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Rassegna Stampa del 10/07/2017

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Giornali di partito Buco da 238 milioni

SCAPPATI CON LA CASSA

La Fieg: regole valide per tutti «Tutela al diritto d’ autore online»

Le nuove regole del governo Stop ai contributi pubblici

«Testate inattuali Politici assunti come giornalisti»

MEDIASET NUOVA PAY IL SECONDO TEMPO DEL BISCIONE

Vision e medusa la scommessa inizia in sala

Parla Giletti: «Vi racconto la mia Arena antipatica»

Giornali di partito Buco da 238 milioni

Il Giorno
Matteo Palo
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I giornali di partito (tra cui l’Unità) hanno ricevuto, dal 2003 al 2015, 238 milioni di euro di finanziamento pubblico che sono finiti nelle casse di 19 testate di ogni orientamento politico. In cima alla classifica c’è l’Unità che ha ricevuto 62 milioni di euro. Sul secondo gradino del podio La Padania, con 38 milioni di euro, e subito dietro Europa, organo dell’ ex Margherita, con 32 milioni di euro.UNA PIOGGIA di soldi: 238 milioni di euro (i dati sono tutti riferiti al periodo 2003-2015). Per ottenere risultati molto mediocri: fallimenti, nella maggior parte dei casi. O ridimensionamenti, per salvarsi la vita. È questa la drammatica fotografia dei giornali di partito che è possibile scattare analizzando i dati disponibili sul sito di Palazzo Chigi: il sito Openpolis ha appena dedicato al tema un interessante approfondimento. Che dice molto, proprio adesso che il Partito democratico ha lanciato Democratica, la nuova testata on-line che avrà il compito di prendere il posto dell’Unità. IL QUOTIDIANOfondato da Antonio Gramsci è, infatti, in assoluto il giornale che dal 2003 ad oggi ha gravato maggiormente sulle casse dello Stato. Per la precisione, ha incassato la bellezza di 62,6 milioni di euro. Scorrendo la classifica, sono molti i quotidiani che pescano nel bacino di lettori di sinistra ad avere fatto incetta di finanziamenti. Al terzo posto in assoluto troviamo Europa, espressione della ex Margherita (poi confluita nel Pd), capace di raccogliere 32,5 milioni di euro di contributo pubblico. Liberazione, organo di stampa di Rifondazione comunista, si è messa in tasca poco meno di 32 milioni di euro. Anche a destra, però, si fa spesso incetta di contributi pubblici. Il secondo giornale più finanziato dallo Stato è, infatti, la Padania, organo della Lega Nord, che ha messo insieme 38,6 milioni di euro. Il Secolo d’Italia, diventato l’organo del Movimento sociale negli anni Sessanta e poi passato attraverso varie proprietà ad An, ha raccolto 28,2 milioni di euro. Ma non ci sono solo questi giornali dai nomi molto noti. Esiste anche una galassia di pubblicazioni meno conosciute che, messe in fila, hanno raccolto parecchio denaro. Terra-Notizie Verdi era l’organo ufficiale della Federazione dei Verdi: ha ricevuto finanziamenti per 13,8 milioni di euro. Cronache di Liberal, organo ufficiale dell’Unione di Centro, ha totalizzato contributi per 10,1 milioni di euro. Ancora, la Discussione, nato come giornale legato alla Democrazia cristiana, poi organo della Dc per le Autonomie, ha ricevuto 7,9 milioni di euro. Chiudono la classifica Zukunft in SudTirol, organo della Sudtiroler Volkspartei, con 6,1 milioni di euro e Rinascita della Sinistra, settimanale dei Comunisti italiani, con 5,9 milioni di euro. Il conto totale, da mandare allo Stato italiano per il saldo, è di 238 milioni di euro. MA C’È UN ALTRO aspetto che rende la questione dei finanziamenti ai giornali di partito ancora più interessante. Come spiega proprio l’analisi di Openpolis, queste pubblicazioni negli anni sono quasi tutte sparite. Delle 19 testate di partito presenti negli elenchi di Palazzo Chigi, infatti, quasi tutte sono state costrette, dopo lunghi periodi di sofferenza e lotte intestine, a chiudere i battenti. L’80%, infatti, ad oggi non esiste più. Sono solo due i casi di giornali ancora attivi nella loro versione cartacea: La Discussione e Zukunft in Südtirol. Mentre il Secolo d’Italia sopravvive in forma ridimensionata, con una versione on line. E’ evidente, insomma, che i contributi pubblici non aiutano la costituzione di imprese solide e sostenibili. E, anzi, nel tempo portano pericolosi effetti collaterali.

SCAPPATI CON LA CASSA

Il Giorno

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PROVIAMO a ragionare. Perché mai dovrebbero funzionare i giornali di partito, veri o finti, quando non funzionano i partiti? Nessuna meraviglia che siano quasi scomparsi da un già difficile panorama editoriale. Il problema è che sono scappati con la cassa. E magari fosse scappato chi ci ha lavorato. Sarebbe una sorta di liquidazione forzosa. Se li sono presi i partiti medesimi o qualche raider (razziatore) che da solo o in nome e per conto di un partito ha fatto finta di fare l’ editore: prendo il giornale, succhio i soldi e chiudo. Peggio per chi ci campa, e per le loro famiglie. Vedi l’ Unità, fondata da Gramsci a abbandonata dal Pd dopo una vecchiaia di stenti. E già sarebbe deprecabile. Se poi guardiamo a quanti soldi del contribuente sono finiti nelle casse di queste pubblicazioni, c’ è da inorridire. Un finanziamento indiretto ai partiti da scippo con destrezza, visto che quello diretto il popolo italiano lo aveva soppresso, giusto o sbagliato che sia, con il referendum del 1993. Aggirato in un primo tempo con i rimborsi elettorali, poi, appunto, con questi soldi a giornali spesso fantasma, da Samizdat, la stampa clandestina del’ Unione Sovietica. Non a caso, forse, troviamo tra i desaparecidos molte testate che sono appartenute alla gassosa galassia della sinistra. Soldi. Tanti soldi: 238 milioni. Intascati dagli stessi indignati speciali che predicano rigore e sobrietà, che vogliono (giustamente) ridurre le spese della politica, tagliare i parlamentari, i vitalizi, i rimborsi, le auto, gli scooter I virtuosi, con i soldi degli altri. Nostri. Adesso le regole stanno cambiando. Bene. Così ci sarà l’ opportunità di studiare un altro modo per aggirarle. Il digitale, il web, qualche tecnologia con cui i partiti diffonderanno messaggi che nessuno leggerà, come è accaduto per i giornali, chiusi non per decreto, ma per assenza di lettori. Sperando di essere smentiti, e che il Palazzo incominci a dire e a fare cose serie. Per esempio, non scappare con la cassa.

La Fieg: regole valide per tutti «Tutela al diritto d’ autore online»

Il Giorno

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ROMA I RICAVI della stampa in 10 anni si sono dimezzati: un dato che incide sulla sostenibilità economica delle imprese che fanno informazione professionale e che hanno necessità di fare investimenti. Per questo, ha sottolineato Fabrizio Carotti (nella foto), direttore generale della Fieg, «c’ è l’ esigenza di regole valide per tutti per un mercato che sia realmente competitivo e c’ è l’ esigenza, soprattutto, di un’ adeguata tutela del diritto d’ autore online al fine della valorizzazione dei contenuti editoriali di qualità. In mancanza di questo non è possibile fare investimenti e garantire un prodotto professionale».

Le nuove regole del governo Stop ai contributi pubblici

Il Giorno

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ROMA STOP ai finanziamenti erogati a «imprese editrici di organi di informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali». La novità è recente e si applicherà a partire dai prossimi anni: è stata introdotta dal decreto che riforma le regole per il finanziamento all’ editoria, pubblicato dal governo a maggio. Il testo stabilisce i criteri per l’ erogazione di contributi diretti, i fondi che Palazzo Chigi attribuisce ai giornali. Escludendo esplicitamente alcune categorie di imprese. Tra queste, oltre agli organi di partito, «le imprese editoriali quotate in Borsa». Molti dei principali gruppi editoriali italiani non incassano un euro di contributi diretti. Non è chiaro quanto denaro verrà destinato a tali erogazioni nel 2017: la cifra è stabilita anno per anno. Lo Stato cercherà di incentivare la transizione al digitale: potranno incassare i contributi soltanto quelle imprese che pubblicano un’ edizione «in formato digitale dinamico e multimediale» della loro testata. Rispetto al passato, sono stati aggiunti paletti sull’ organizzazione del lavoro: bisognerà rispettare il contratto nazionale di categoria e andranno impiegati almeno cinque dipendenti assunti a tempo indeterminato. Non sono cambiate le regole per i finanziamenti indiretti, legati a tipologie di sconto fiscale e agevolazioni sugli acquisti della carta. A differenza dei contributi diretti, quasi tutti i grandi gruppi editoriali ne godono, ma con peso minimo nei bilanci. m. p.

«Testate inattuali Politici assunti come giornalisti»

Il Giorno
Giovanni Rossi
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SERGIO Staino, 77 anni, disegnatore, fumettista e regista – inventore del celebre Bobo – rischia di essere l’ ultimo direttore dell’ Unità, il quotidiano voluto da Antonio Gramsci, organo del Pci (e poi di Pds e Ds), successivamente controllato dal Pd. Ora che il giornale (per l’ 80% di proprietà del socio privato Piesse e per il 20% del partito) ha smesso di uscire, e che il Pd dal 30 giugno ha lanciato Democratica (nuovo quotidiano in formato pdf scaricabile), solo un miracolo potrebbe salvare l’ antica casa: giornalisti in cassa integrazione e direttore sempre in attesa di un colloquio con il segretario Matteo Renzi. Per ora negato. Staino dà prova d’ ironia: «Come si dice in questi casi, meglio ultimo al Tour de France che cinquantacinquesimo». Rivendica la maglia nera? «Potrei restare nella storia. Invece sono nel limbo». Tutti i direttori delle testate di partito lo sono. «Ma io più di altri. Renzi mi ha chiamato, nel 2015, come terza scelta – dopo Gianni Cuperlo ed Erasmo De Angelis – perché non voleva un giornale sdraiato sulla segreteria. Noto che ha cambiato idea. Come il lancio di Democratica dimostra: un house organ tarato sulle esigenze e sulla messaggistica del leader. Legittimo, per carità. Bastava dirlo». Non bisognerebbe mai credere ai leader che si immaginano aperti e plurali. Lo dicono, ma nell’ intimo non vogliono. «Verità sacrosanta, ma io sono un ottimista per natura e anche stavolta ci sono cascato. Del resto nel mio curriculum c’ è anche il sostegno a Massimo D’ Alema, il politico che più di ogni altro ha danneggiato la sinistra italiana». Provi ad astrarsi dal suo limbo e a guardare la situzione dall’ esterno. Hanno ancora senso le testate di partito? «No, probabilmente no. Di fronte a crollo delle ideologie, astensionismo in crescita, disillusione trasversale e massima mobilità di voto, l’ elettore non lo acchiappi più con il giornale della casa. Perché se fa da grancassa al segretario, non è credibile. E se invece si apre al dibattito, diventa motivo di tensione». Non ci poteva essere un modo più elegante per uscirne? «Assolutamente sì. Suona comodo alibi che il Pd non possa affrontare la situazione perché in minoranza nella compagine azionaria». Sono i fatti però. «Guardi che io capisco le esigenze del partito. Con tutti i soldi spesi per la campagna referendaria, una riflessione dopo la batosta era inevitabile. Però non così. Così fa male». I giornali di partito sono costati allo Stato 238 milioni in 15 anni. E sono quasi tutti morti, moribondi o confinati on line. Una parola a difesa? «La verità è che per anni sono stati caricati di costi impropri. Politici assunti come giornalisti, amministrativi a volontà, e via elencando. Errori che oggi si pagano in blocco». Sulla torre con Renzi e D’ Alema, chi butta giù? «D’ Alema non lo faccio neppure salire. E a Renzi dico: “Ho fatto il giornale aperto che mi hai chiesto. Perché reagire così?”» Intanto alle Feste dell’ Unità si mangia e si dibatte. «In nome di un giornale che non esce più». Macabro. «Foss’ anche solo per questo, una soluzione va pensata».

MEDIASET NUOVA PAY IL SECONDO TEMPO DEL BISCIONE

L’Economia del Corriere della Sera
Maria Elena Zanini
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L’ impressione è che il Biscione sia destinato nei prossimi mesi a cambiare pelle. Sotto assedio dei cugini francesi, contro i quali però è stata definita una strategia precisa, l’ obiettivo principe dalla galassia di Cologno Monzese è quello di arginare per quanto possibile il duplice colpo subito durante il 2016: il voltafaccia di Vivendi e l’ addio alla Champions League, passata (tornata, meglio dire) nelle mani di Andrea Zappia, alla guida di Sky. L’ impatto dell’ affair Vivendi sui conti del 2016 è stato importante. Come ha spiegato lo stesso Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, nel corso dell’ assemblea dei soci del 28 giugno, «La rottura (con Bolloré) ha segnato in modo profondo il 2016 e distrutto tutto il valore potenziale che sarebbe nato dalla combinazione di due grandi aziende di comunicazione». Tradotto in numeri significa una perdita record da 294,5 milioni di euro sul bilancio 2016 a causa di oneri straordinari per 341 milioni, generati proprio dal contenzioso con Vivendi. Ma le prospettive, stando alle dichiarazioni dell’ amministratore delegato Pier Silvio Berlusconi, sono cautamente ottimistiche con la previsione di tornare per quest’ anno all’ utile, con forti dubbi però sul dividendo, che già Fininvest ha deciso di non distribuire per quest’ anno. Comprensibile dunque il «malumore» che serpeggia a Cologno Monzese e altrettanto comprensibili le barricate che sono state innalzate, modello si vis pacem para bellum , per citare sempre Confalonieri. Da qui la seconda causa intentata contro Vivendi per «violazione contrattuale, concorrenza sleale e violazione della legge sul pluralismo televisivo». Oltre al risarcimento danni (1,5 miliardi) e alla richiesta di esecuzione del contratto, ora Mediaset contesta anche l’ acquisto di azioni realizzato nella scalata che avrebbe violato vincoli presenti nell’ accordo firmato. Per quanto riguarda il capitolo Champions, l’ offerta presentata da Mediaset per accaparrarsi ii diritti per la sua pay tv (240 milioni a stagione, contro i 230 del precedente triennio) non è riuscita a superare quella della concorrente Sky che ha messo sul piatto oltre 900 milioni per le 340 partite. Poco male: non è un mistero che la competizione europea non aveva incrementato il numero di abbonati alla pay, così come non ne aveva tolti a Sky che deteneva i diritti tv della Champions prima del Biscione. E ora, a conferma che la competizione europa non sia automaticamente portatrice di valore aggiunto, sta cominciando a prender piede l’ ipotesi che Mediaset venda alla concorrente i diritti satellitari della Champions per il prossimo anno , l’ ultimo del triennio 2015-2018. Trattative vere e proprie non ce ne sono, ma non si può escludere nessuna mossa. Ma a questo punto si pone un problema di contenuti per Premium. Un nodo sarà quello dei diritti per la serie A, la cui asta, fallita a giugno per le offerte «troppo basse», è stata rimandata in autunno. Se Mediaset Premium non riuscisse ad accaparrarsi nemmeno un’ offerta di calcio Serie A, il futuro per la pay tv sarebbe tutto da rivedere. Già nel piano 2020 presentato a Londra lo scorso gennaio si era paventata la possibilità di una pay tv senza calcio con un conseguente calo del numero di abbonati. Del resto quella di Premium non è mai sata una storia di grandi numeri o bilanci in pareggio (dal 2007 non ha mai fatto utili) e i suoi abbonati non hanno mai superato la soglia dei 2 milioni (raggiunti lo scorso anno) contro i 4,5 di Sky. La priorità però adesso non è più aumentare il numero di abbonati ma quello di massimizzare il margine. Come riuscire a farlo però non è cosa semplice. Ecco perché il nodo della serie A diventa importante per il broadcaster. Specialmente se «aiutata» da Tim, in misura tutta da ipotizzare. Anche perché Mediaset tende a smorzare le voci di una possibile alleanza con la società di telecomunicazioni di fatto nelle mani del «corsaro» Bolloré che tanto sta facendo dannare i Berlusconi. Un’ alleanza tra le due società potrebbe rappresentare il ramoscello d’ ulivo utile per sedare la contesa che di fatto sta rendendo difficile capire in che direzione si muoverà non solo Mediaset, ma anche gli altri protagonisti del mercato televisivo. Occorre reinventare la pay dunque, mantenendo aperta la porta alla possibilità di creare un polo sovranazionale, come era nei progetti con Vivendi, tenendo presente che senza il calcio a Premium rimane solo l’ esclusiva dei film e e delle serie tv delle due major Warner Bros(fino al 2020) e NBCUniversal (fino al 2018). Il rischio così è di presentare contenuti molto simili a quelli in streaming online di Infinity che ha tra l’ altro prezzi più abbordabili di quelli della pay. Ma che l’ online e l’ ondemand sia in effetti il futuro del gruppo è emerso anche la scorsa settimana durate la presentazione dei palinsesti, occasione in cui i vertici Mediaset hanno annunciato la nascita di Mediaset play, la piattaforma digitale gratuita che veicolerà sulla tv le funzionalità della pay e dei device digitali. L’ obiettivo è di «ridefinire un nuovo piano editoriale che sia capace di intercettare il nuovo gusto del pubblico senza rinnegare il passato», nell’ ottica di un passaggio graduale a un modello incentrato sulla tv generalista, supportato dal web. Un graduale «ricollocamento» del modello pay. La direzione è sempre più verso i contenuti gratuiti generalisti e quelli delle piattaforme fruibili ovunque. Perché in fin dei conti, il business che mantiene il Biscione ancora (abbondantemente) sulla cresta dell’ onda è proprio la tv generalista la cui raccolta pubblicitaria nel primo semestre del 2017 ha segnato un +2% sul 2016. Ma anche questo settore, da sempre dominato dalle corazzate Rai e Mediaset si sta frammentando con l’ azione di Discovery, sempre più aggressiva e di La7 e La7D e con un trend generale del mercato che sta virando sempre più verso il negativo. Un fronte in espansione è invece quello delle radio. Dopo l’ unione di R101, comprata da Mondadori con Radio 105 e Virgin Radio, il polo radiofonico Mediaset ha acquisito anche Radio Subasio che pur avendo un bacino di utenza regionale (focalizzato nel centro Italia), registra numeri importanti con 1,6 milioni di ascoltatori al giorno.

Vision e medusa la scommessa inizia in sala

L’Economia del Corriere della Sera
Stefania Ulivi
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Un broadcaster televisivo (Sky) più cinque produttori (Cattleya, Wildside, Lucisano Media Group, Palomar e Indiana Production). Uguale, una nuova società di distribuzione, la Vision Distribution. Nata nel dicembre 2016, tra i primi atti, annunciato nei giorni scorsi, ha chiuso un accordo di partnership con uno dei principali concorrenti, la Medusa Film. Nicola Maccanico è l’ amministratore delegato di questo nuovo soggetto che non nasconde le ambizioni di porsi come un interlocutore importante nel panorama dell’ industria cinematografica italiana. «Il nostro è un prototipo, un modello innovativo -, racconta all’ Economia il manager, 45 anni, già direttore generale di Warner Bros -. L’ obiettivo è contribuire all’ evoluzione di un sistema rimasto statico per troppo tempo. Questa è la prima volta che si riesce a unire cinque produttori con un broadcaster per fare distribuzione cinematografica». E l’ ingresso di Sky nella distribuzione è certo destinato a impattare sugli scenari. Avrà il controllo dei diritti cinematografici dei film che distribuirà, sia pay che free . «Il modello Vision implica per tutti una maggior trasparenza e confidiamo nell’ apporto di tutti i soci, Sky e produttori, per costruire film più forti e rilanciare la cinematografia nazionale così come è accaduto per serialità tv». In Vision, Sky è socio di maggioranza con il 60%, ognuno degli altri soci ha l’ 8%. Il cda è composto da Andrea Scrosati (presidente), Margherita Amedei, Luisa Borella, Carlo Degli Esposti, Mario Gianani, Benedetto Habib, Domenico Labianca, Federica Lucisano, Nicola Maccanico, Luca Sanfilippo, Riccardo Tozzi. «Abbiamo un obiettivo comune, per raggiungerlo dobbiamo far coesistere sensibilità, lingue ed esigenze diverse in tutto il processo di produzione e distribuzione, fino all’ interlocuzione con l’ esercizio. Sono mondi che si parlano ancora troppo poco. Per andare oltre i perimetri attuali del nostro cinema dobbiamo costruire film più solidi, scriverli meglio e difenderli in sala», sostiene l’ ad. La nuova società arriva in un momento molto critico del settore, con il box office in sofferenza. Nel mese di giugno 2017 gli incassi sono stati intorno ai 25 milioni di euro (pari a 3 milioni e 800mila presenze), contro i 29,7 milioni di euro e un milione in più di presenze del 2016. «La situazione è chiara a tutti, ma noi siamo convinti che esistano importanti margini di miglioramento per il cinema italiano: l’ importante è ripensare ai modelli operativi. Noi puntiamo al 10% di quota del mercato, non è facile: si può fare solo se cresce tutto il comparto». Il business plan , spiega Maccanico, prevede di «arrivare a venti titoli all’ anno, film italiani molto diversi tra loro ma tutti di forte appeal commerciale». Tra quelli annunciati, Il premio , nuova regia di Alessandro Gassmann con Gigi Proietti, Anna Foglietta e Rocco Papaleo, produzione IIF («Un road movie sulla famiglia che farà ridere e emozionare»); Sono tornato , commedia diretta da Luca Maniero con Massimo Popolizio, prodotta da Indiana («Remake del film tedesco Lui è Tornato , che immagina in tono comico il ritorno di Mussolini nell’ Italia di oggi»). Mentre il primo gennaio 2018 arriverà nelle sale il nuovo film di Riccardi Milani con Paola Cortellesi e Antonio Albanese. La prima uscita è Monolith di Ivan Silvestrini, tratto dal fumetto cult di Roberto Recchioni e targato Sky. «Lo mandiamo in sala a Ferragosto, in controtendenza, è una scelta strategica e simbolica. Crediamo alla sala come luogo di eccellenza per la fruizione dei contenuti». Intanto, gli occhi sono puntati sull’ accordo di partnership con Medusa per la distribuzione cinematografica dei rispettivi listini. «La finalità dell’ accordo è rafforzare l’ ingresso di Vision nel mercato. Poter condividere la rete commerciale con un operatore come loro aumenterà la nostra incidenza immediata sull’ esercizio cinematografico e accelererà il percorso di crescita». Medusa, a sua volta, ha già rapporti stretti con diversi produttori. «L’ accordo Vision-Medusa implica totale autonomia editoriale, di marketing e commerciale per le due aziende, che sono libere di determinare come credono le proprie scelte strategiche. Questo vale anche nel rapporto con i produttori» spiega Maccanico. Sul fronte economico, questa partnership aumenta l’ otti-mismo. «Siamo più forti e quindi ancora più convinti di poter raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti».

Parla Giletti: «Vi racconto la mia Arena antipatica»

Libero

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DANIELA MASTROMATTEI Il tormentone dell’ estate: Massimo Giletti resta o se ne va, dopo che la Rai ha maldestramente chiuso L’ Arena, il suo gioiellino creato e condotto con spirito libero per 13 anni, senza mai schierarsi politicamente; e qui la sua grande forza oltre alle coraggiose inchieste e a una media altissima di telespettatori (4 milioni: non sono affatto pochi). Giletti è fuori dal coro, non è allineato, i suoi servizi di cronaca e denuncia che hanno dato tanto fastidio al Palazzo, mandando di traverso il pranzo della domenica al politico di turno, hanno dimostrato che lui non scende a compromessi. È un uomo d’ altri tempi con dei valori importanti con i quali non ama discutere quando si spengono le luci. Alla fine Giletti resta in viale Mazzini, accettando il sabato sera musicale, o lascia per andare a fare il battitore libero altrove? «Non ho ancora preso una decisione. Mio padre mi ha insegnato l’ arte di non abdicare mai a onestà intellettuale e dignità. Dalla Rai si entra e si esce. Spesso ho trovato in questa azienda persone che non mi hanno aiutato, anzi hanno cercato di ostacolarmi. Però poi c’ era una parte sana che mi dava una mano perché sapeva come lavoro. E si stava a galla con gli ascolti». E ora dove la porta l’ onestà intellettuale? «A non scendere a compressi. Io sono uno spirito libero, un anarchico. Essere su una rete importante ha alzato molto il livello della mia attenzione, perché tutto quello che avviene su Raiuno viene amplificato. Dall’ altra parte c’ è un utente, non un cliente. Una volta mi ha chiamato un direttore generale perché aveva ricevuto l’ ennesima telefonata di protesta e mi ha chiesto: “Ma lei da che parte sta, non lo capisco”. Gli risposi: se non lo capisce vuol dire che faccio bene il mio lavoro». Quindi è davvero contro la casta, non è solo un modo per fare audience? «Sono assolutamente contro la casta, e non solo quella dei politici, anche contro quella dei magistrati. Sono contro le inguistizie e i poteri forti che si approfittano della loro posizione e non fanno bene il loro mestiere, un conduttore deve stimolare il cambiamento». Le sue battaglie sono storia, la più memorabile è stata quella sui vitalizi, come dimenticare la sua lite furiosa con Mario Capanna. Avete fatto pace? «Quella a Capanna fu un’ intervista difficile, ma carica di verità. Non ci siamo più incontrati e sinceramente non ne sento il bisogno, è stato deludente. Lo ricordavo come un uomo che difendeva i diritti degli ultimi, vederlo far le barricate per i privilegi di pochi è stato imbarazzante. Ho pagato una sanzione di 20 mila euro alla Rai per aver scagliato il suo libro a terra, ma lo rifarei». È stato più facile intervistare Berlusconi o Renzi? «Sono due animali televisivi, molto preparati, possiedono grande dialettica e conoscono bene il mezzo televisivo, hanno regalato emozioni diverse molto intense in entrambi i casi. Renzi è figlio di Berlusconi». Berlusconi però durante l’ intervista più di una volta si è alzato minacciando di lasciare lo studio? «Dopo l’ intervista, dietro le quinte, mi ha stretto la mano e mi ha confessato: lei mi è piaciuto molto. Poi mi ha fatto la dedica su un cartoncino del suo programma, che conservo ancora come un cimelio». Pressioni più da destra o da sinistra per essere invitati in trasmissione? «Non mi piace mai fare nomi. Di pressioni ne ricevo, ma io scelgo il prodotto, scelgo l’ interlucutore per capacità dialettica che sappia esprimere contenuti veri, non slogan. Le belle statuine non mi interessano». Ogni tanto si sono viste anche delle belle statuine, sedute nel suo studio, ma poi non le ha fatte parlare… Ride. «A volte la velocità del programma mi ha costretto a dare meno spazio a qualcuno». Le è capitato di ricevere proposte scomode dai partiti? «Gli stessi partiti ormai sanno che devono mandare solo persone preparate, sanno che voglio soltanto i migliori». Invita i partiti, non le persone? «Per correttezza invito il partito. Ma dopo tanti anni mi può capitare di chiamare direttamente gli ospiti, ormai li conosco. Gli ospiti sono essenziali, non li baratto. Ho troppo rispetto per il pubblico che mi segue». E siamo sicuri che non si è mai lasciato condizionare dalle simpatie personali? «Ho invitato personaggi non simpatici ma erano oggetto di dibattito. Mai dare spazio alle emozioni personali. Per mia fortuna negli anni in cui ho condotto L’ Arena ho goduto di una grande libertà, staremo a vedere cosa succederà in futuro…». Tra due donne egualmente preparate e dello stesso partito ha mai invitato in trasmissione quella più carina? «Bisogna trovare delle alchimie. In tv l’ estetica gioca un ruolo importante, ma non può essere l’ unico elemento di valutazione». Deve essere stato un po’ imbarazzante invitare Alessandra Moretti mentre i giornali di gossip vi davano per fidanzati? «Ribadisco, il prodotto viene prima di tutto. Di sicuro dopo il bacio che ci siamo dati in Sardegna io non l’ ho più invitata». Se non l’ ha più invitata, vuol dire o che state ancora insieme, oppure che vi siete lasciati molto male. Ride. «Non ci casco». Perché vi siete lasciati? Divergenze politiche? Ride. Torniamo all’ Arena, qual è il personaggio che non è riuscito a intervistare e che avrebbe tanto voluto avere in studio? «Beppe Grillo». La prima domanda… «Sulla democrazia. Nel M5S c’ è poca dialettica e chi la pensa in modo diverso viene espulso. Dov’ è la democrazia. La politica non può essere imposizione». Lei da piccolo voleva fare il pompiere, e invece si è ritrovato più che a spegnere fuochi, ad accendere infuocati dibattiti… «Sembra un paradosso, ma non lo è. Non so stare fermo a guardare. Sono piuttosto un passionale, mi batto per il cambiamento, quando è necessario». Sembra la strada giusta per lanciarsi in politica. Silvio Berlusconi glielo ha già chiesto. E a sinistra qualcuno glielo ha proposto? «Me lo hanno chiesto dal centrodestra, io non ho mai detto che è stato Berlusconi, la sinistra non me lo ha proposto, per il momento. Difficile comunque convincermi. Come diceva Giorgio Gaber “la libertà non è star sopra un albero…la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione… vorrei essere libero, libero come un uomo”». Uno spirito libero che non usa facebook, né twitter, né instagram. Un uomo più legato alla vita vera che a quella virtuale, che ama leggere un libro all’ aperto su un prato. Però è molto attaccato al consenso del pubblico, piuttosto che perderlo preferirebbe essere lasciato dalla fidanzata, si è lasciato sfuggire. È ancora così? «Niente social. Vado controcorrente, ci hanno spacciato la tecnologia come mezzo per vivere felici e invece ha esasperato la nostra vita, nel bene e nel male. Ci ha trasformato in personaggi di reality che mettono tutto in vetrina. La tecnologia ha esaltato gli eccessi del narcismo. Io amo vivere con i miei tempi, con lentezza, preferisco passare il mio tempo libero in un parco, Roma ne è piena, piuttosto che restare incollato al telefonino. E poi mi piace andare nei boschi, mi rigenera, ieri ho passeggiato tre ore immerso nella natura. Oggi mi sento come nuovo». Non ha risposto all’ altra domanda… «Scontentare 4 milioni di persone, mi crerebbe qualche problema in più che scontentarne una sola». Diciamo che preferisce perdere la fidanzata piuttosto che 4 milioni di spettatori. Sarà contenta la fidanzata… Ride… Nel 2013 è stato in Iraq, per raccontare l’ Isis, ha avuto paura? «Sono stato in Iraq e in Libia, nei teatri di guerra, mi preoccuperebbe non aver paura, vorrebbe dire essere incoscienti. L’ incoscienza è un atteggiameno pericoloso. Per portare a casa la pelle devi aver paura». La democrazia si esporta? «L’ errore drammatico dell’ Occidente è pensare di esportare la democrazia in Paesi che non la conoscono. È un processo lunghissimo. Sui temi dell’ immigrazione purtroppo l’ Italia è stata lasciata sola. Dovremmo farci ripettare di più dall’ Europa». E lo Ius soli è una soluzione? «Il dibattito è ancora lungo. Certo, non possiamo fermare la storia, dobbiamo lavorare sull’ integrazione e andare in Africa per impedire ai barconi di partire». Un salto ancora nell’ Arena. Come viveva l’ antagonista Barbara D’ urso in onda alla stessa su Canale 5? O ha temuto di più le partite su Sky? «L’ Arena aveva una forte percentuale maschile di pubblico, temevo più le partite sportive. Con la D’ Urso siamo stati buoni vicini. Abbiamo storie diverse, ognuno fa la sua televisione». Lei è stato il vero re della domenica pomeriggio. Qual è il segreto del suo successo? «La credibilità, frutto di una grande passione con cui si lavora senza essere ideologici. Dietro L’ Arena c’ e un lavoro pazzesco non c’ è solo Giletti. I conduttori fanno l’ errore di pensare di essere Dio in terra solo perché appaiono in tv, in realtà il successo è figlio di un lavoro di gruppo». Grandi consensi, anche quando è stato intervistato dalla Berlinguer nel suo programma “Carta bianca”su Rai3. Lì ha riscosso un alto gradimento, mai sfiorato prima, da un pubblico sia di destra sia di sinstra. Dica la verità non si vedrebbe bene sulla poltrona di primo cittadino di Torino? «Fare il sindaco oggi è una follia. E per i giornalisti che vanno a fare i politici poi è un problema tornare a fare a i giornalisti, così come per i magistrati, che dopo un giro in politica vogliono riprendere a occuparsi di giustizia. Se vuoi essere credibile, forse puoi occuparti di sport, ma per carità…». Quindi mai in politica? «Mai dire mai». L’ ho vista cantare con il Volo e poi con i Pooh. Sarà per questo che i dirigenti Rai hanno pensato che sia perfetto per condurre un programma musicale il sabato sera? Ride. «Mi piace cantare, mi piace rompere gli schemi, sempre divertendomi. Se io mi diverto si divertono anche gli altri». Quando si spengono le luci e resta da solo chi è Massimo Giletti? «È un uomo che ama la solitudine, che non ha paura di stare solo. Anzi, desidera stare da solo. È un uomo alla continua ricerca delle mille anime che vivono in lui». Narcisista? «Chiunque fa il mio lavoro è ipocrita se non ammette di esserlo un po’, bisogna solo sperare di non esserlo troppo». È in perfetta forma fisica, piacere o dovere? «Piacere, è piacevole soffrire durante l’ allenamento. La fatica ti fa capire che non è facile raggiungere determinati obiettivi. Comunque vado almeno tre volte a settimana in piscina, gioco a calcetto e ho una piccola palestra in casa». E la sveglia a che ora suona la mattina? «Mi sveglio alle 8, un’ ora per allenarmi, e alle 10 in redazione, e a mezzanotte sono già a letto». Si addormenta guardando la tv oppure con un buon libro? «Preferisco leggere nel pomeriggio, la sera guardo molta televisione, ma poi dipende dalle serate. Non ho regole. E non le voglio». Vive da solo? «Sì». Sicuro? «Molto sicuro». Neanche con un cane o un gatto? «Amo troppo gli animali per farli vivere in un appartamento, ci vorrebbe un giardino. Ma ogni mattina una coppia di corvi si posa sul mio terrazzo, mi aspetta per la colazione. Abbiamo una sorta di appuntamento, si presenta sempre alla stessa ora per augurarmi il buongiorno, io gli offro qualcosa da mangiare. E poi i corvi, sempre in coppia, volano via». Spesso è sui giornali di gossip. Tante donne, anche tanti amori? «Amori pochi, tre, forse quattro, ma non mi chieda i nomi, non li farei neanche sotto tortura. Posso parlare però del primo, ormai è caduto in prescizione. Conosciuta sui banchi dell’ Università. Si chiamava Alessandra». Alessandra mi ricorda qualcuno… Ride. «A volte ritornano». In questo momento è innamorato? «Sono sempre innamorato della vita, le donne fanno parte della vita quindi sono spesso innamorato». Al primo appuntamento come si presenta per fare colpo? «Io non ragiono in questi termini. Non cerco di ingannare nessuno. Sono sempre me stesso. Sono un minimalista, che è anche la mia filosofia di vita. Amo molto lo stile di Giorgio Armani. La sua giacca destrutturata è come se fosse una seconda pelle. Regala una sensazione di libertà». Libertà…Immagino non abbia un bel rapporto con la cravatta. Obama aveva lanciato la moda dell’ eleganza senza cravatta anche per le più formali riunioni di Stato. Subito imitato da alcuni premier europei, anche da Renzi. Se ne può davvero fare a meno? O ci sono occasioni dove è necessaria? «Non la amo molto. Ma Obama così come Marchionne sono dei simboli di potere, possono permetterselo. Io in certe occasioni non ne posso fare a meno. Certo, appena rientro a casa mi tolgo persino le scarpe e cammino a piedi nudi. Camicia e pantaloni larghi, quelli alla turca per intenderci. Sono la mia divisa casalinga». E la donna cosa dovrebbe indossare per sedurla? «L’ abito dell’ intelligenza e della dolcezza, un abito difficile da indossare». Insomma le preferisce intelligenti e dolci. E la bellezza quanto conta? «Preferisco le donne affascinanti… la bellezza svanisce». Si vestono meglio le donne di destra o di sinistra? «Viviamo in una società dove destra e sinistra sembrano non esistere più. Quelle di sinistra hanno smesso i panni delle madonne addolorate. Comunque la più elegante è senza dubbio Daniela Santanché. Lei è il top». Solo per come si veste? Ride… Come giornalista-conduttore che voto si dà? «Sono gli altri che mi possono giudicare». E come uomo? «Come uomo ritendo di ssere coraggioso, mi dò un voto alto tranne che in amore». Ha più amato o è stato più amato «Sono stato più amato, purtroppo». Chissà quante ne ha fatte soffrire. Ride. Nel tempo libero, cosa fa vede gente, donne, cucina. «Nel mio tempo libero cerco di ritrovare me stesso a contatto con la natura, ma questo lo già detto». Amici? «Veri amici solo un paio. Uno fa il magistrato, l’ altro vive in Inghilterraè un professore di Italiano e Storia». E questa estate che vacanze farà? «In un’ isola sperduta del Mediterraneo, lontano da tutti». Con chi? «Con chi amo». E vero che va ogni anno a Lourdes? «Ho fatto oltre 30 viaggi, la prima volta, avevo 10 anni, sono andato con mia madre Giuliana e mia nonna Bianca Maria. Mi dissero: è ora che impari a conoscerere il mondo degli invisibili. È stato un arricchimento, una grande lezione di vita. Allora ero convinto di far del bene a loro. Oggi sono io che devo ringraziarli, mi regalano molto». Cosa pensa della sospensione di Filippo Facci, giornalista di Libero, da parte dell’ ordine dei giornalisti? Enrico Mentana aveva detto: “Qualsiasi cosa fosse, sesso, politica, terrorismo, economia, era una sua opinione. Non voglio sapere cosa abbia scritto, la libertà vale per tutte le opinioni. E io con gente che sanziona le opinioni non voglio avere nulla a che fare. Ditemi quindi dove firmare per chiedere di abolire l’ ordine dei giornalisti, ora che da inutile è diventato dannoso”. «Ho sempre lottato per chi ha un’ opinione diversa, noi giornalisti dobbiamo tutelare il rispetto di chi la pensa diversamente. Sono perfettamente d’ accordo con Enrico». riproduzione riservata.


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