Indice Articoli
Imprese e professionisti, spot e inserzioni guadagnano appeal
Arriva nuova linfa per l’ editoria
La Rai oscura gli spot sul referendum autonomista
Previsioni del tempo spa: a piovere sono gli utili
Amazon, Google e Facebook il capitalismo e la Rete Padrona
Chi si rivede, linkedin nel segno di milano
Inpgi, circolare 1° settembre 2017, n. 5
IL LIBRO? SI ASCOLTA L’ EBOOK? SUPERATO
Imprese e professionisti, spot e inserzioni guadagnano appeal
Italia Oggi Sette
PAGINE A CURA DI BRUNO PAGAMICI
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Crediti d’ imposta fino al 90% della spesa per imprese e professionisti che investono in campagne pubblicitarie su quotidiani, periodici, emittenti televisive e radiofoniche. A partire dal 2018 il bonus pubblicità è la nuova agevolazione fiscale introdotta dalla manovra correttiva 2017 dei conti pubblici (dl 50/2017, art. 57-bis), concedibile ai soggetti beneficiari solo se il valore degli investimenti effettuati supera dell’ 1% il valore degli analoghi investimenti sostenuti nell’ anno precedente, sugli stessi mezzi di informazione. Per rendere concretamente operativo il bonus fiscale, sarà necessario attendere le relative disposizioni di attuazione, la cui emanazione è affidata a un futuro Dpcm da adottare, nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di stato, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, e cioè entro il 22 ottobre 2017. Poiché il credito d’ imposta opera in compensazione in dichiarazione dei redditi, il Dpcm per l’ attuazione della normativa dovrà necessariamente essere emanato prima della scadenza per la presentazione annuale del dichiarativo (invio entro il 31 ottobre). Con tale decreto dovranno essere definiti: le tipologie di investimento che danno diritto al beneficio; i casi di esclusione; le procedure di riconoscimento, concessione e utilizzo del credito; la documentazione richiesta, nonché il sistema dei controlli volti ad assicurare il rispetto dei limiti previsti dalla legge. In attesa del decreto di attuazione, sembra probabile l’ esclusione dal bonus degli investimenti pubblicitari effettuati sul web. Il credito d’ imposta. Il bonus pubblicità è la nuova agevolazione fiscale istituita dalla manovra correttiva 2017 (dl 50/2017, art. 57-bis), in ottemperanza agli obiettivi prefissati con la legge delega 198/2016 circa l’ introduzione di nuovi benefici fiscali per gli «investimenti pubblicitari incrementali su quotidiani e periodici nonché sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali» mediante il riconoscimento di «un particolare beneficio agli inserzionisti di micro, piccola o media dimensione e alle startup innovative». Il legislatore ha previsto la possibilità per lavoratori autonomi, professionisti e imprese di poter fruire di un nuovo credito d’ imposta per gli investimenti incrementali in pubblicità. Il bonus fiscale opera sotto forma di credito d’ imposta e pertanto a partire dal 2018, i professionisti, lavoratori autonomi e le imprese di qualsiasi natura giuridica, potranno beneficiare del credito d’ imposta in compensazione con la dichiarazione dei redditi (l’ importo del bonus andrà inserito nel quadro RU). L’ obiettivo del legislatore è duplice: da un lato, spingere imprese e lavoratori autonomi a utilizzare gli strumenti pubblicitari per sostenere lo sviluppo e la crescita della propria attività e, dall’ altro, sostenere, convogliando risorse finanziare il comparto dell’ editoria e dell’ emittenza radiofonica e televisiva locale come riconosciuto dall’ art. 2, comma 2, legge n.198/2016. Il beneficio sarà attribuito nel 2018 con riferimento agli investimenti pubblicitari effettuati a far data dall’ entrata in vigore della legge di conversione del dl 50/2017, ossia dal 24 giugno 2017. Beneficiari e misure agevolative. Dalla lettura dell’ art. 57-bis della manovra correttiva 2017, il bonus pubblicità ossia il credito d’ imposta pari al 75 o al 90% che spetta ai contribuenti in caso di investimenti in campagne pubblicitarie aventi un importo maggiore di almeno l’ 1% rispetto a quanto investito per lo stesso settore nell’ anno precedente, spetta ai seguenti beneficiari: – lavoratori autonomi, ivi compresi i professionisti (sia iscritti che non iscritti ad albi, ruoli o collegi); – imprese: di qualsiasi natura giuridica. La formulazione è dunque alquanto ampia e sembra includere in modo onnicomprensivo nel perimetro di riferimento dell’ agevolazione tanto le imprese (a prescindere dalla loro forma giuridica) quanto i lavoratori autonomi (in particolar modo i professionisti). I requisiti del bonus pubblicità verranno tuttavia ufficializzati con il decreto attuativo. Gli investimenti agevolabili. Il riconoscimento del credito d’ imposta è connesso agli investimenti in campagne pubblicitarie sulla stampa quotidiana e periodica e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali. Tali aspetti dovranno essere confermati con il decreto attuativo e l’ estensione del bonus pubblicità anche alle campagne promozionali sul web probabilmente non verrà attuata. Uno dei più importanti requisiti richiesti per beneficiare del bonus pubblicità è quello di effettuare gli investimenti in misura maggiore rispetto all’ anno precedente, per cui se nel 2017 si è investito 10 mila euro, per beneficiare del bonus occorre che nel 2018 venga speso almeno l’ 1% in più rispetto ai 10 mila dell’ anno prima, per cui almeno 10.100 euro. Ovviamente le aliquote del 75 o del 90% si applicano sul valore incrementale, cioè su 100. In ogni caso, pertanto sarà prima necessario verificare che l’ ammontare degli investimenti pubblicitari realizzati in un determinato anno sia superiore, almeno dell’ 1%, a quello degli investimenti effettuati nell’ anno precedente. Quindi, se si considera il 2018, per beneficiare del bonus pubblicità occorre che: – nell’ anno precedente alla domanda del bonus, si siano effettuati investimenti pubblicitari; – che tali investimenti, nel 2018, nell’ anno di interesse, siano maggiori di almeno l’ 1% rispetto al 2017; – che l’ investimento in campagne pubblicitarie avvenga su: quotidiani e periodici; emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali. Pmi e start up innovative. Nel caso in cui l’ investimento pubblicitario sia da parte di micro imprese, piccole e medie imprese e start up innovative, il credito d’ imposta è elevato al 90% rispetto al 75% previsto per le altre categorie. Il bonus è fruibile solo sotto forma di credito d’ imposta in compensazione tramite modello F24 previa relativa domanda al dipartimento per l’ Informazione e l’ editoria della presidenza del consiglio dei ministri. Il decreto attuativo del presidente del consiglio fisserà i dettagli operativi del bonus: le regole, i requisiti, le modalità con cui presentare la domanda, i contribuenti beneficiari del bonus fiscale per gli investimenti pubblicitari e per quale tipologia di strumento editoriale spetterà il nuovo credito d’ imposta fino al 90%. Le modalità di calcolo. Dovrà essere chiarito dal decreto attuativo se il calcolo deve essere effettuato per massa, ovvero distinguendo tra i vari mezzi di comunicazione prescelti per gli investimenti pubblicitari (quest’ ultima tesi sembra la più probabile). A tale fine, per gli investimenti effettuati nel primo periodo d’ imposta (e cioè dal 24 giugno 2017 al 31 dicembre 2017), appare logico ritenere che il parametro storico da porre a raffronto (le spese di analoga natura sostenute nel 2016) sia corrispondentemente ragguagliato al periodo 24 giugno 2016-31 dicembre 2016. Il punto dovrà essere tuttavia confermato dal decreto attuativo. Pertanto, se si ipotizza che nell’ anno 2017 non sia stato effettuato nessun investimento pubblicitario, nel 2018 sarà incentivabile l’ intera spesa in pubblicità. La decorrenza. L’ agevolazione, che scatta dal 2018, riguarderà, salvo contraria previsione del decreto di attuazione, gli investimenti effettuati dal 24 giugno 2017. Per stabilire il momento di effettuazione degli investimenti appare ragionevole l’ applicazione dell’ art. 109, comma 2, lett. b) del Tuir, che stabilisce che le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate. © Riproduzione riservata.
Arriva nuova linfa per l’ editoria
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Oltre al bonus pubblicità, che è stato introdotto dal legislatore anche per cercare una soluzione alternativa agli incentivi statali per la ripresa dell’ editoria, al sostegno a favore del comparto si aggiungono i finanziamenti che potranno essere concessi alle imprese editrici di nuova costituzione per promuovere progetti d’ impresa innovativi. In materia di investimenti pubblicitari per imprese e professionisti le novità quindi non mancano. Per quest’ ultima categoria, occorrerà valutare caso per caso l’ opportunità di accedere al bonus pubblicità. A meno di soluzioni completamente dirimenti da parte del decreto di attuazione (che dovrà essere emanato entro il prossimo 22 ottobre), i professionisti, specie se iscritti ad albi, ruoli, ecc. dovranno attenersi alle regole in materia di pubblicità informativa disciplinate dai rispettivi ordini professionali. Sempre dal decreto di attuazione è particolarmente attesa l’ indicazione che dovrà essere fornita relativamente all’ agevolabilità degli investimenti pubblicitari sul web. Agevolazioni a favore dell’ editoria. Gli incentivi fiscali per gli investimenti pubblicitari incrementali su quotidiani, periodici ed emittenti televisive e radiofoniche locali, previsti dalla legge editoria n. 198/2016, sono stati introdotti con l’ art. 57-bis della manovra correttiva, insieme a misure di sostegno alle imprese editoriali di nuova costituzione. In particolare il disposto prevede, oltre alla concessione di incentivi fiscali, anche misure di sostegno in favore delle imprese editoriali di nuova costituzione. Il comma 2 dell’ art. 57-bis fa riferimento all’ emanazione di bando annuale per l’ assegnazione di finanziamenti alle neo imprese editrici con decreto del capo del dipartimento per l’ informazione e l’ editoria della presidenza del consiglio dei ministri. Ciò, al fine di «favorire la realizzazione di progetti innovativi, anche con lo scopo di rimuovere stili di comunicazione sessisti e lesivi dell’ identità femminile, e idonei a promuovere la più ampia fruibilità di contenuti informativi multimediali e la maggiore diffusione dell’ uso delle tecnologie digitali». I finanziamenti saranno concessi nel limite massimo di spesa stabilito annualmente con il Dpcm che definirà la ripartizione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l’ innovazione dell’ informazione assegnate alla Presidenza del consiglio dei ministri tra i diversi interventi di competenza (art. 1, comma 6, della legge 198/2016). Anche in questo caso il limite massimo di spesa per il finanziamento della misura verrà stabilito annualmente con apposito Dpcm. Sono invece già fissati i tetti di spesa per finanziare i prepensionamenti dei giornalisti delle aziende editoriali in crisi, con età anagrafica di 58 anni per le donne e di 60 per gli uomini, che abbiano maturato almeno 25 anni di contributi: si tratta in tutto di 45 milioni di euro, distribuiti tra il 2017 e il 2021. Il caso dei professionisti. Il Dpcm di attuazione del bonus fiscale, che dovrà essere approvato entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, per i professionisti potrebbe tuttavia presentare, per la piena titolarità del diritto, dei vincoli in più, anche se la riforma degli ordinamenti professionali (attuata con il dpr 137/2012) ha previsto che «è ammessa con ogni mezzo la pubblicità informativa avente a oggetto ‘«’attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio professionale e i compensi richiesti per le prestazioni» (art. 4, comma 1). In ogni caso, per maggiori informazioni ed eventuali conferme, occorrerà attendere il decreto attuativo. Professionisti con albo. Per quanto riguarda i professionisti con albo, in particolare, dovranno attenersi alle regole in materia di pubblicità informativa stabilite dal dpr n. 137 del 7 agosto 2012, con il quale viene autorizzata la pubblicità informativa che non sia ingannevole, equivoca o denigratoria su: – attività delle professioni regolamentate; – specializzazioni e titoli posseduti; – struttura del proprio studio; – compensi richiesti per le prestazioni professionali. L’ inerenza delle spese pubblicitarie. In merito alle categorie professionali, è opportuno valutare un ulteriore aspetto. Perché le spese di pubblicità sostenute possano essere portate in deduzione è necessario che esse rispondano al principio di inerenza. Tuttavia, secondo una interessante interpretazione della Ctp di Lucca (sentenza n. 722/2015), i costi pubblicitari sostenuti dal contribuente si considerano sempre inerenti, a meno che non siano state evidentemente eluse delle norme tributarie. Secondo quanto previsto dal decreto attuativo del dm 19 ottobre 2008, all’ art. 1, comma 1, si considerano inerenti le spese effettivamente sostenute e documentate riferibili a erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni, il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’ obiettivo di generare anche potenzialmente benefici economici per l’ impresa. Aspetti contabili. Poiché l’ art. 57-bis prevede che la concessione del credito d’ imposta sia sottoposta agli «eventuali adempimenti europei», il decreto di attuazione dovrà anche chiarire la compatibilità dell’ agevolazione con la normativa europea degli aiuti di stato. Peraltro, si ritiene che sussista tale compatibilità, poiché, quanto ai beneficiari, si tratta di misura agevolativa a carattere generale. Quanto al trattamento contabile, il principio Oic 24, i costi di pubblicità possono rientrare tra i costi capitalizzati nella voce BI1 «Costi di impianto e di ampliamento» dello stato patrimoniale se rispettano i requisiti previsti dai paragrafi 41-43 dello stesso Oic 24 ovvero: – i costi siano sostenuti in modo non ricorrente; – esista un rapporto causa-effetto tra i costi in questione e il beneficio (futura utilità) che dagli stessi la società si attende. Qualora invece non soddisfino i suddetti requisiti, tali costi devono essere spesati nella voce B7 del conto economico, come previsto dall’ Oic 12. Digitale agevolato? Il governo ritiene di dover escludere i giornali editi sul web perché non espressamente citati dalla recente legge che elenca i soggetti autorizzati a raccogliere pubblicità. Sarà tuttavia il decreto di attuazione a sciogliere alcuni dei dubbi relativi al testo approvato che fa riferimento alla pubblicità su «stampa quotidiana e periodica e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali«. La ratio della norma è che non sono agevolati gli investimenti pubblicitari su web o mobile che non siano su testate giornalistiche, mentre rientra nel credito d’ imposta tutta la pubblicità effettuata su tv e radio. C’ è in particolare un dubbio da chiarire legato alle testate online, perché la legge, quando si riferisce alle televisioni e alle radio, specifica che possano essere analogiche o digitali, comprendendo le web tv, mentre riferendosi alla stampa quotidiana e periodica non riporta ulteriori indicazioni. Altro punto che necessiterà di chiarimenti in sede di decreto attuativo: la spesa incrementale rispetto agli investimenti sullo stesso mezzo riguardano l’ intera categoria (tv, radio ecc.) oppure si distingue tra quotidiano e periodico o, ancora, tra cartacei e telematici? E ancora: come si considerano ad esempio le agenzie di stampa? Entrata in vigore. Secondo quanto stabilito durante l’ iter parlamentare, «il credito d’ imposta si attribuisce, nel 2018, relativamente agli investimenti pubblicitari effettuati a far data dall’ entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge» e cioè dal 24 giugno 2017, essendo la legge 96/2017 pubblicata sul supplemento ordinario 95 della Gazzetta Ufficiale 144 del 23 giugno 2017. Si ritiene quindi che l’ agevolazione sia immediatamente operativa, poiché assumono rilevanza le spese in campagne pubblicitarie sostenute a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (24 giugno 2017). Sul punto interverranno comunque i chiarimenti da parte del decreto attuativo e dell’ Agenzia delle entrate. © Riproduzione riservata.
La Rai oscura gli spot sul referendum autonomista
Libero
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STEFANO BRUNO GALLI Il referendum per l’ autonomia della Lombardia e del Veneto si avvicina e la Rai lo oscura. Mancano ormai cinque settimane alla consultazione popolare e la tivù di Stato nega lo spazio informativo pubblico a 15 milioni di cittadini. Che pagano le tasse e anche il canone Rai. Lo si evince da una lettera che il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza, il grillino Roberto Fico, ha scritto – pochi giorni fa, il 13 settembre – al direttore generale della Rai, Mario Orfeo. La lettera si configura come un vero e proprio insulto alla Lombardia e al Veneto. «Faccio riferimento», scrive Fico, «ai due distinti referendum regionali consultivi indetti per il prossimo 22 ottobre dalle Regioni Lombardia e Veneto per conoscere il parere degli elettori di ciascuna regione circa la richiesta di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia al proprio ente territoriale, secondo le prescrizioni di cui all’ articolo 116, comma 3, della Costituzione». E prosegue: «A tale riguardo, La informo che la Commissione non approverà una specifica delibera per disciplinarne la campagna informativa in considerazione del numero di cittadini interessati dalla consultazione». Non occorre essere dei filologi né degli esegeti del pensiero fichiano per capire il senso di queste frasi: il referendum coinvolge solo due “piccole” regioni. Non occorre dunque disciplinare gli spazi televisivi pubblici delle sedi locali per illustrare ai cittadini lombardi e veneti il contenuto della consultazione e le differenti posizioni in campo. Questo è un vero e proprio affronto, uno schiaffo in faccia alla Lombardia e al Veneto che, insieme, rappresentano il 25% – un quarto – della popolazione italiana. Quindici milioni di abitanti complessivi, quasi come i Paesi Bassi – decimo Stato europeo per densità di popolazione – e davanti a Grecia e Portogallo, Belgio e Repubblica Ceca, Ungheria e Svezia, Austria e Svizzera, Danimarca e Finlandia, Norvegia e Irlanda. E l’ elenco potrebbe continuare. Non solo, ma Lombardia e Veneto garantiscono – per effetto dei loro sistemi economici e produttivi, della loro capacità tributaria e di un’ evasione assai contenuta – il 32% del Pil nazionale e hanno un residuo fiscale di oltre 75 miliardi di euro, vale a dire l’ importo di tre leggi di stabilità. L’ ultima, infatti, era di 27 miliardi di euro. Fico lo sa benissimo eppure interpreta alla perfezione la mentalità dominante in seno agli apparati politici, burocratici e amministrativi dello Stato centrale. Che sottovalutano e danno per scontato il contributo di Lombardia e Veneto – con le loro performance, che sono più elevate di quelle germaniche, per esempio – alla crescita e allo sviluppo del Paese. E non meritano il palcoscenico televisivo per illustrare il senso e i contenuti della sfida autonomista. Ma vi è di più. Al Pirellone e a Palazzo Ferro-Fini, i grillini lombardi e veneti hanno sostenuto e votato la proposta di referendum per l’ autonomia delle rispettive regioni. Lo hanno spesso rivendicato sui loro blog, garantendo il massimo impegno nella campagna referendaria. Dopo l’ iniziale avversione di qualche anno fa, i grillini si sono presto convertiti alla comunicazione televisiva, partecipando a tutti i dibattiti politici. Anche a quelli organizzati dalla tivù di Stato. Di fronte ai microfoni del tg regionale non scappano più. Anzi, vanno a cercarli. E allora, cosa dicono di fronte alla vergognosa lettera di Roberto Fico, che è un loro compagno di partito? Una lettera che svillaneggia Lombardia e Veneto. E soprattutto nega il diritto a essere informati da parte di un quarto dei cittadini di questo Paese, incidendo severamente sulla qualità della democrazia praticata. Perché tra democrazia e comunicazione – quando è equilibrata e imparziale, beninteso – insiste un rapporto di natura diretta. Anche per queste ragioni al referendum per l’ autonomia della Lombardia e del Veneto bisogna recarsi alle urne e votare un bel «sì». Per ribadire le ragioni di un rendimento istituzionale che non ha eguali. E che alimenta un’ ansia di autonomia politica e amministrativa che non può più essere ignorata. riproduzione riservata.
Previsioni del tempo spa: a piovere sono gli utili
Affari & Finanza
Ettore Livini
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Milano T empo attuale: sereno, come sempre da qualche anno a questa parte. Previsioni a medio termine: situazione in ulteriore miglioramento. L’ estate più calda degli ultimi anni e le tragiche alluvioni pre-autunnali non hanno cambiato nulla, anzi: il barometro per i guru del meteo tricolore – complici proprio gli estremi atmosferici – resta sul bello fisso. E l’ unica cosa che piove dalle loro parti sono i profitti. L’ era in cui il colonnello Bernacca e il suo sobrio (ma precisissimo) bollettino serale sulla Rai erano l’ unica fonte d’ informazione degli italiani sui capricci del tempo è ormai preistoria. La tecnologia ha fatto passi da gigante. Un tocco sullo smartphone ci aggiorna ogni secondo su temperatura, precipitazioni e tasso d’ umidità in ogni angolo del pianeta. E chi ha saputo cavalcare la rivoluzione che ha trasformato i siti sul tempo in miniere d’ oro, ha fatto Bingo. I numeri parlano da soli: Ilmeteo. it, leader incontrastato del mercato domestico, ha un seguito di fan da squadra di calcio di Serie A e una redditività da gioiellino hi-tech. La sua app è di gran lunga la più scaricata (14 milioni di volte) sui cellulari e i tablet italiani. I suoi “amici” su Facebook sono oltre 3,4 milioni e ogni mese 7,8 milioni di utenti visitano il suo sito per sapere se il giorno dopo pioverà o splenderà il sole. Il traffico, sul web, è denaro. E il business dell’ azienda padovana è decollato: sei anni fa il suo giro d’ affari garantito era fermo a 2 milioni, nel 2016 è arrivato a quota 13,7. La struttura snella dell’ azienda guidata e controllata da Antonio Sanò – una decina di persone che elaborano con i modelli dell’ Università di Belgrado i dati pubblici forniti dall’ osservatorio di Reading in Gran Bretagna – ha consentito di gonfiare anche l’ utile, balzato dai 37mila euro del 2010 ai 6 milioni dell’ ultimo bilancio. I puristi della meteorologia vecchio stile storcono un po’ il naso di fronte ai bollettini diventati un po’ show, dove anticicloni e perturbazioni vengono ribattezzati con nomi acchiappa-clic (da Caronte a Lucifero, da Scipione a Minosse ) e le ondate di caldo tropicale e le bombe d’ acqua sono di casa. Il meteo in versione social e 2.0 però – abbinato evidentemente a una correttezza delle previsioni che fidelizza i clienti – funziona. E il parterre dei suoi protagonisti continua a crescere. La new entry più rampante e aggressiva sul mercato, per dire, è Mediaset che nel 2012 – fiutato l’ affare – ha rilevato i 12 laureati in fisica per l’ atmosfera del Centro Epson Meteo e la Moi, loro società. Lanciandosi in proprio nella danza dorata delle isobare. «Ogni giorno facciamo 25 bollettini per i Tg e 50 per le nostre radio – dice Andrea Delogu, vicedirettore informazione del Biscione e uno dei registi di questi progetto – Un lavoro serio, fatto con professionisti come ha dimostrato l’ informazione di servizio garantita in occasione dell’ alluvione di Livorno». Cifre precise non ce ne sono. Ma il brand Meteo.it sviluppato a Cologno raggiunge 8 milioni di persone al giorno in tv mentre il sito ha 2 milioni di visite ogni 24 ore e «generiamo un utile pari al 30% circa dei ricavi». Le notizie sul tempo del resto piacciono. Una prova? «Nelle interruzioni pubblicitarie o dei Tg sono praticamente le uniche che fanno salire gli ascolti invece che farli scivolare». E il know-how di Cologno sta arricchendo il servizio con chatbox e altre innovazioni destinate a far crescere ulteriormente marchio e redditività. Il tempo è sul bello fisso anche per 3Bmeteo, terzo grande protagonista del settore. Il fatturato della società bergamasca è cresciuto del 30% a 3,6 milioni nel 2016 con i profitti raddoppiati a 800mila euro. E anche uno dei nomi storici delle previsioni nazionali come il Colonnello Mario Giuliacci – dopo aver lanciato il centro Epson Meteo – si è messo in proprio e ha messo la sua competenza e quella dei suoi collaboratori («Tutti laureati in fisica dell’ atmosfera, perché in giro c’ è anche molta informazione sul tempo poco professionale») al servizio delle neo-fondata MeteoGiuliacci, che si prepara a ritagliarsi una sua fetta di mercato. Quanto durerà il Bengodi? Se l’ esperienza dei big americani vale qualcosa, l’ era d’ oro dei big del meteo tricolore ha ancora ampi margini di crescita. Può darsi che l’ informazione su misura per radio, tv e web sia un mercato oramai abbastanza saturo. Oltre tv e tablet c’ è però un numero sempre più ampio di settori industriali le cui fortune sono legate in qualche modo al tempo e che hanno bisogno come il pane di informazioni professionali: l’ agricoltura, le fonti rinnovabili, ma pure chi produce gelati o birra o i big dell’ abbigliamento che devono decidere quando cambiare la stagione. The Weather Channel, il network Usa che edita pure wheather.com – il 38esimo sito più cliccato degli Stati Uniti e il 240esimo al mondo- è stata rilevata non a caso dall’ Ibm proprio per sviluppare questo business di consulenza. Anche Accuweather, il numero due del comparto, ha diversificato con decisione su queste attività collaterali. Un mercato, dicono gli analisti che potrebbe valere 2 miliardi già nel 2020. Difficile che il barometro del Meteo Spa, con questi chiari di luna, si scosti dal bel tempo fisso. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Amazon, Google e Facebook il capitalismo e la Rete Padrona
Affari & Finanza
Federico Rampini
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New York L’ ultimo scandalo viene da Londra. La capitale britannica pratica quella moderna pirateria che consiste nell’ attirare multinazionali offrendo condizioni fiscali di favore, come un paradiso offshore. La tentazione di proseguire c’ è con Brexit. Ma perfino Londra si scandalizza di fronte ad Amazon che avrebbe “coperto” l’ elusione fiscale di una miriade di aziende che fanno compravendite online in Gran Bretagna usando quella piattaforma digitale. B ella scoperta. L’ Unione europea da tempo sta cercando di contrastare un comportamento che sottrae gettito e impoverisce tutti: dalle ultime stime di Bruxelles, Google e Facebook da sole avrebbero sottratto ai paesi dell’ Unione europea almeno 5,4 miliardi di tasse. Il sistema è noto, i Padroni della Rete giostrano virtualmente come abili giocolieri sulle cifre di fatturati e utili, li fanno sparire dai paesi ad alta tassazione e riapparire nelle filiali di paesi esentasse o quasi (Irlanda). Ma la pirateria fiscale non è l’ unico problema. È l’ intero modello di business dei giganti digitali ad avere una caratura etica quantomeno dubbia. I loro fondatori e padroni amano presentarsi come dei progressisti, alla nascita delle loro aziende vollero prometterci un mondo migliore: vuoi per l’ accesso universale e gratuito alla conoscenza (Google), vuoi per la facilità di socializzare tra noi (Facebook), vuoi per la semplicità del consumo online (Amazon, eBay, Uber, Airbnb e tanti altri). Il loro successo è innegabile, tra gli esempi recenti c’ è l’ attenzione mondiale per il lancio dell’ i-Phone X, ennesima meraviglia tecnologica dell’ universo Apple; o la marcia trionfale di Amazon nella distribuzione alimentare con Whole Foods. Ma è un mondo migliore?… Il modello aziendale In realtà il modello aziendale della Silicon Valley è perfino più spietato e ineguale rispetto al capitalismo tradizionale. Un esempio concreto lo illustra un reportage del New York Times , pubblicato il 3 settembre 2017, che mette a confronto due lavoratrici con mansioni iniziali identiche, due storie parallele in due epoche e mondi diversi. La prima si chiama Gail Evans, 35 anni fa era una donna delle pulizie negli uffici della Kodak (a Rochester nello Stato di New York). La seconda, Marta Ramos, fa lo stesso lavoro oggi negli uffici di Apple a Cupertino, uno dei “santuari” della Silicon Valley. I loro due salari sono pressoché identici, se si guarda al potere d’ acquisto. La ricchissima Apple, che è la società numero uno al mondo per valore di Borsa, non ha fatto progredire di un centesimo in 35 anni la condizione degli addetti alle pulizie. Ma c’ è di peggio. Ecco cosa rivelano le due storie parallele raccontate dal New York Times: “La Signora Evans era una dipendente della Kodak a tempo pieno. Aveva diritto a più di quattro settimane di vacanze retribuite all’ anno, il rimborso parziale della retta universitaria per seguire un college part-time. E quando l’ ufficio che lei puliva venne chiuso, l’ azienda le trovò un altro lavoro nel reparto dove venivano tagliate le pellicole fotografiche. La Signora Ramos è dipendente di una ditta esterna a cui Apple appalta le pulizie. Non ha avuto una vacanza da anni, perché non verrebbe retribuita. Seguire un corso è fuori dalla sua portata. Non c’ è la minima possibilità di essere trasferita in un altro lavoro alla Apple”. La storia si conclude con un happy ending per Gail Evans: iniziò come donna delle pulizie, ma grazie al corso d’ informatica che seguì al college serale cambiò mestiere, oggi è manager di una piccola azienda. L’ American Dream era più verosimile 35 anni fa col vecchio capitalismo della Kodak. Il destino dei lavoratori meno qualificati non interessa Apple neppure se li ha dentro il suo quartier generale. Li ha espulsi dal suo orizzonte, con una parola – “outsourcing” – di cui tutti conosciamo il significato. Nel momento in cui miriadi di funzioni vengono affidate in appalto e subappalto a ditte esterne, l’ azienda-madre si disinteressa del trattamento di quei lavoratori. Non la riguardano. Non è colpa sua se vengono sfruttati e sottopagati. Il fondatore di Apple, Steve Jobs, diede il cattivo esempio personalmente: si rifiutò sempre di andare a visitare gli stabilimenti della Foxxcon a Shenzhen, come gli chiedevano diverse associazioni umanitarie. Le condizioni di lavoro e di vita degli operai cinesi che assemblavano l’ iPhone non lo riguardavano. Tanto non erano dipendenti suoi, ma di un’ azienda taiwanese con fabbriche in Cina. Diseguaglianze e utopie Non solo le diseguaglianze abnormi all’ interno della Silicon Valley californiana, ma l’ intera Utopia di una società globale resa migliore da Internet, viene smontata in modo implacabile dallo storico dell’ economia Niall Ferguson. Reso celebre dai suoi studi sull’ impero britannico e sulle crisi finanziarie, Ferguson insegna all’ università di Harvard ma è anche ricercatore presso la Hoover Institution di Stanford, nel cuore della Silicon Valley, a poche miglia dai quartieri generali di Apple, Facebook, Google. Sta lavorando a un libro che ricostruirà la storia di tutti i “network di potere” dalla massoneria a Facebook. Da questo saggio ancora in fieri ha anticipato, sulla rivista Foreign Affairs, una requisitoria contro “la falsa profezia dell’ iperconnessione”. Prende di mira il buonismo interessato di Zuckerberg, citando i proclami messianici del fondatore di Facebook che sostiene di voler connettere il mondo nell’ interesse di tutti. Lo speech di Zuckerberg In un celebre discorso alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea dell’ università di Harvard nel maggio 2017, Zuckerberg ha detto di voler contribuire ad affrontare le grandi sfide del nostro tempo, tra cui «l’ automazione che elimina milioni di posti di lavoro, l’ ascesa di autoritarismi e nazionalismi». Ferguson obietta: «Ha dimenticato di menzionare che la sua azienda e le consorelle della Silicon Valley hanno peggiorato tutti questi problemi. Nessuno più dei giganti tecnologici californiani sta sforzandosi di eliminare posti di lavoro umani. Nessun individuo incarna la spettacolare concentrazione di ricchezza al vertice dello 0,01% più dei padroni della Silicon Valley. E nessun’ altra azienda ha contribuito più di Facebook ad aiutare i populisti nelle vittorie elettorali del 2016, sia pure involontariamente. Senza la massa di dati che Facebook ha sui suoi utenti le campagne a basso costo di Brexit e Trump non avrebbero vinto. E il social media ha contribuito suo malgrado all’ epidemia di falsità, fake news». L’ illusione open-source Ripercorrendo la storia di Internet, Ferguson ricorda che anche in un’ epoca relativamente recente – l’ anno 2001 – esistevano utopisti come il creatore di software Eric Raymond che teorizzava la vittoria del movimento “open-source”, cioè quello che promuove la gratuità dei programmi informatici. «Il sogno open-source – scrive Ferguson – è morto con l’ ascesa di monopoli e duopoli che hanno ostacolato i controlli pubblici. Apple e Microsoft hanno imposto una sorta di duopolio nel software. Amazon, che era partita dalla vendita dei libri, è ormai dominante in tutto il commercio online. Google ha un semi- monopolio nel motore di ricerca. E Facebook ovviamente ha vinto la gara per il dominio dei social media». Lo storico britannico sostiene che l’ impatto globale di Internet è paragonabile a quello che ebbe l’ invenzione della stampa da parte di Gutenberg nell’ Europa del XVI secolo. «Ma le conseguenze sulla distribuzione della ricchezza e dei redditi sono molto diverse. L’ invenzione della tipografia non creò alcun miliardario e Johannes Gutenberg nel 1456 fece bancarotta». Alla diagnosi spietata di Ferguson vanno aggiunte due osservazioni. Primo, bisogna smontare il mito secondo cui Apple, Google, Facebook, Amazon e compagnia devono tutto il loro successo al fatto che sono dei campioni dell’ innovazione. In realtà hanno innovato molto, ma una volta costruito un oligopolio erigono robuste barriere che scoraggiano altri innovatori potenziali. Guerra di brevetti È la logica della “guerra dei brevetti” con cui si accaparrano migliaia di licenze e copyright come una sorta di “deterrente nucleare” che intimidisce le piccole startup qualora vogliano invadere i loro mestieri. La seconda osservazione è la conseguenza della prima. Ormai i veri ricchi nella Silicon Valley non sono gli inventori. Gli ingegneri sono pagati bene, certo, ma le grandi ricchezze si creano con la finanza, al momento della quotazione in Borsa, nel connubio con Wall Street. Dietro i capitalisti si arricchiscono gli avvocati, i mega-studi legali; e i lobbisti che difendono i privilegi dei Padroni della Rete a Washington o a Bruxelles. Tutta gente che con l’ innovazione non ha nulla a che vedere. © RIPRODUZIONE RISERVATA La sede di Amazon a Seattle appena inaugurata: costo, 5 miliardi di dollari.
Chi si rivede, linkedin nel segno di milano
L’Economia del Corriere della Sera
Chiara Sottocorona
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La sintesi? «Facebook è il barbecue nel giardino, LinkedIn l’ ufficio: puoi avere dei contatti in comune sui due network, ma il contesto è diverso. Non diresti mai le stesse cose al bar il sabato o al lavoro il martedì, pur parlando con lo stesso amico». Reid Hoffman, 50 anni, indica le differenze, senza rivalità, tra LinkedIn e Facebook. Nato nella Silicon Valley, laureato a Stanford in Neuroscienze e a Oxford in Filosofia, è l’ ideatore del «serious network», come viene chiamato LinkedIn, che presiede: l’ ha fondato con quattro amici e lanciato nel 2003, dopo la vendita a eBay di PayPal di cui era vicepresidente e azionista. Da marzo è nel consiglio d’ amministrazione di Microsoft (oltre che di Zynga, Mozilla e partner della società di venture capital Greylock). Da fine 2016 infatti LinkedIn è di Microsoft, che l’ ha pagato 26 miliardi di dollari, molto più di Nokia. Satya Nadella, l’ amministratore delegato del gruppo, vi ha visto un forte potenziale. Il social dei professionisti oggi conta 500 milioni di aderenti in 200 Paesi. È diventato nel mondo del business un «must», un luogo dove non si può mancare. E al fatturato di Microsoft del secondo trimestre ha contribuito per 1,1 miliardi di dollari. In Italia sono 10 milioni gli iscritti attivi. «E il ritmo di crescita è di due nuovi al secondo – dice Marcello Albergoni, capo di LinkedIn Italia -. Milano è la quinta città più connessa al mondo nel network e l’ area milanese conta oltre 10 mila offerte di lavoro. Il nostro obiettivo è dare alle persone l’ opportunità di trovare il migliore lavoro, ma anche gli strumenti per cambiarlo quando vogliono». Negli ultimi 12 mesi, 50 mila iscritti a LinkedIn hanno cambiato lavoro nell’ area di Milano. E la metà dei professionisti italiani (49%) sta seguendo sul social le aziende per essere aggiornato sulle offerte in arrivo, dice l’ azienda. Basta attivare sul Mobile la funzione «Jobs» e indicare professione e funzioni ricercate. «Per ogni candidato è importante essere presente sul social, avere un profilo bene impostato, con foto e capacità evidenziate. Conta poi partecipare a gruppi di discussione o pubblicare articoli», dice Albergoni. Da primavera è disponibile anche in Italia la piattaforma Publishing di LinkedIn (oltre 100 mila articoli alla settimana) che permette di pubblicare testi, incorporando foto e grafici. E da fine mese si potranno caricare anche i video direttamente dal telefonino. Altra novità è l’ integrazione con i software di Microsoft: da Office o Outlook si possono verificare i profili LinkedIn delle persone con cui si entra in contatto. Il network che mette in relazione i professionisti del mondo è un immenso serbatoio di dati, che con la nuova strategia vengono trasformati in servizi alle imprese. C’ è l’ offerta corporate «Talent solution», per la rapida ricerca dei talenti giusti; la «Marketing solution», per inserire pubblicità di prodotti o servizi; la «Sales» per creare un portafoglio di nuovi contatti business.Tra le più usate dalle aziende è la «Learning solution»: un’ offerta di 10 mila corsi online (in abbonamento). Ma LinkedIn propone anche gli «Economic Graph» per aree geografiche e ricerche annuali sulle tendenze del mercato del lavoro. L’ ultima sull’ Italia, diffusa a fine luglio, rivela un incremento dell’ occupazione in Tecnologia e software. Ma anche un chiaro spostamento dalle grandi aziende alle piccole o al lavoro in proprio. A crescere di più sono le società individuali e la più desiderata è la funzione d’ imprenditore. «I Millennial dimostrano di essere indipendenti, di voler decidere dove e come lavorare – dice Albergoni -. Chi guarda all’ estero sceglie la Gran Bretagna, seguita da Stati Uniti e Germania».
Inpgi, circolare 1° settembre 2017, n. 5
Il Sole 24 Ore
Arturo RossiMonica Vicario
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Versamento contributi minimi. Il 30 settembre 2017 scadrà il termine per il pagamento dei contributi minimi per l’anno 2017. Sono tenuti al versamento del contributo minimo annuale tutti i giornalisti iscritti alla Gestione separata che nel corso dell’anno 2017 abbiano svolto attività giornalistica in forma autonoma. In base al vigente Regolamento della Gestione separata Inpgi (articolo 3), per i giornalisti con un’anzianità di iscrizione all’Ordine professionale fino a cinque anni, il contributo minimo è ridotto al 50 per cento. L’anzianità dev’essere valutata al 30 settembre 2017, prendendo a riferimento la data di iscrizione all’Albo professionale (elenco professionisti, registro praticanti e/o elenco pubblicisti). Per l’anno 2017 potranno quindi versare il contributo minimo in misura ridotta gli assicurati che risultino iscritti all’Ordine con decorrenza successiva al 30 settembre 2012. Gli importi dovuti per l’anno 2017 sono: contributo minimo ordinario (278,42 euro); contributo minimo ridotto per giornalisti con meno di cinque anni di anzianità professionale (153,21 euro); contributo minimo ridotto per i giornalisti titolari di trattamento pensionistico diretto (174,08 euro).
IL LIBRO? SI ASCOLTA L’ EBOOK? SUPERATO
L’Economia del Corriere della Sera
STEFANO MAURI
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La crisi dell’ editoria libraria? «L’ abbiamo superata», dice Stefano Mauri, cavaliere del lavoro, co-amministratore delegato e vicepresidente di Messaggerie Italiane, presidente della controllata Gems: cioè il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol con 13 case editrici e 16 marchi, da Guanda a Garzanti, dal Corbaccio alla Salani di Harry Potter. Gli ebook «non cresceranno» perché «la gente ama la carta», sostiene l’ editore. Che, piuttosto, sta lavorando agli audiolibri con Audible.it, società di Amazon. «Fenomeno positivo, modello Spotify», dice. Il primo settembre è partito il programma di produzione: nuovi titoli, da scaricare dal cellulare con un’ app. Del maghetto Harry, Mauri ha poco. Ma un po’ di magia l’ ha usata: i marchi editoriali in portafoglio sono stati risanati. L’ audiolibro ora è la nuova frontiera? «Sì, perché estende il tempo in cui usufruire di un testo: in treno, in auto. È il tempo in cui prima potevi solo sentire musica. In Scandinavia il mercato vale tre volte l’ ebook, negli Usa è raddoppiato dal 2012 a 643 milioni di dollari». E in Italia? «Può arrivare dal 3 al 14% del mercato sul lungo periodo. Prima era laborioso, bisognava avere i dischi. Ora basta un’ app sul cellulare. È una nicchia in più. Vendite aggiuntive». Qual è il vostro progetto? « Noi forniamo i titoli ad Audible, che ci paga in base al tempo d’ ascolto. L’ utente spende 9,99 euro al mese. Editore Salani, responsabile Alessandro Magno, capo del digitale in Gems. Stiamo rilasciando i titoli già pronti come Fai bei sogni di Gramellini e producendone nuovi». Ma gli italiani che leggono sono sempre meno. Sei su dieci non toccano un libro, dice l’ Istat. «Parte del calo della lettura è dovuto a un fatto semplice: in certi momenti della giornata che erano esclusivi della carta stampata, come i viaggi in treno o a letto la sera, è possibile con un tablet o uno smartphone fare ogni cosa, guardare film, andare sui social. L’ audiolibro recupera questo spazio». Perché l’ ebook non ha funzionato in Italia? «In effetti, non è più in crescita da un anno. Perché la gente ama la carta, anche se l’ ebook è comodo quando si viaggia. Oggi vale circa il 5% del mercato contro l’ 8% della Germania. Nell’ Europa continentale ha funzionato meno che in Gran Bretagna e Stati Uniti, perché qui i prezzi sono rimasti la metà di quelli dei libri fisici, mentre là erano un quarto. È stato l’ ecommerce, quindi Amazon, a decidere il prezzo. Finita quella fase, l’ anno scorso, dopo il periodo di rispetto di 18 mesi imposto dall’ Antitrust americano (dopo la condanna ad Apple con multa di 450 milioni di dollari per il cartello sugli ebook, ndr ), gli editori sono tornati a poter fare un prezzo equo. La quota degli ebook negli Usa difatti è scesa dal 30% al 20%. E la carta è risalita». Quali sono i lettori in crescita? «Le young adult, le giovani donne della generazione Harry Potter che dieci-15 anni fa hanno assaggiato il frutto proibito di un buon romanzo e letto un libro più lungo della Récherche. Amano Anna Todd, Jamie McGuire, autrici che portano le adolescenti in libreria». Come va il mercato dei libri? « Dopo la scorpacciata di digitale, in molti Paesi crescono i libri di carta. Secondo le nostre rilevazioni, in Italia il mercato è cresciuto del 3%, a valore, nei primi otto mesi 2017 rispetto allo stesso periodo 2016. A volumi quasi pari». Sono aumentati i prezzi, quindi? Dal settembre 2011 c’ è la legge che blocca gli sconti in libreria sopra il 15%. «È una norma in vigore in tutta l’ Europa continentale. In realtà l’ effetto è stato di far calare i prezzi immediatamente di vari punti percentuali. Sono ricresciuti solo di recente, ma non ancora tornati ai livelli del 2011. Il libro ha seguito il Pil, comunque. E questa crescita nasconde un profondo cambiamento. Cala il mercato da 5 mila best seller dei supermercati, sale l’ ecommerce da un milione di titoli in italiano. Chi vendeva 100 mila copie ora ne vende 50 mila, chi ne vendeva una ora ne vende due. Il nostro gruppo – che ha due componenti, quella editoriale che cerca i best seller e quella distributiva con decine di migliaia di titoli per 600 editori indipendenti – cresce dell’ 8%. Dal 2002 al 2015 le case editrici che ci sono state affidate o abbiamo acquisito per risanarle sono passate da 3 milioni di perdita a 6 milioni di utile. Dal 1992, quando sono diventato direttore generale, non abbiamo più chiesto aumenti di capitale ai nostri azionisti e distribuiamo dividendi con la casa editrice». Siete il secondo gruppo librario italiano, avete i conti in ordine. Magico effetto Harry Potter? Che 2017 prevedete? «Harry Potter ha portato circa 7,5 milioni di ricavi sugli 87,6 milioni di Gems. Ma è un fatturato che si aggiunge, non sostitutivo. Quest’ anno, poiché non c’ è Harry Potter, l’ ambizione è di chiudere con 80 milioni di ricavi, come nel 2015, e con un margine lordo sui 14,5 milioni (da 19, ndr. ). Niente debiti. In Messaggerie sono tre anni che riduciamo il debito, da quando siamo responsabili del gruppo io e mio cugino Alberto Ottieri: lui più concentrato sulla distribuzione, io sull’ editoria». Voi come avete affrontato la crisi? «Nella casa editrice non abbiamo licenziato. Eravamo 140 prima della crisi del 2011 e ora siamo 160. E quando è arrivata la legge Fornero abbiamo assunto i giovani, per il mondo digitale. Poi abbiamo ridotto i compensi ai top manager del 20-30% e una parte della loro retribuzione fissa è diventata variabile, per risanare le case editrici. Occorre trovare equilibrio tra il fervore creativo e le necessità economiche. Spesso si erano trascurati gli obiettivi economici necessari alla sopravvivenza e la comunicazione interna ed esterna. Poi, abbiamo fatto sempre lo stesso lavoro: molto scouting, ricerca rapida e competente di quanto più appetibile sul mercato internazionale, marketing per far capire le nostre proposte a librai e lettori. In generale, le case editrici italiane hanno affrontato e superato la crisi. Anche se il pericolo non è scampato, viste le nuove distrazioni digitali di massa». Però avete chiuso sette librerie. «Cedute, non chiuse. Per la parte distributiva è diverso, si è dovuto per forza ristrutturare. Poi abbiamo fatto l’ operazione con Feltrinelli, rilevando il loro distributore Pde e diventando soci. È passato un anno. Senza traumi per i clienti. Negli anni di crisi ognuno si è concentrato sul core business e così pure noi». È davvero il momento della pacificazione fra gli editori, dopo la contesa Milano-Torino fra Salone e Tempo di libri? «Nell’ ultimo anno c’ è stata molta incomprensione. Bisogna ricomporre i dissidi fra grandi e piccoli, fra editori e istituzioni. La nomina di Ricardo Franco Levi alla presidenza Aie aiuterà. Ma serve anche un piano del governo per promuovere la lettura. In Germania, Francia, Spagna investono da decenni, da noi no. Ci sono le elezioni in arrivo, ma lavoriamo a un’ ipotesi di defiscalizzazione per l’ acquisto di libri. Se l’ Italia vuole crescere, deve crescere anche la cultura del Paese europeo con meno laureati».