sempre e comunque. Dopo c’ è il codice penale e tutti i mezzi che lo stato di diritto prevede per rivalersi di eventuali offese, calunnie, diffamazioni…». Il punto è che la stragrande maggioranza dei cittadini si informa tramite i social network. E molti dicono che il web è incontrollabile, che molti siti sono vere fogne… «Non sopporto i giornalisti che vogliono emendare il web, renderlo più buono, togliere insulti e volgarità… È la negazione stessa del web. È come pensare un mondo senza delitti. Una posizione ridicola oltre che inutile. Internet, pur col suo lato oscuro, aiuta a fare emergere e riconoscere la parte nascosta di un Paese, di un mondo. Le aggressioni verbali, gli insulti, le falsità possono e devono essere perseguite per legge, anche se l’ iter è lungo e difficoltoso. Però, al netto di tutto questo, il web mostra ciò che altri mezzi non sono in grado di vedere. È un po’ quello che accadde con Radio parolaccia, quando Radio radicale trasmetteva senza selezioni e censure le telefonate del pubblico: fu lì, nei primi anni ’90, che si capì la pancia del Paese, l’ ascesa della Lega, la società che cambiava… Cose di cui i giornali non si erano accorti». Ecco, i giornali… «Perché? Nei giornali non ci sono fake news? Non raccontano bugie? Non fanno l’ interesse di qualcuno? Si condanna il web come immorale e poi si fa finta di non vedere i conflitti di interesse dei gruppi editoriali, i legami tra informazione e politica, tra giornalismo ed economia, l’ inesistenza in Italia di un editore puro… E comunque, non solo il web è più libero, ma anche meno ipocrita: è di parte, fazioso, anche violentemente fazioso a volte, pieno di spazzatura e volgarità magari. Ma non si erge a depositario della Verità, come fa la grande informazione».

La guerra fredda del giornalismo

Il Fatto Quotidiano
Stefano Feltri
link

“I nostri soldati sono pronti a tutto, con il loro equipaggiamento possono affrontare ogni situazione, io li chiamo così i nostri giornalisti: soldati”. Irina Kedrovskaya si occupa di progetti web da un decennio e il suo successo maggiore è Sputnik: “In tre anni siamo diventati uno dei siti di informazione più importanti, sui social network raggiungiamo oltre 2 milioni di persone ogni giorno”. Basta un tour nella redazione centrale di Spuntik, a Mosca, per capire le ambizioni: centinaia di giornalisti lavorano in silenzio assoluto sui loro computer, maxi-schermi a parte proiettano le varie home page di Sputnik e Bbc, molti editor hanno davanti un doppio schermo, su uno ci sono testi in russo, su altri in arabo, perché è in Medio Oriente che si combatte una delle battaglie decisive sull’ opinione pubblica, la guerra in Siria si vince o si perde più sui media che sul campo, visto che quasi nessuno è in grado di verificare cosa accade davvero. Dal soffitto pende un cilindro su cui scorrono le news a rullo. Anche se il palazzo è sede dell’ agenzia governativa Rossotrudnichestvo (al piano terra si tengono conferenze stampa dei ministri), l’ atmosfera è quella di una vera agenzia stampa globale. Quando arriva una breaking news, per esempio un attentato, i giornalisti sanno perfettamente cosa fare: lanciano la notizia flash, poi si attivano i protocolli per preparare infografiche e approfondimenti, i cronisti sanno come muoversi, da Mosca gli editor coordinano il lavoro in 80 città nel mondo, gli algoritmi adattano le diverse home page in inglese, in russo e in tutte lingue in cui i contenuti vengono diffusi. A Sputnik non si considerano concorrenti di Tass o Interfax, due storiche e un po’ polverose agenzie russe, bensì di Reuters o Bloomberg. La “macchina della propaganda” Assieme al gruppo televisivo RT , già Russia Today, Sputnik è il principale strumento della “macchina della propaganda del presidente Vladimir Putin”, secondo un report della Cia americana datato 6 gennaio 2017. Il sito e la tv, scrive la Cia, “ha contribuito a influenzare la campagna elettorale (del 2016, ndr) come piattaforma per i messaggi del Cremlino al pubblico russo e internazionale”. A Sputnik e al Cremlino sono consapevoli di questa fama, ma la nuova Guerra fredda, come quella vecchia, si combatte anche sul piano psicologico. E la Russia considera un diritto contrattaccare. Irina Kedrovskaya è uno dei relatori alla “Scuola Sputnik per giovani giornalisti”, programma organizzato dall’ agenzia governativa Rossotrudnichestvo per rappresentanti dei media, cinque giorni a Mosca per “facilitare una percezione oggettiva dei cambiamenti economici, scientifici, culturali ed educativi che avvengono in Russia”. Quaranta giornalisti, da Cuba all’ Iran alla Serbia alla Slovacchia all’ Italia, anche il Fatto Quotidiano ha potuto partecipare. I giornalisti dei Paesi più ostili a Vladimir Putin mancavano: nessun americano, finlandese, francese o tedesco. Sputnik è il cuore di quella che Usa e Ue considerano la macchina della propaganda di Putin, capace addirittura di cambiare l’ esito delle elezioni negli Stati Uniti, a favore di Donald Trump. Twitter ha annunciato di non accettare più inserzioni a pagamento da RT e da Sputnik, “vogliamo proteggere l’ integrità dell’ esperienza degli utenti”, ha spiegato l’ azienda. “Non pensavo che Twitter fosse sotto il controllo dei Servizi segreti Usa, ma ora Twitter sembra ammetterlo”, ha risposto Margarita Simonyan, direttore di Rt e architetto di questa nuova era dei media governativi russi. Twitter donerà in beneficenza 1,9 milioni di dollari ricevuti da RT e Sputnik durante le elezioni del 2016. Dimitri Peskov, il potente portavoce di Putin, ha spiegato a Jim Rutenberg del New York Times che non è la Russia ad aver scelto di combattere questa guerra a colpi di news, si è limitata al “contrattacco”: tutto comincia con le “rivoluzioni colorate” nei primi anni del potere putiniano a inizio anni Duemila. Georgia, e poi Ucraina, Kirghizistan: al Cremlino si convincono che l’ Occidente usa organizzazioni non governative e media per sobillare le opinioni pubbliche nell’ area di influenza russa e si prepara a fare lo stesso a Mosca. Tra le controffensive, nel 2005, Putin decide di finanziare il progetto di Russia Today, affidato a una giornalista 25enne, Margarita Simonyan. L’ idea era di creare un network tv che trasmettesse ai russi all’ estero un’ immagine rassicurante del Paese, ma la Simonyan lo ribattezza Rt e lo trasforma nella risposta alla Cnn. Rt non parla di Russia, parla del mondo da una prospettiva russa. Nel 2014 la stessa operazione viene replicata sul web: la radio Voice of Russia e l’ agenzia di stampa Ria diventano Sputnik (il satellite lanciato nel 1957 è l’ ultimo trionfo tecnologico che la Russia può vantare). Modello Al Jazeera Il progetto nasce con una esplicita matrice governativa, da un decreto del Cremlino. “Quando qualcuno voleva scrivere di Russia, non poteva accedere direttamente a contenuti prodotti qui e doveva basarsi su media locali che li mediavano, con molte distorsioni, per questo è nato Sputnik – spiega Vasily Pushkov, responsabile dei progetti internazionali di Sputnik -. Il modello sono Al Jazeera del Qatar e l’ agenzia cinese Xinhua, Sputnik deve essere un prodotto competitivo con le grandi agenzie di stampa internazionali”. Ma che credibilità può avere una testata che è espressione diretta del potere di Vladimir Putin? Vasily Pushkov si aspetta la domanda, anzi, si può dire che è proprio per dare la risposta che organizza la “Scuola per giovani giornalisti”. E la risposta è articolata: “Io sono nato nell’ Unione sovietica, negli anni Ottanta, e voi in Occidente denunciavate un regime che bloccava la pluralità delle fonti di informazione, ci spiegavate l’ importanza di ascoltare ogni punto di vista, io ora guardo Euronews ogni mattina, ma perché dovrebbe bastarmi?”. Tradotto: avete voluto la libertà di espressione? Ora dovete accettare che pure la Russia si esprima. Propaganda e indipendenza, poi, sono due concetti scivolosi: “Ne parliamo ancora come se fossimo nella Guerra fredda, ma davvero oggi qualcuno pensa che si possano manipolare le opinioni, quando perfino in Corea del Nord la gente si informa con i telefoni comprati al mercato nero? A tutti i giornalisti piace definirsi indipendenti, ma c’ è sempre qualcuno che paga il loro stipendio e a nessuno piace spendere per leggere cose che non apprezza”. Se Sputnik fosse soltanto un sito che racconta l’ attualità con una prospettiva russa, nessuno lo noterebbe. Ma quello che scrive ha conseguenze politiche, tanto che il Congresso americano non accetta più gli accrediti dei suoi giornalisti, li tratta come rappresentanti di un governo estero invece che da cronisti. E il presidente francese Emmanuel Macron ha espulso il corrispondente di Sputnik dal team autorizzato a seguire l’ Eliseo: durante tutta la campagna elettorale il sito russo pubblicava articoli come “Macron potrebbe essere un agente americano, lobbista degli interessi delle banche” (Sputnik vuole sempre mantenere una patina di oggettività: non si tratta di un editoriale ma di un’ intervista a un oscuro deputato dei Republicains, Nicolas Dhuicq le cui parole il sito si limita a riportare). Decidere che posizione tenere sulle elezioni in Francia, o su quelle imminenti in Italia, sembra più una questione di politica estera che di linea editoriale. Anton Ansimov, giovane vicedirettore di Sputnik, rivendica: “Mai ricevuto una telefonata dal Cremlino per dirmi come coprire le elezioni in Francia”. Poi, forse con una punta di ironia, aggiunge: “Vorrei che fosse successo, così sarei stato sicuro di non sbagliare”. Non si tratta tanto di inseguire le dichiarazioni di Putin, o di anticiparle. Sputnik ha un metodo, prima che un contenuto: seminare il germe del dubbio sul Web e sui social, mettere in discussione la versione dei media tradizionali, cioè occidentali. Un esempio: il dittatore Bashar al Assad è sostenuto dalla Russia, ma è anche considerato il principale responsabile della morte di oltre 400.000 siriani dal 2011 a oggi. La principale fonte dei dati sulle vittime è l’ Osservatorio siriano per i diritti umani. “Sapete quanta gente ci lavora?”, chiede Oleg Dimitriev, consulente per la formazione di Spuntik, alla platea di 40 giornalisti internazionali. Risposta: “Una sola persona e da Londra”. Quindi non ha nessuna credibilità, come ha denunciato Rt nel 2015. Ma nel 2013, il New York Times aveva dato anche alcuni dettagli che i media russi omettono: a Londra, l’ Osservatorio è gestito soltanto da Osama Suleiman, che però si avvale di uno staff di quattro persone in Siria e 230 attivisti sul campo. Chi avrà ragione? Rt o il New York Times? Già farsi la domanda indica che qualche giorno nella “scuola” di Sputnik inizia a produrre i suoi effetti. A ciascuno le sue “fake news” Oleg Shchedrov, già giornalista e poi direttore della russa Interfax, un ventennio alla Reuters è il profeta supremo del dubbio: divide noi “giovani giornalisti” in quattro gruppi e assegna due temi: il veto della Russia nel Consiglio di sicurezza Onu sulla risoluzione anti-Assad sulle armi chimiche e il pericolo nucleare della Corea del Nord. Due gruppi devono analizzare la copertura dei media occidentali, altri due dei media russi in inglese, per identificare i pregiudizi, le “parole emozionali” che vogliono provocare reazioni nel lettore, il rispetto della regola che prevede di sentire sempre la controparte (cioè i russi). Non è difficile intuire lo scopo dell’ esercizio. “Se vuoi uccidere una storia, rendila molto oggettiva”, è una delle massime che Shchedrov dispensa per spiegare la linea della Russia sulla Corea del Nord (critica ma senza arrivare a trovarsi a fianco degli Usa contro Kim Jong-un). I “giovani giornalisti” ascoltano e prendono appunti: molti arrivano da agenzie di stampa o televisioni pubbliche di Paesi con una democrazia dalla qualità discutibile. Sono abituati a questi paletti. Per alcuni partecipare alla scuola di Sputnik è un problema: il gruppo di giornaliste bulgare viene criticato in patria, un giornalista di un Paese dell’ Europa ex sovietica (evitiamo il nome) evita di fare domande così non deve presentarsi e citare la testata per cui lavora. Teme di ritrovarsi sulla lista nera dei giornalisti filo-putiniani e di rovinarsi la carriera. Perché Sputnik è ancora piccolo e marginale in Paesi come l’ Italia – ci scrivono dal veterano Giulietto Chiesa a Marco Fontana, che è anche responsabile dell’ ufficio stampa dell’ Ordine dei pediatri – in zone più sensibili per gli interessi russi Sputnik è una voce influente: in Libano viene rilanciato da una tv, in Slovacchia l’ agenzia di stampa pubblica Tsar ha dovuto cancellare il suo contratto con Sputnik dopo un solo mese per le proteste. E così via. Ogni settimana, la Commissione europea produce una “Rassegna di disinformazione”, a cura di una specifica task force, che censisce i casi di fake news o manipolazioni dei media russi o filo-russi, Sptunik è spesso il bersaglio delle accuse. Ma il ministero degli Esteri guidato da Sergej Lavrov reagisce di conseguenza. “Abbiamo lanciato anche noi un progetto di lotta alle fake news, analizziamo gli articoli che parlano di Russia sui principali media e poi denunciamo sul sito del ministero quelli che contengono bugie”, spiega al Fatto Sergey Nalobin, il funzionario a capo delle strategie digitali del ministero degli Esteri. È uno degli ultimi incontri nel seminario di Sputnik e sembra confermare quanto negato a più riprese nei giorni precedenti, cioè che i nuovi e aggressivi media internazionali basati in Russia e voluti dal Cremlino siano strumenti della politica estera di Putin. “Noi vogliamo soltanto offrire risposte a chi viene privato delle informazioni corrette da parte di giornalisti poco professionali che neppure sentono il parere dell’ ambasciata o del ministero quando scrivono di Russia”, spiega Sergey Nalobin che ama citare Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ridono di te, poi combattono, poi vinci”. Al ministero sembrano pensare di essere nella penultima fase: nessuno ride più ma si combatte. Tra le varie attività, il team di 85 persone che si occupa di informazione duella anche via Twitter e Facebook con le fake news anti-russe: “Cerchiamo di rispondere in tempo reale, valutiamo se l’ autore dell’ affermazione è un troll o un esperto, un politico o un giornalista e se l’ interlocutore è rilevante replichiamo subito”. L’ unica Russia da mostrare all’ estero Oltre ai seminari, la “scuola per giovani giornalisti” prevede anche una breve passeggiata sulla Piazza Rossa e una singolare scelta turistica per l’ unico momento dedicato alle visite di monumenti: il Cremlino Izmailovo, una specie di ricostruzione della Russia in miniatura, molto lontano dal centro dove guide autoctone in abiti finto-tradizionali di poliestere illustrano come si faceva il pane nelle campagne, la storia delle Matrioske e l’ arte ceramica. Tutto finto, incluse le chiese ortodosse di legno senza chiodi, questa imitazione risale al 2001, al debutto dell’ era Putin. Chissà, forse è un modo di trasmettere ai giornalisti dei Paesi considerati amici l’ immagine di una Russia che rimane connessa alle sue radici ma si è liberata di tutta la sua storia recente, dagli zar al comunismo al caos degli anni Novanta. C’ è il finto Cremlino e poi c’ è quello vero, da dove Vladimir Putin governa su una Mosca immacolata e ordinatissima pronta ad accogliere trionfalmente i Mondiali di calcio del 2018. E questa è la sola Russia che Sputnik e gli altri media di Mosca vogliono che venga raccontata.

“È incredibile che nessuno risponda per questi risultati disastrosi in Rai”

Il Fatto Quotidiano
Alessandro Ferrucci
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Appuntamento nel centro di Roma: c’ è sciopero. Caos, auto in tripla fila, vigili arresi. Massimo Giletti è in maglione, maglietta, giacchetto, casco sotto il braccio; cammina con passo da velocista, si alza sulle punte per controllare la situazione. “Si muove in macchina?” Sì. “È pazzo”. Lei è adrenalinico. “Dice? Non lo so. Forse sono solo concentrato, non vedo l’ ora di debuttare con Non è l’ Arena (questa sera alle 20.30 su La7): ci penso da mesi, aspetto questo momento come poche volte nella mia vita. Finalmente”. Ci sediamo da qualche parte? No, no, va bene la macchina, stiamo più tranquilli, si infili in quel buco, sterzi, non diamo fastidio (Giletti è talmente “concentrato” da dare anche le indicazioni su come manovrare l’ automobile). Giovedì in conferenza stampa le sono uscite le lacrime Non me lo aspettavo, pensavo che il tempo avesse maggiormente rasserenato il mio animo. Sbagliavo. Evidentemente quando riavvolgi il nastro e ripercorri la tua vita non sempre puoi calcolare tutto. In questo periodo si è sentito solo? A volte è capitato, ma credo sia normale quando stravolgi la tua quotidianità: lasciare la Rai mi ha impressionato, in viale Mazzini sono professionalmente nato e cresciuto, ho nella testa ogni sfumatura di quei corridoi, pure i suoi odori. Giovanni Minoli ha raccontato di quando le ha fatto passare l’ intera notte sotto casa di Andreotti Non proprio tutta. Mi ero informato sugli orari della messa, sapevo che la prima era alle sei del mattino, la seconda alle sette, quindi arrivai alle cinque meno un quarto, in motorino, e insieme all’ operatore. A un certo punto, ecco il Divo E stranamente ero solo nonostante l’ avviso di garanzia ricevuto. Oltre a me, dopo, anche Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti: presi le sue ultime parole prima di una sorta di silenzio stampa per via dei problemi giudiziari. A tu per tu con Andreotti. I suoi occhi, lo sguardo tagliato, sono una delle immagini del mio archivio mentale. Insomma, è sotto ansia da debutto Di solito non sono teso, ma questa è realmente un’ altra storia, una diversa consapevolezza, una differente avventura con accenti in grado di moltiplicare le emozioni. Sotto pressione. C’ è la responsabilità di essere un acquisto serio in una società nuova, più specializzata nell’ informazione e che con me sta cercando di aprire nuovi varchi. Con un bagaglio di quattro milioni di spettatori. Di pubblico Rai. Ora posso solo sperare di traghettare parte di quei numeri su La7; nella vita uno deve avere coraggio, altrimenti è finita. Non sempre chi è andato via dalla Rai ha ottenuto lo stesso successo. È sempre complicato, ho visto la fatica iniziale di Floris Comunque se non volevo azzardare, potevo restare in Rai: mi avevano offerto un varietà in prima serata. L’ ha stupita la vicenda della Gabanelli? No, perché conosco Milena. Forse sono loro a non sapere bene chi è, come non avevano capito chi sono io. Conoscere o non volere conoscere? Forse sono abituati a lavorare con i quaquaraqua, con gente che si accontenta di un posto di prestigio o di denaro. Una che è andata in Jugoslavia appresso alla tigre Arkan non si accontenta di due lustrini e un po’ di soldi. Lei è stato in Iraq Sono arrivato a 200 metri dall’ Isis e ho intervistato due miliziani appena catturati. Dicevamo: tutta la sua esperienza è in Rai E pensavo fosse meglio avere più padroni che uno solo. Tradotto Sono cresciuto in un’ azienda pluralista, con delle grandi teste pronte a dialogare. Oggi mi sembra si punti a una normalizzazione, che passa attraverso dei rischi. Con risultati non eccellenti. Ho fatto una scelta di non commentare i dati attuali: sono talmente tanti i programmi che non funzionano. Però mi domando: ma chi pagherà per questi errori? Se fosse una società privata, qualcuno ne avrebbe risposto. Tracollo economico. È tutto collegato: immagine, punti di share, pubblicità. Il suo passaggio dalla realtà pubblica a quella privata. Intanto è stato decisivo Urbano Cairo: mi ha incontrato, parlato, il confronto è proseguito a lungo e con la giusta pazienza. Mi ha colpito il dialogo. In Rai non dialogava? Certo. Però dopo la trasmissione ero quasi costretto a staccare il cellulare: venivo assalito dalle telefonate di dirigenti. Complimenti o proteste? Un giorno un direttore generale mi disse: “Non riesco a capire: lei da che parte sta?” E io: “Grazie per il complimento”. Comunque le pacche sulle spalle arrivavano il lunedì alle dieci del mattino, dopo aver letto i dati dell’ Auditel: per undici volte abbiamo raggiunto livelli più alti del serale di Rai1. Momenti difficili? Quando tocchi i reali poteri dai fastidio, altrimenti non saremmo oggi qui a parlarne. In particolare, in quale occasione? Ho avuto fastidi quando mi sono occupato dei limiti sulla ricostruzione post-terremoto: un episodio così palese era ed è un problema per questa classe politica. Quattro milioni di spettatori bisogna saperli gestire? Si impara, Rai1 non è una rete qualsiasi, è la più importante d’ Italia: la libertà di Rai2 o Rai3 non la puoi ritrovare; uno deve rivestire anche le proprie reazioni, vuol dire maggiore responsabilità Perché la seguono? Chi guarda ha fiducia in te, e bisogna lavorare sulla credibilità, essere disposti a lasciare perdere, o a rallentare pur di arrivare alla qualità giusta. Ha raccontato che il suo gruppo di lavoro non l’ ha mollata, sono ancora con lei. Siamo pochi, non raggiungiamo i quindici: basta una febbre condivisa e sono cavoli. Ma non smetterò mai di ringraziarli, il loro gesto è stato commovente. Del direttore di Rai1, Mario Orfeo, si definiva amico Amico è una parola esagerata, con lui ci siamo dimostrati sempre un forte rispetto; evidentemente in certi momenti si plana su qualunque atteggiamento o rapporto. Come ha passato l’ estate? Ho gestito una tempesta emotiva veramente faticosa, ne sono uscito, ma questa esperienza mi ha segnato, Ha pianto altre volte? Sì, soprattutto quando ho pensato alle persone che non avrei più rivisto in Rai. Ha iniziato presto a lavorare Ma non come giornalista. Inizialmente sono andato in Inghilterra, poi assistente universitario in Italia, quindi un’ avventura in Brasile insieme a una merchant bank, infine due anni in azienda con mio padre Alla catena di montaggio? Quando entrai il primo giorno, lui mi disse: ‘Prendi una sedia e vieni nel mio ufficio’. Invece finii in mezzo agli altri lavoratori: se non capisci e vivi la vera fatica, non puoi comandare. Era una vecchia regola di casa Agnelli Giocavo a pallone con Giovannino. Una volta abbiamo preso insieme un treno per Genova; mi stupii quando acquistò un biglietto di seconda classe: ‘È fondamentale conoscere le persone, e sarò sempre grato a mio padre per l’ educazione che mi ha trasmesso

Cronisti insultati al corteo per i giornalisti

Il Tempo
SUSANNA NOVELLI
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Una manifestazione squisitamente politica, a una settimana precisa dal ballottaggio decisivo tra 5 Stelle e centrodestra, per la guida del X Municipio. E come un paradosso, a dire il vero sfortunato almeno per le intenzioni del sindaco grillino, nel corteo contro la mafia indetto a sostegno della troupe Rai aggredita, sono volati insulti proprio ai giornalisti, prima da esponenti dell’ estrema sinistra, poi dai militanti grillini: «Fate schifo, siete delle mosche, servi del potere». Anche gli insulti insomma copia incolla del leader maximo Beppe Grillo. Alla testa del corteo «non politico» Virginia Raggi con al suo fianco, guarda caso, la sfidante al ballottaggio Giuliana Di Pillo, circondate da diversi rappresentanti dell’ amministrazione capitolina, dalla Giunta al consiglio comunale, alcuni parlamentari del M5s quali Alessandro Di Battista, Paola Taverna e la candidata alla Regione Lazio, Roberta Lombardi. Il centrodestra, che pure aveva aperto alla partecipazione alla manifestazione ha vben spiegato l’ assenza: «Abbiamo dato la nostra disponibilità a mezzo stampa a partecipare al corteo di oggi organizzato dalla sindaca Raggi, per dire no alla criminalità e per esprimere ancora la nostra solidarietà al giornalista e all’ operatore Rai aggrediti nei giorni scorsi da Roberto Spada. Ma dobbiamo constatare che purtroppo non ci sono le condizioni per marciare insieme perché la manifestazione è evidentemente di parte, mentre invece partecipammo a quella indetta da Veltroni anni fa perché dimostrò di essere capace a gestire una vera manifestazione unitaria», dichiarano in unanota congiunta, Monica Picca candidato del centrodestra alla presidenza del Municipio X, Massimo Milani commissario romano di Fdi-An, Davide Bordoni. Se la giocano invece diversi esponenti del Pd e di Sinistra Italiana, che tentano di sfilare la «bandiera politica» (non visibile ma ben presente) al MoVimento. Presenti allora tra gli altri l’ assessore alle Politiche sociali della Regione Lazio, Rita Visini e il Presidente dell’ Osservatorio regionale sulle Mafie, Giampiero Cioffredi, oltre a il sindaco dem di Fiumicino, Esterino Montino e Stefano Fassina, consigliere capitolino e deputato di Sinistra Italiana. Del resto, a onor di cronaca, il corteo di ieri era stato indetto da Laboratorio X la lista civica di sinistra, al quale poi si sarebbe “agganciata” la Raggi. «Non arretriamo di fronte alle mafie, non arretriamo di fronte alla criminalità, noi ci siamo ha detto il sindaco Raggi -. Le istituzioni ci sono e sono al fianco dei cittadini, come deve essere». La ciliegina sulla torta del corteo «non politico» ce l’ ha messa poi il capogruppo M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara: «Era una manifestazione contro la mafia e senza bandiere, chi non ha partecipato ha fatto capire da che parte sta. Del resto Picca non ha mai saputo dire una parola di roghi dei cassonetti in serie, non ha mai preso le distanze da Spada e Casapound». Ecco, appunto, non era politica. Era il 27 giugno e dopo il caso del minisindaco Andrea Tassone, il Movimento Cinque Stelle chiamava a raccolta i cittadini di Ostia per una fiaccolata dell’ onestà il 27 giugno alle 21 dal porto turistico di Roma. «Roma è ostaggio di criminali e politici corrotti. Il PD c’ è dentro fino al collo. Il 27 giugno ad Ostia ci sarà una fiaccolata dell’ onestà con i parlamentari del M5S». A chiamare a raccolta iscritti simpatizzanti e cittadinanza era il parlamentare del Movimento Cinque Stelle Alessandro Di Battista. Non mancarono riferimenti alla giornalista Federica Angeli rea, a detta loro, di essere una ex fan di Tassone. Allora i giornalisti erano i «cattivi», magicamente, dopo l’ aggressione a Daniele Piervincenzi, sono diventati «buoni».

Perché i giornalisti sono sempre nel mirino

L’Espresso

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Sul mestiere di giornalista è stato detto tutto il bene e tutto il male possibile, perché è un lavoro che si svolge nei pressi del potere, e (talvolta) al potere si oppone. Pensando alla grandezza storica di questa professione vengono in mente nomi di giornalisti che in tutto il mondo con il loro lavoro di ricerca e denuncia hanno salvato la vita a innocenti condannati a morte dai tribunali, oppure hanno realizzato inchieste fondamentali per la democrazia. E anche restituito un po’ di verità a questo Paese che ha sempre avuto paura di conoscerla. La tentazione di rimuovere la memoria è forte. Il lavoro svolto dai giornalisti è un vaccino contro l’ ignoranza e le fake news, necessario perché l’ opinione pubblica avvertita e responsabile sviluppi gli anticorpi. Ma è una pillola che non va giù, in particolare a potenti e criminali. Sarà anche per questo che non esiste altro Paese occidentale in cui sono stati assassinati tanti cronisti: uccisi dalle mafie e dal terrorismo politico. I giornalisti che muoiono in genere sono inviati di guerra. In Italia, invece, vengono uccisi e minacciati. Potenti e criminali, mafiosi e terroristi vogliono dare una lezione ai vivi, insegnare loro il dovere del silenzio, l’ obbedienza dell’ oblio. E se al silenzio non ci siamo abituati lo dobbiamo anche a questi uomini che non ci sono più. Tutti avevano un unico obiettivo, quello di informare e denunciare. Quarant’ anni fa il vice-direttore della Stampa Carlo Casalegno, ex partigiano e liberale democratico fu ucciso dalle Brigate rosse per le sue idee, come racconta Ezio Mauro. Nel 2014 Andrea Rocchelli è caduto in Ucraina per il suo lavoro di photoreporter, come tanti che si sono spinti all’ estero a raccontare traffici illeciti e i crimini contro l’ umanità. O i tanti cronisti vittime di Cosa nostra. Profili diversi che testimoniano come sia cambiato il mestiere, ma avevano in comune la passione per la notizia, senza alcuna vocazione all’ eroismo, solo al giornalismo. Vite che appartengono alla storia umana, politica e civile di questo Paese. Dovremmo affermare quotidianamente il diritto “a sapere” con il giornalismo d’ inchiesta, per sua natura il più scomodo e coraggioso, che si contrappone alla diffusa e purtroppo trasversale tentazione di dire che non conoscere è meglio. L’ ultima ad aver pagato con la propria vita è Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa con un’ autobomba. Assassinata perché raccontava troppo. Lasciata sola dalle autorità cui aveva denunciato minacce di morte. C’ è voluta una morte così violenta ed eclatante, nel tipico stile terroristico-mafioso, per far vedere che Daphne era una giornalista che doveva essere protetta, non solo dalle istituzioni, ma anche dalla società dell’ isola in cui viveva. Matthew, il figlio di Daphne, racconta nel nostro giornale la mattina di sabato 4 novembre, giorno successivo ai funerali di sua madre. È uscito presto da casa, e i poliziotti che dovevano vigilare su di lui e sulla sua famiglia, davanti alla sua abitazione, dormivano nelle loro macchine. Racconta di essere tornato sulla scena dell’ esplosione dove ha trovato un bloc-notes con l’ intestazione “Premio Sakharov” che pendeva da alcuni ramoscelli bruciati. Su una pagina c’ era scritto: «Ognuno ha diritto alla libertà di espressione». Al sacrificio di Daphne potrebbe essere dedicato il grande lavoro d’ inchiesta “Paradise Papers” del consorzio investigativo ICIJ firmata in Italia da L’ Espresso in sinergia con Report-Rai3. I giornalisti di queste due redazioni hanno scavato per mesi in una montagna di quasi quattordici milioni di documenti alla ricerca di politici, imprenditori, attori, cantanti e campioni sportivi che hanno investito nei paradisi fiscali. Dopo un lungo lavoro di riscontri e verifiche è stato possibile ricostruire vicende di grande rilievo politico e civile. Con ricadute anche sull’ Italia. Raccontiamo storie importanti e pesanti e lo facciamo in collaborazione con Report, mettendo in campo due modi di fare inchieste, due linguaggi giornalistici, quello della carta stampata e della scrittura e quello televisivo e delle immagini, con una concezione comune dell’ informazione. Di quel giornalismo d’ inchiesta, che non piace ai potenti. n.


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