Indice Articoli
- Tv generalista la resa a Netflix si legge nei bilanci
- Videogame, il modello artigianale non funziona
- Rai, 30mila euro a Grillo per i diritti televisivi
- La nuova Rai sovranista è pronta ad arricchire il miliardario Grillo
Tv generalista la resa a Netflix si legge nei bilanci
Affari & Finanza
SARA BENNEWITZ, NATIVI DIGITALI LA PARTITA ITALIA-SPAGNA L’ INCOGNITA FRANCESE
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milano Uno studio di Bofa-Merrill Lynch prevede per le emittenti “storiche” quotate in Borsa un calo dei fatturati del 3% l’ anno da qui al 2025. Viceversa i “Big” dello streaming cresceranno in media del 15% ogni dodici mesi con punte fino al 19% I video online stanno uccidendo la tv. Questa l’ analisi di Banca of America Merrill Lynch che rimette in discussione il modello dei broadcaster europei. Anche se le televisioni dominano ancora i salotti di casa, gli analisti della banca americana vedono spuntare l’ alba della rivoluzione. In Italia, scrive il report, le tv stanno accese oltre 4 ore al giorno, una di più che Inghilterra, ma i video online e lo streaming in generale mostrano tassi di crescita rapidissimi, e stanno diventando predominanti nei gusti e nei consumi delle nuove generazioni. YouTube a Netflix vanno facendo proseliti anche nel Vecchio Continente, mentre giorno dopo giorno si allarga l’ offerta da scaricare in rete, da Amazon a Apple, da Disney a Warner Media. Anche per questo motivo, presto o tardi le tv europee dovranno trovare nuovi modi per fare scala e programmare un futuro che le metta al riparo. Bank of America (Bofa) stima che entro il 2025 la tv perderà un quinto del suo appeal, il che tradotto in cifre significa un calo medio dei ricavi delle tv generaliste classiche del 3% all’ anno per i prossimi sette anni. Al contrario lo streaming crescerà in media del 15% l’ anno, facendo lievitare le aziende del settore di un volume di fatturato tra il 7 e il 19%, a seconda della capacità di attrarre il pubblico. Nel 2025 i nativi digitali rappresenteranno la metà della forza lavoro (erano il 35% nel 2015) e saranno il target più ambito dagli inserzionisti pubblicitari. Con questi chiari di luna non c’ è da stupirsi se nel 2018, mentre le Borse europee hanno registrato un calo medio del 10%, le tv generaliste hanno perso il 30% del loro valore, e se Bofa ritiene che pure il futuro non sarà migliore. «Si tratta di un cambio generazionale, non di un cambio di gusti – spiegano gli esperti della banca – per questo sarà irreversibile. Tanto più che ancora non è stato dimostrato che l’ unione tra una tv e una società telefonica, riesca a risollevare le sorti di entrambe le aziende ». Le tv generaliste che hanno provato a migrare sul web, nonostante avessero dei brand riconosciuti, lo hanno fatto tardi e con formule che hanno riscosso scarso successo anche perché il cambio dei mezzi di diffusione comporta mutamenti nell’ offerta e nei contenuti. Morale: mentre il mondo dei contenuti nati sullo streaming si è conquistato spazio nelle tv, le società televisive venute dall’ etere non sono riuscite a guadagnare spazio sul web, e a veciolare quindi i contenuti su tablet, pc e telefonini. Una tendenza che si acuirà con la penetrazione del 5G, che cambierà ancora una volta l’ esperienza del pubblico nei video via web in mobilità. Se lo scenario apocalittico di Bofa si realizzasse, per le società televisive sarebbero dolori e per Mediaset e le controllate spagnole come Telecinco anche di più, perché Italia e Spagna sono più indietro di altri quanto a diffusione dello streaming, e rischiano di diventare una facile terra di conquista. Anche perché, secondo la banca, mettere insieme in chiave difensiva tv di Paesi diversi non ha ancora dimostrato di essere un modo vincente per ridurre i costi sfruttando economie di scale. Questa convinzione non sembra però propria di Mediaset, che da mesi lavora a un riassetto interno ma anche ad alleanze internazionali, ed è convita che fare scala porti vantaggi concreti. La società che fa capo a Silvio Berlusconi non è l’ unica a vederla più rosa di Bank of America, visto che anche Credit Suisse è moderatamente ottimista per le aziende della comunicazione che riusciranno a fare efficienze seguendo la cosiddetta regola delle “tre C”: convergenza, consolidamento e costi. Dello stesso avviso è anche Citigroup, secondo cui alla fine c’ è un prezzo per tutto, e alcuni asset delle vecchie tv sono talmente sottovalutati da meritarsi il rischio dell’ investimento. Tra questi, una delle favorite di Citigroup è proprio Mediaset España, la subholding iberica del gruppo, quotata a Madrid, che questa settimana ha annunciato un buy back da 200 milioni e un dividendo pari almeno al 50% degli utili generati (circa altri 100 milioni). Anche Mediaset quest’ anno tornerà al dividendo, mentre di fatto ha sospeso i piani di buy back per dare spazio alla capogruppo Fininvest, che dall’ incursione di Vivendi del dicembre 2016 è salita dal 34 a oltre il 43,7% del capitale, e ormai supera il 45,4% dei diritti di voto. Solo che gli acquisti dei Berlusconi per blindare Mediaset e la scalata mancata di Vivendi (che ha il 28,8% del capitale) hanno ridotto il flottante del gruppo sotto il 20%, rendendo difficile per i grandi fondi l’ investimento nel Biscione. Una beffa, perché la scarsa liquidità di Mediaset ha fatto uscire il titolo dal paniere delle 40 maggiori aziende italiane (ha lasciato il posto alla Juventus), facendole perdere ancora più attrattività e valore. Un conto salato che, peraltro, ha colpito anche Vivendi, che anche volendo oggi non potrebbe liquidare sul mercato la sua quota, perché il poco flottante rende l’ operazione sconveniente. Anche per questo motivo, sono mesi che le banche d’ affari si esercitano su possibili operazioni di accorciamento della catena, che portino alla fusione del gruppo di Cologno con la controllata spagnola. I modi per farlo sono tanti, ma l’ Ops pare la strada maestra. Il tribunale di Milano ha peraltro bloccato il ricorso di Simon, il blind trust dove Vivendi è stata costretta dall’ Agcom a parcheggiare il 18,8% di Mediaset e che chiedeva di poter esercitare i diritti di voto. La parola fine non è però detta e una nuova udienza sulla questione si terrà 9 aprile. Difficile però che, a questo punto, il giudice liberi la fiduciara dai suoi vincoli, lasciandole bloccare la fusione italo-spagnola. Al termine del buy back che Mediaset España ha appena annunciato, una Ops con Mediaset diluirebbe la Fininvest al 36-37% del nuovo gruppo e Vivendi al 23-24%. La famiglia Berlusconi resterebbe il socio di maggioranza con una quota che le garantisce la minoranza di blocco, mentre i francesi avrebbero l’ affaccio a un’ azienda più grande e potrebbero sia recuperare valore, sia liquidare le quote su cui non possono votare. Il nuovo aggregato italo- spagnolo sarebbe più forte, potrebbe ridurre i costi, accentrare alcune produzioni e negoziare meglio future alleanze internazionali, come quella con la francese Tf1 e la tedesca Prosieben. Difficilmente però i Berlusconi faranno un passo prima del 12 marzo, quando il Tribunale di Milano è atteso decidere sull’ altra questione giudiziaria in sospeso, la causa per danni fatta da Mediaset contro Vivendi per Premium. Sempre che, prima di allora, Berlusconi e Vincent Bollorè non arrivino a un accordo che, almeno, permetterebbe loro di affrontare con le mani più libere il catastrofico scenario disegnato da Bank of America. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Focus E PER LA RAI UN GUAIO IN PIÙ Le notizie sui destini della tv generalista sono un problema in più per la Rai, che dopo aver chiuso faticosamente in pareggio il bilancio 2018, nel 2019 incontra un altro ostacolo: l’ extra gettito da canone derivante dall’ inserimento in bolletta elettrica (quasi 200 milioni) sarà assorbito per il 50% dalla fiscalità generale dello Stato per migliorare i conti pubblici 1 TECHNOTR/GETTY 1Per i “broadcaster” tradizionali si profila un’ aspra concorrenza dallo streaming.
Videogame, il modello artigianale non funziona
Affari & Finanza
JAIME D’ ALESSANDRO
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S ono 127 aziende, poco più di mille addetti, e un terzo sono formate da sole due persone. Di più: appena cinque hanno un fatturato superiore ai due milioni di euro l’ anno, mentre la metà non supera i 100 mila euro. I numeri degli sviluppatori di videogame in Italia continuano ad esser quel che sono: bassi e con una crescita marginale rispetto ad altri Paesi europei, almeno stando all’ ultimo rapporto della Aesvi, l’ associazione di categoria, che racconta di un mondo praticamente artigianale. Il tutto nonostante da noi il consumo di giochi sia elevato e il giro di affari complessivo valga circa un miliardo e mezzo. Chi si appella a un aiuto concreto del Governo, dopo gli sgravi fiscali arrivati con quello precedente, ha fatto male i conti. Considerando le risorse limitate dell’ esecutivo, tutto concentrato su reddito di cittadinanza e quota cento, bene che va potrebbero forse arrivare spiccioli. Il mercato dei videogame sta subendo una trasformazione profonda che non aiuta gli investimenti. Nel suo transitare da fabbrica di contenuti a fabbrica di servizi, per intenderci dal produrre titoli da acquistare in negozio a concepire giochi online che invece vanno sempre più sul modello delle micro transazioni e degli abbonamenti alla Fortnite, sta mettendo da parte il lato migliore dal punto di vista culturale in favore di un modello che ricorda le slot machine. L’ intento non è più intrattenere, ma cercare di far spendere il più possibile nel corso del tempo. Fra i grandi editori che un tempo si offendevano quando venivano giudicati inferiori ai loro colleghi di cinema e letteratura, l’ imperativo è monetizzare e inanellare altre trimestrali record. Malgrado i guadagni già sostanziosi e malgrado quei sistemi nati sugli app store siano al limite della truffa e abbiano già sollevato diverse polemiche. Ma se Apple e Google, che intascano circa un terzo di ogni acquisto che avviene sulle app, non hanno mai detto nulla su tali pratiche, perché dovrebbero farlo ora gli editori di giochi per console? E infatti non lo fanno. Tagliano invece il personale, i costi di sviluppo e si mettono a tavolino per cercare di imporre il prossimo fenomeno interattivo per teenager. Ma è come puntare alla roulette: le possibilità di successo sono basse e pochi vincono mentre tutti gli altri restano a bocca asciutta. ©RIPRODUZIONE RISERVATA L’ opinione L’ Italia, dove invece i praticanti sono molti, perde un’ opportunità: a questo punto è difficile attendersi un aiuto da un governo già a corto di risorse.
Rai, 30mila euro a Grillo per i diritti televisivi
Il Fatto Quotidiano
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Lo spettacolo “C’ è Grillo”, in onda stasera su Rai2, costerebbe alla Rai oltre 30mila euro. Lo rivela l’ Adnkronos: sono i diritti che viale Mazzini dovrebbe corrispondere alla “Marangoni spettacoli”, ovvero all’ agente storico di Beppe Grillo, per l’ uso di vecchi filmati del comico. Nei giorni scorsi c’ è stata polemica per la decisione di dedicare una puntata al fondatore del M5S . Il contratto non è stato ancora firmato e potrebbe essere modificato con una cessione gratuita dei diritti da parte dell’ agente di Grillo.
La nuova Rai sovranista è pronta ad arricchire il miliardario Grillo
Il Giornale
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Sulla Rai torna «uno dei grandi personaggi della tv italiana». Il giudizio – incontestabile seppur incompleto – è contenuto nella stessa presentazione del programma che andrà in onda questa sera alle 21,20 su Rai Due. Il personaggio in questione è Beppe Grillo che nel 2009, dopo qualche anno di preparazione fondò il Movimento Cinquestelle, primo partito italiano alle ultime elezioni. Naturalmente la coincidenza di questa monografia televisiva – la prima era stata dedicata ad Adriano Celentano – con le nomine dei nuovi dirigenti Rai ha fatto scattare polemiche infuocate. Il programma essendo realizzato da Marco Giusti, Stefano Raffaele, Luca Rea e Roberto Torelli con materiale di repertorio sembrava essere a costo zero. «Non c’ è nessun tipo di contratto né compenso per Grillo, né per gli altri protagonisti del nuovo format», precisava una nota di Viale Mazzini. Secondo quanto rivelato dall’ Adnkronos, lo spettacolo C’ è Grillo costerebbe alla Rai oltre 30mila euro. Si tratta dei diritti che viale Mazzini dovrebbe corrispondere alla «Marangoni spettacoli», ovvero all’ agente storico di Beppe Grillo per l’ uso di vecchi filmati del comico genovese. Una cifra di per sé non significativa per una prima serata – tutti i programmi realizzati con immagini di repertorio, a meno che la Rai non detenga i diritti esclusivi, prevedono un pagamento di questo tipo e lo stesso è accaduto anche per il programma dedicato a Celentano – ma dal momento che questi soldi finirebbero a un attore che è anche leader politico e a pagarli sarebbe il servizio pubblico la polemica è scontata. Sui social network è già partito da giorni una sorta di derby tra i sostenitori dei Cinquestelle che invitano «a tenere il televisore acceso su Rai Due anche se non siete in casa» e quelli che chiedono di boicottare la trasmissione. La grana dei diritti da pagare per la messa in onda ha naturalmente provocato qualche imbarazzo nei piani alti di Viale Mazzini. Per evitare nuove polemiche e per opportunità politica, l’ unica strada sembrerebbe quella di modificare il contratto con una cessione gratuita dei diritti da parte dell’ agente di Grillo. Si attende quindi un segnale in tal senso. La vicenda non è stata ancora chiusa e oggi si deciderà il da farsi in una riunione. L’ offensiva politica sulla vicenda continua a essere portata avanti con decisione dal Pd. «Grillo è il capo del partito di maggioranza relativa che esprime la presidenza Rai e il ministro dell’ Economia, principale azionista dell’ azienda. Sono cose che non accadevano nemmeno nella Prima Repubblica», dice Roberto Morassut. «Sono cose da Repubblica delle banane. Ricordo a Grillo che 30mila euro è lo stipendio annuo di un impiegato comunale. Lui lo prende in una botta sola perché è un capo politico. Tria deve spiegare». E Davide Faraone si dice pronto a presentare una interrogazione parlamentare e a fare una verifica attraverso l’ accesso agli atti. Con una postilla: «Non escludo che tutto possa essere stato pensato per poter consentire a Grillo di fare il bel gesto, con una bella dichiarazione in cui rinuncia al compenso».
L'articolo Rassegna Stampa del 28/01/2019 proviene da Editoria.tv.