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Rassegna Stampa del 01/10/2017

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Indice Articoli

Prix Italia e le fake news: «L’ antidoto è la tv sul territorio»

Bindi contro Confindustria e Caltagirone: “La stampa fa gli interessi dei costruttori”

La carta che salva il giornalismo

Sul diritto d’ autore dalla Ue soluzioni ancora controverse

Rivoluzione in tv film italiani d’ obbligo in prima serata

Digitale e carta stampata: la convivenza è possibile

Prix Italia e le fake news: «L’ antidoto è la tv sul territorio»

Corriere della Sera
R. Fra.
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MILANO L’ anno scorso Lampedusa, luogo simbolo di confine, per parlare di immigrazione. Quest’ anno Milano, luogo chiave di concretezza, per tornare ai fatti e confutare le fake news. La 69ª edizione del Prix Italia – il concorso internazionale organizzato dalla Rai che premia ogni anno il meglio di tv, radio e web – si chiude oggi a Milano e ha acceso il dibattito sul tema che è stato scelto come titolo della manifestazione («Back to Facts. La realtà contro le false notizie»). «Il Prix conferma il radicamento sul territorio della Rai, che ha da sempre una caratteristica glocal: tante sedi che presidiano il territorio, ma allo stesso tempo uno sguardo nazionale e sovranazionale. È questo il tratto distintivo delle emittenti europee di Servizio pubblico – spiega Karina Laterza, segretaria generale del Prix Italia -. La nostra presenza capillare sul territorio è anche un antidoto alle fake news, agli abbagli e ai falsi costruiti in malafede». Milano era il luogo ideale per questo confronto: «Abbiamo scelto Milano per l’ energia di una città in pieno sviluppo europeo, avendo a fianco nella preparazione, con convinzione e generosità, il sindaco Sala e il presidente della Regione Lombardia Maroni». C’ è quasi un aspetto positivo in quest’ epoca di notizie gassose, che si gonfiano e sgonfiano alla stessa velocità: «Questo caos informativo è anche un’ occasione per ritrovare un’ identità, per fortificare la responsabilità che noi editori abbiamo nei confronti della trasparenza e della chiarezza». Il pericolo ora sono anche le echo-chamber, ovvero quei luoghi del web dove le idee scambiate, essenzialmente, si confermano le une con le altre. «Si cercano rassicurazioni alle proprie opinioni, si insegue solo chi la pensa come te, alla fine è come parlarsi allo specchio». Così la Rete diventa luogo di conforto anziché confronto, pulpito per una predica ai già convertiti. Il racconto della realtà passa anche attraverso le vie della fiction del Servizio pubblico, con la valorizzazione delle diversità territoriali e culturali. Dall’ autunno scorso Rai Fiction ha sfruttato tutte le varietà del territorio, non c’ è regione in cui non sia stata ambientata una serie, dalla Sicilia di Montalbano alla Valle d’ Aosta di Schiavone. Uno dei prossimi progetti è una fiction ambientata a Milano: La compagnia del cigno segue 7 ragazzi tra i 14 e i 17 anni che frequentano il Conservatorio Giuseppe Verdi. Un romanzo di formazione tra musica e talento, tra la paura di diventare grandi e l’ appiglio dell’ amicizia vissuta come balsamo per le ferite di un’ età inquieta in cui tutto accade per la prima volta.

Bindi contro Confindustria e Caltagirone: “La stampa fa gli interessi dei costruttori”

Il Fatto Quotidiano
l. vend.
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Certa stampa fa gli interessi degli editori. E se gli editori sono anche costruttori o imprenditori, ecco che la levata di scudi contro il nuovo codice antimafia si spiega facilmente. Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia e senatrice del Pd, difende il provvedimento (“è garantista”) e attacca Confindustria e il gruppo Caltagirone, pur senza farne mai il nome: “Mi indigno perché vedo che ci sono alcuni direttori di giornale che fanno gli interessi dei loro editori non in quanto editori, ma in quanto costruttori, e attaccano questa legge in qualche modo per minare tutto il sistema delle misure di prevenzione”. Il riferimento, implicito ma chiaro, è al fuoco incrociato partito negli ultimi giorni contro il nuovo codice antimafia. Giovedì Il Mattino di Napoli, di proprietà dei Caltagirone, è uscito in edicola con la prima pagina nera, in segno di lutto. Mentre Il Messaggero – sempre con proprietà Caltagirone – titolava “Schiaffo al codice”. E i giornali del costruttore romano non sono i soli: il Quotidiano nazionale (gruppo Riffeser) ha ospitato il severissimo parere di Sabino Cassese, ex giudice della Corte Costituzionale. La riforma approvata in settimana prevede infatti il sequestro preventivo anche per i casi di presunti reati contro la pubblica amministrazione, come peculato e corruzione (per i reati associativi). E questa novità evidentemente non è stata molto apprezzata da una certa classe imprenditoriale e quindi dalla stampa che fa capo ad essa. Bindi risponde anche a Confindustria, che aveva stroncato apertamente la riforma, parlando di possibili elementi di incostituzionalità: “Prima di criticarla, almeno la si legga. Anche Confindustria ha fior fior di uffici legislativi, facciano approfondire la legge: è una riforma più garantista per coloro ai quali sono sottratti i beni”. Con l’ associazione degli industriali, però, prosegue la polemica a distanza. Immediata, infatti, la replica del presidente Vincenzo Boccia: “Il testo lo abbiamo letto molto bene e sembra che i profili di incostituzionalità non sono solo la nostra riflessione, ma anche di altri. Vale la pena evitare dogmi che in questo Paese fanno solo danni: l’ ipotesi di presunzione di colpevolezza e di sequestro di imprese è un danno grave, perché gli imprenditori vivono di reputazione e una volta che si fa un errore quando restituiamo l’ impresa, l’ impresa è fallita”. Il timore della presidente della Commissione antimafia è che gli attacchi e le critiche incrociate possano in qualche modo delegittimare il nuovo codice: “Non si deve mettere a rischio tutta la riforma perché qualcuno ha paura: questa legge, se ci si comporta bene, non toglie nulla. Quindi diamoci una calmata.” L’ appello sembra rimasto inascoltato: “È ovvio che alla Bindi il codice antimafia piaccia: chi si somiglia, si piglia”, è il commento di Luca d’ Alessandro, deputato di Scelta Civica-Ala. L’ attacco al codice continua.

La carta che salva il giornalismo

Il Fatto Quotidiano
Iris Chyi
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Negli ultimi 20 anni molti giornali americani hanno sperimentato la diffusione di notizie online, ma hanno avuto un successo limitato. I consumatori ricevono continuamente notizie online, ma la maggior parte di loro si rivolge a “news aggregator” come Yahoo News e Google News o social media come Facebook. Ma la maggior parte degli aggregatori e i siti di social media non producono contenuti originali di notizie. Ripubblicano le notizie prodotte dai giornalisti e beneficiano di tali contenuti senza dover pagare niente o quasi. Con un vasto bacino di utenti che attrae una grande quantità di pubblicità, Google e Facebook sono diventati giganti tecnologici. Al contrario, la maggior parte dei 1.300 quotidiani americani operano in aree geografiche ristrette con una media giornaliera al di sotto delle 30.000 copie in circolazione, numero destinato a scendere. Per questi giornali competere online con Google e Facebook è come per un ristorante locale sfidare McDonald’ s. Non c’ è possibilità di vincere. È in questo scenario che la News Media Alliance chiede al Congresso un’ esenzione alle limitazioni dell’ antitrust, in modo che i quotidiani possano negoziare insieme a Google e Facebook. Ma la maggior parte dei giornali sta condividendo attivamente i propri contenuti su queste piattaforme, molti hanno assunto redattori di social media per distribuire gratuitamente contenuti su Facebook e Twitter. Di conseguenza, tanti lettori online hanno smesso di visitare i siti web dei giornali: il 44% degli adulti americani ora riceve notizie su Facebook. Dopo 20 anni di sperimentazione digitale, i ricavi delle pubblicità online dei giornali sono rimasti insignificanti: da 3,2 miliardi di dollari nel 2007 a 3,5 miliardi nel 2014. Google, invece, ha registrato 89,6 miliardi di dollari di entrate globali e Facebook 27,6 miliardi di dollari nel 2016. E la spesa pubblicitaria digitale degli Stati Uniti totale è stata di 72,5 miliardi di dollari nel 2016. Tutti gli indizi suggeriscono che i giornali americani hanno perso la battaglia digitale. Il motivo per cui sono ancora qui è che le edizioni in carta stampata, nonostante le sostanziali perdite, producono ancora delle entrate, grazie alla pubblicità e agli abbonamenti. La buona notizia è che i principali quotidiani delle metropoli vengono acquistati da un terzo degli adulti locali e, sorprendentemente, si tratta di lettori disposti a pagare per le notizie sulla carta stampata. Questa è una buona notizia perché i giornali rimangono le istituzioni più importanti che forniscono una copertura locale necessaria che nessun Facebook, nessun Google, Twitter o Instagram prenderebbero mai in considerazione. Ora i giornali stanno cercando di ridefinire i loro rapporti con Facebook e Google attraverso un’ esenzione da parte dell’ antitrust. Questa esenzione, anche se concessa, non modificherebbe facilmente il risultato di una partita perdente, come quella tra un ristorante locale e il McDonald’ s – soprattutto se l’ industria dei giornali non affronta le conseguenze di alcune scelte sbagliate e di breve respiro prese soltanto in nome di una “trasformazione digitale”. Ma è importante che i politici arrivino a riconoscere come il potere di mercato si sia spostato verso i giganti digitali che stanno davvero inghiottendo il giornalismo (e tutto il resto).

Sul diritto d’ autore dalla Ue soluzioni ancora controverse

Il Sole 24 Ore
Lionel BentlyValeria Falce
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Dopo un percorso tortuoso e i pareri disallineati delle commissioni del Parlamento Ue, l’ approvazione della direttiva sulla modernizzazione del diritto di autore è alle porte. I punti di partenza sono fermi: adeguare il copyright all’ ecosistema digitale e alle sfide delle nuove tecnologie; rafforzare l’ effettività dei diritti e promuovere un più maturo bilanciamento tra l’ interesse degli autori/editori e quello generale, a salvaguardia «della stampa libera e pluralista» e a garanzia del «giornalismo di qualità e l’ accesso dei cittadini all’ informazione». I nodi da sciogliere sono condivisi: fronteggiare i cambiamenti radicali imposti dall’ economia digitale, che travolge l’ industria dell’ editoria e i modelli di business tradizionali; facilitare la circolazione delle opere e il sistema delle licenze; consentire ad editori e autori di partecipare “ad armi pari” alla catena del valore. Le soluzioni proposte sono controverse, perché Commissione, Consiglio e Parlamento Ue continuano ad oscillare tra tentativi di compromesso e ripensamenti repentini. I fronti “spaccati” sono almeno due: l’ articolo 11, con il quale la Commissione Ue intende introdurre un nuovo diritto a favore degli editori di opere giornalistiche, per assicurare «la sostenibilità» del settore attraverso la compartecipazione alle nuove forme di sfruttamento promosse da aggregatori e operatori online; l’ articolo 13, attraverso il quale si intende “responsabilizzare” le piattaforme e gli Internet service provider (Isp) ogni volta che svolgono un «ruolo attivo» anche attraverso «l’ ottimizzazione della presentazione dei materiali o la loro promozione». Ora, l’ articolo 11 ha degli illustri precedenti. Germania e Spagna hanno introdotto regole non del tutto simili, ma certamente ispirate alla medesima finalità. Quanto all’ Italia, il sistema nazionale già fornisce una tutela soddisfacente: l’ editore esercita i diritti economici sull’ opera giornalistica e lo sfruttamento sleale di titoli ed estratti è illecito. In questo scenario, mentre per alcuni Stati la previsione risulta inutile, per altri può essere fonte di incertezze, perché nel tentativo di definire un modello “a taglia unica” sovrappone i soggetti (autore ed editore) e le condizioni di acquisito del diritto (creazione o licenza), e non chiarisce quale sia livello di originalità richiesto o il comportamento che qualifichi un’ infrazione. Discorso a parte merita l’ attuale formulazione dell’ articolo 13, che richiede un approfondimento in chiave sistematica, soprattutto se letta in combinato disposto con i considerando 38 e 39. Innanzitutto, il legislatore sembra incerto sui soggetti di diritto interessati dai nuovi obblighi, rivolgendosi agli Isp che memorizzano e danno pubblico accesso ad un «grande numero di opere o altro materiale protetti dal diritto di autore e caricati dagli utenti». In secondo luogo, nella bozza di direttiva si legge che tali soggetti «dovrebbero adottare misure appropriate e proporzionate per garantire la protezione di tali opere, ad esempio tramite l’ uso di tecnologie efficaci». Il riferimento è alle tecniche di filtro e monitoraggio dei contenuti, già utilizzati in altri settori (industria musicale, in primis). Tuttavia, mentre i concetti di «messa a disposizione», «accesso» e «atto di comunicazione al pubblico», tendono a sovrapporsi nella bozza di direttiva, secondo l’ articolo 3 della direttiva 2001/29 si tratta di concetti ben distinti. Ancora, le tecniche di filtering, stando alla bozza di direttiva, andrebbero adottate in via orizzontale, senza eccezioni e limitazioni (come invece previste dall’ articolo 6 (4) della direttiva 2001/29/EC), avrebbero carattere generale (così confliggendo con gli articoli 15 e 16 della direttiva sul commercio elettronico e rischiando di interferire anche con il regolamento Data protection) e non è detto che non contrastino con i diritti fondamentali (articoli 8,11 e 16 della Carta dei diritti). Insomma, il legislatore persegue l’ obiettivo di rivedere poteri e doveri delle piattaforme attraverso una formulazione normativa coraggiosa. Ma, senza raccordarsi con il sistema “a stella” entro il quale si collocano le responsabilità degli Isp e delle piattaforme, l’ articolo 13 rischia di diventare un boomerang che incrina le fondamenta del diritto autoriale europeo e rende incerti se non opachi gli obblighi dei soggetti coinvolti.

Rivoluzione in tv film italiani d’ obbligo in prima serata

La Repubblica
MAURO FAVALE
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ROMA. Almeno un film italiano a settimana in prima serata su ogni canale tv, due nel caso delle reti Rai: dalle opere di Matteo Garrone a quelle di Paolo Sorrentino, dalle pellicole di Paolo Virzì a quelle di Silvio Soldini, dal 2019 i palinsesti delle nostre tv, nella fascia oraria 18-23, non potranno fare a meno dei registi italiani. Pena sanzioni milionarie. È questo uno degli strumenti mutuati (seppur in forma ridotta) dal modello francese che, secondo il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, dovrebbero rilanciare il cinema nostrano. I dettagli e le quote di programmazione (insieme a quelle di investimento in «opere cinematografiche di espressione originale italiana») a cui dovranno sottostare i broadcaster sono contenute nella bozza di decreto che domani, dopo un’ estate di trattative con gli operatori del settore, approderà finalmente in consiglio dei ministri. E questo nonostante la ferma opposizione di Rai, Mediaset, Sky, Discovery, La7, Viacom, Fox, Disney e De Agostini (preoccupate di una “migrazione” di spettatori verso piattaforme “on demand”) che ha già fatto slittare due volte il via libera. Due giorni fa un nuovo strappo: dopo la lettera di metà settembre, le emittenti tv ne hanno firmata una seconda, sempre indirizzata al Mibact, ancora con l’ obiettivo di fermare la riforma dell’ articolo 44 del Tusmar, il Testo unico della radiotelevisione: «Il provvedimento, estremamente rilevante per gli effetti che avrà all’ interno del comparto audiovisivo sotto il profilo editoriale, economico e occupazionale – scrivono i broadcaster – risulta costituire di fatto una nuova imposizione insostenibile a danno dei maggiori operatori televisivi nazionali». Da parte sua, il ministro ritiene invece che «la nuova legge e gli obblighi di investimento e programmazione per la Rai e le tv private servano ad aiutare e tutelare il cinema, la fiction e la creatività italiane. So bene – aggiunge Franceschini a Repubblica – che riforme e cambiamenti se sono veri scatenano sempre resistenze e proteste. Per questo non mi stupisco e non mi fermo». E così, domani, il consiglio dei ministri approverà una norma che, per la prima volta, ha messo dallo stesso lato della barricata tutte le emittenti tv che parlano di testo «peggiorativo rispetto alla versione iniziale» nonostante un sostanzioso ritocco al ribasso rispetto alla bozza di due settimane fa. Nella nuova formulazione gli obblighi non scatteranno più nel 2018 ma dal 2019 e le quote sono state ridotte arrivando a comprendere i programmi di intrattenimento prodotti in Italia: da X Factor a Masterchef Italia, anche queste trasmissioni contribuiranno a raggiungere (dall’ attuale 50%) la quota del 55% di programmazione giornaliera di opere europee nel 2019 e del 60% nel 2020 (con la metà riservata a quelle «di espressione originale italiana»). Obbligo specifico per il prime time: le tv private dovranno riservare il 6% della programmazione settimanale in quella fascia a film, serie tv, documentari italiani, la Rai il doppio, il 12% (di cui almeno un film). Pena, appunto, sanzioni che dovrebbero dare il via a una corsa all’ acquisto (e alla produzione) di film italiani. A preoccupare i broadcaster, però, sono soprattutto gli investimenti obbligatori in cinema italiano ed europeo che passano dall’ attuale 10% del fatturato annuale al 15% nel 2020 (non più il 20, come nella prima versione) e per la Rai dall’ attuale 15% al 20% (non più il 30%) sempre entro il 2020. Percentuali che i broadcaster giudicano ingestibili e fuori mercato tanto da definire il decreto come «anacronistico e dirigistico».

Digitale e carta stampata: la convivenza è possibile

Libero

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Il digitale non ha ancora vinto. O meglio, non ha cancellato la carta. E chi pensava che sarebbe scomparsa sotto ai colpi delle nuove tecnologie deve ormai ricredersi, perché una coesistenza è possibile. Ne è convinta Iris Chyi, che ne parla oggi a Ferrara al Festival di Internazionale, in uno dei 130 incontri organizzati all’ interno dell’ evento voluto dal settimanale. Docente alla scuola di giornalismo dell’ Università del Texas, Chyi nel suo libro Trial and error: US newspapers digital struggles toward inferiority parla di un futuro del giornalismo nel quale la carta stampata è ben presente. Ma il problema, più che limitarsi a una mera questione di alternativa tra due modalità di fruizione delle notizie, riguarda piuttosto la prospettiva (non a caso tema cardine di questa edizione del festival) di un giornalismo ridotto ai minimi termini dalla mancanza di lungimiranza di molti editori, gettatisi sul digitale senza consapevolezza e senza capire quali opportunità potessero essere realmente sfruttate. «Molti si sorprendono per questo, ma il prodotto di carta, dato per moribondo, continua a garantire risultati migliori di quello digitale da ogni punto di vista: economico, qualitativo, pubblicitario e di affezione del lettore», spiega Chyi. «Non parlo per preferenze personali, ma con 20 anni alle spalle di evidenze empiriche. I quotidiani dovrebbero tornare a concentrarsi sulla carta, che non è solo ciò che sanno fare meglio, ma anche quello che il lettore vuole. E anche chi si occupa di pubblicità: il prezzo medio per un banner pubblicitario online è di 7 dollari ogni mille impression, mentre per una pubblicità equivalente su carta la cifra diventa di 60 dollari». Insomma, nessuno può negare che i giornali vendano meno, ma la responsabilità non è di Internet in sé, piuttosto di come è stato utilizzato da editori non pronti a gestire una transizione forzata e non necessaria.


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