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Rassegna Stampa del 24/12/2018

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Dazn, 1,3 milioni di spettatori nel derby della tv con Sky

Hollywood al tramonto il cinema si fa su Netflix

La Lega a 5 Stelle tradisce chi lavora

Dazn, 1,3 milioni di spettatori nel derby della tv con Sky

Affari & Finanza
ALDO FONTANAROSA,
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roma Le televisioni a pagamento italiane hanno vissuto momenti peggiori, di esborsi milionari, di lotte senza esclusione di colpi, alla fine di risultati assai magri nel conto economico. Ora una tacita suddivisione del mercato fra i tre editori in campo, avviata con la pace di aprile 2018 tra i due maggiori Sky e Mediaset Premium, genera quello che nessuno osava sperare. Ora stanno tutti meglio. Sky confida di superare largamente la soglia anche psicologica dei 5 milioni di abbonati. Dazn, che chiede pochi euro a quanti più sportivi possibile, può centrare il break even di qui al 2021, sia pure a fatica. E finanche Mediaset Premium rischia di toccare l’ utile, il secondo della sua tormentata storia, adesso che non sopporta più i costi del calcio tricolore ed europeo. Il brutto anatroccolo della tv italiana è riuscito, miracolosamente, a sollevarsi in volo. Il vento contrario, i pirati che ti sparano addosso, i Garanti che chiedono al governo norme più stringenti su misura per te, le tante inefficienze di Internet: tutte queste avversità non hanno impedito a Dazn di raggiungere una quantità accettabile di clienti. Il numero degli abbonati, quello è secretato. Ma un dirigente di Dazn, parlando con i vertici di una società partner, ha sussurrato una cifra interessante: si sarebbe toccata quota 1,3 milioni. E il numero compare – sia pure come indiscrezione finanziaria – in uno studio che la Lega Calcio scrive sullo stato di salute delle pay-tv. Non tutti questi spettatori sono paganti, non tutti pagano un abbonamento pieno. Dazn permette di collegare fino a sei cellulari, tablet o smart tv allo stesso account che uno soltanto paga. E questa concessione – oltre a creare le catene di Sant’ Antonio di amici e parenti – scatena i siti e le app dell’ economia della condivisione. Come Together Price che propone un giochino niente male. Una persona si abbona e paga. Poi, attraverso Together Price, cede le sue credenziali di accesso ad altre persone di ogni parte del mondo che neanche conosce. L’ unica condizione è che queste persone – fino a un massimo di 5 – versino una quota dell’ abbonamento Dazn. La disordinata platea dei clienti Dazn – paganti, paganti un poco, non paganti – è comunque una risorsa per la web tv che può contare su tanti occhi che guardano i suoi spot. E anche Dazn ha gli occhi ben puntati sugli sportivi. Grazie alla casa madre britannica Perform, l’ emittente dispone di un’ avanzata tecnologia di monitoraggio dei suoi clienti, paganti o meno. Dazn ne traccia i comportamenti, li profila. E così può incoraggiare gli inserzionisti a investire sulla base di identikit certi degli spettatori. Quando gli abbonati (e finanche i pirati) privilegiano un contenuto piuttosto che un altro, forniscono a Dazn una bussola per capire quali eventi sportivi piacciono, quali confermare in futuro e quali invece cancellare. I dati, un’ altra risorsa che aiuta. A favorire Dazn qui in Italia anche uno strano privilegio. La pay-tv non ha un palinsesto classico e lineare (come può essere quello della Rai e in parte della stessa Sky). Dazn non ha neanche una infrastruttura di trasmissione di sua proprietà, visto che si appoggia alle reti Internet generali. Per queste due ragioni, il Garante delle Comunicazioni (l’ AgCom) ritiene di non poter vigilare su Dazn, cui dunque non si applicano le norme in materia di televisione o pubblicità. In grado di controllare Sky o Mediaset – disarmata di fronte a Dazn o la stessa Netflix – il Garante ha pronta una segnalazione al governo perché cambi la legge e trasformi le web tv in soggetti “vigilati”. Alla fine – tra pubblicità mirate, elaborazione di dati e immunità regolamentari – il brutto anatroccolo sta trovando dei soldi, euro dopo euro, centesimo dopo centesimo, forte anche delle esperienze che ha maturato in altri Paesi, discrete. Lo dimostra la sua performance finanziaria del 2017, alla vigilia dello sbarco in Italia, quando Dazn ha portato i ricavi dagli 8,7 milioni di sterline (dell’ anno prima) fino a 90,8 grazie allo sbarco in Austria, Germania, Svizzera e Giappone. E Mediaset Premium, in tutto questo? L’ azienda della famiglia Berlusconi è uscita dal calcio dopo l’ ultima emorragia di denaro che le ha portato via 373 milioni per i diritti della Serie A dal 2015 al 2018 (per non dire della Champions). Ma un fenomeno curioso prende corpo, a Premium. La pay-tv – pur condividendoli con Sky da aprile – conserva i canali di fiction e film, competitivi, e ha anche Eurosport. Quest’ offerta non disprezzabile e un prezzo d’ occasione di 14,9 euro al mese hanno convinto oltre 700 mila persone a confermare l’ abbonamento (riferisce a Repubblica una fonte bancaria). E allora Mediaset Premium – che dà anche lo sport di Dazn ai clienti del pacchetto calcio – confida nel secondo utile della storia. Il gruppo Berlusconi si tiene stretta anche Infinity. Nata nel 2013, stesso modello di Netflix – abbonamento fino a 13,99 (con Dazn) – Infinity è accreditata di 750 mila clienti (il 60% su smart tv). Ora che Sky Italia entra nelle proprietà dell’ americana Comcast, anche qui scende un velo sul dato degli abbonati. L’ ultimo numero ufficiale dava la pay-tv satellitare poco sopra quota 4,7 milioni. Intanto, un inserzionista pubblicitario tra i più potenti del Paese stima in oltre un milione e 200 mila i clienti che hanno abbandonato Mediaset Premium, orfana di Champions e Serie A. Il “conto della serva” colloca la platea attuale di Sky Italia, che richiama i fuggitivi, oltre quota 5 milioni. La pay-tv è presente su ogni tecnologia di trasmissione, dal satellite al web con Now Tv fino al digitale terrestre (arricchito da una versione dedicata dell’ app Sky-Go). Questa segmentazione tecnica ha permesso di calibrare offerte per ogni tasca e di continuare poi nel lavoro di washing machine. Sky è oggi molto meno vulnerabile ai capricci di clienti che ogni mese puntavano i piedi minacciando di andare via pur di strappare lo sconto dello sconto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Focus La strategia è basata su un modello di business che non si limita ai soli abbonamenti ma anche sul fatturato pubblicitario. Questo a sua volta si avvantaggia della capacità della piattaforma streaming di profilare grazie ai Big Data i suoi utenti. Per questo la società guidata da Veronica Diquattro è disposta a tollerare l’ attività di app di condivisione come Together Price che non portano nuovi abbonati ma moltiplicano gli utenti profilabili LUKAS SCHULZE/GETTY IMAGES.

Hollywood al tramonto il cinema si fa su Netflix

Affari & Finanza
CASO TIPICO CAMBIO DI STRATEGIA GENERI DIVERSI VERSO GLI OSCAR ERNESTO ASSANTE
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C’ è una parola inglese che viene usata spesso per spiegare quello che sta accadendo nel passaggio tra mondo analogico e mondo digitale: disruptive. Le aziende più importanti della nuova era sono state quelle maggiormente disruptive, che hanno cioè “disturbato, disgregato” il vecchio mondo. È quello che ha fatto Napster all’ inizio della sua storia nel mondo della musica, è quello che ha fatto Apple con l’ industria discografica con iTunes, è quello che ha fatto Amazon con il commercio, quello che ha fatto Airbnb con gli alloggi, Hbo con la televisione, YouTube, Google, Facebook, Twitter e l’ elenco potrebbe continuare a lungo. Ma l’ azienda che, nel mondo dello spettacolo, è quella vista come quella più disruptive è Netflix, che con il suo modello di business sta minando alle basi il potere e il mercato delle major cinematografiche hollywoodiane. Il New York Times qualche giorno fa ha pubblicato un pezzo sulla sua prima pagina per segnalare come l’ azienda di Reed Hastings, dopo aver “disgregato” il mercato del noleggio delle videocassette spedendole a casa, e subito dopo aver mandato i videoregistratori e i lettori Dvd dai rigattieri rivoluzionando il consumo casalingo di vecchi film, dopo aver attaccato il mercato televisivo con una campagna produttiva talmente ampia e di qualità da averle fatto guadagnare la straordinaria cifra di 112 nomination agli Emmy Awards, gli Oscar della tv, stia spingendo l’ acceleratore verso la disgregazione anche del mercato cinematografico. Quello di Netflix è un attacco in grande stile, una guerra che, dopo alcune scaramucce nello scorso anno, ha preso corpo per la prima volta pochi mesi fa al festival di Cannes (dove i film prodotti da Netflix non sono stati accolti in concorso) e che da ottobre è arrivata nelle nostre strade, quelle dove ci sono i cinema. Fino ad oggi Netflix ha sostanzialmente bypassato le sale cinematografiche, proponendo le sue produzioni solo nel proprio servizio online, come avviene per le serie, limitandosi a qualche proiezione simultanea in alcuni piccoli cinema di New York e Los Angeles, giusto per permettere ai suoi film di partecipare alle selezioni degli Oscar. Adesso, però, la sua strategia è cambiata e per tre delle sue nuove produzioni l’ uscita è avvenuta prima nelle sale cinematografiche e poi sul servizio streaming. È il caso di “Roma”, di Alfonso Cuaron, ma anche di “La ballata di Buster Scruggs” dei fratelli Cohen e di “Bird Box”, diretto da Susan Bier e interpretato da Sandra Bullock. Gli esercenti, i gestori delle sale cinematografiche, ovviamente non hanno gradito, e sia “Roma”, che gli altri film hanno avuto difficoltà a trovare delle sale che volessero offrire la visione, ma la strategia di Netflix è ormai chiara: “disgregare Hollywood”, il vecchio sistema delle major, il concetto stesso di cinema in sala. E sono già in molti a sostenerli. Martin Scorsese è di quelli che ha accolto i nuovi pretendenti al trono di Hollywood con interesse, il suo prossimo film “The Irishman” con Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, ha già trovato casa da Netflix: «Io, ma anche i fratelli Cohen, Cuaron, Tamara Jenkins, continuiamo a fare film come esperienze da grande schermo», ha dichiarato Scorsese al New York Times. «Netflix, comunque, ci porta anche nelle sale. La cosa più importante è, però, che Scott e il suo team ci fanno fare i nostri film in un posto dove ci sono il rispetto e l’ amore per il cinema, il che per noi è tutto”. “Scott” è Scott Stuber, il responsabile delle produzioni cinematografiche di Netflix, l’ uomo che ha messo sotto contratto non solo alcuni grandi registi come Steven Soderbergh, Guillermo del Toro, e un campione d’ incassi come Michael Bay, ma anche un bel pacchetto di star, come Eddy Murphy, Meryl Streep, Dwayne Johnson, Kurt Russell, Andy McDowell, solo per citarne alcune. La divisione cinematografica diretta da Stuber lavora per realizzare 55 film all’ anno, che arrivano a 90 con i documentari e i cartoni animati, mentre una major come la Universal ne mette in circolazione una trentina. «Noi stiamo cercando di costruire studios che siano eccitanti per gli artisti», ha detto Stuber. Se tutto questo è vero per il cinema d’ autore, lo è anche per la commedia, non solo quella internazionale: il film di Natale di Carlo Vanzina e Marco Risi, “Natale a 5 Stelle”, con Massimo Ghini, quest’ anno nelle sale non c’ è proprio arrivato, è approdato direttamente sulla piattaforma in streaming. Netflix aveva esordito sul mercato italiano qualche mese fa con “Rimetti a noi i nostri debiti”, diretto da Antonio Morabito, con Marco Giallini e Claudio Santamaria: «Tra la sala e la distribuzione in 190 Paesi non ho dubbi», ha detto Morabito. C’ è amore per il cinema ma anche numeri: Netflix ha 137 milioni di abbonati nel mondo, 7 milioni arrivati solo nel terzo trimestre dell’ anno, e la cifra totale dei nuovi abbonati per il 2018 dovrebbe stare poco sotto ai 30 milioni. L’ utile netto è quasi triplicato quest’ anno, arrivando a 384 milioni di dollari e i ricavi sono cresciuti del 34% arrivando a 4 miliardi di dollari. A Netflix vanno aggiunte le altre piattaforme di streaming, quelle planetarie come Amazon Prime Video e quelle locali: Tim Vision, Infinity di Mediaset, Now Tv di Sky, più piccoli come Chili. Secondo EY gli utenti dei servizi di streaming in Italia superano i 5 milioni, sono raddoppiati in un anno e visto che con un singolo abbonamento si possono avere diversi utenti collegati, gli spettatori arrivano a 8,3 milioni. I ritmi di crescita sono tali da rendere ipotizzabile un pareggio la pay tv, malgrado i collegamenti in banda larga non siano diffusi. Giocano un grande ruolo smartphone, tablet e computer, che però hanno schermi di dimensioni ridotte, difficili per il cinema, come ha sottolineato Steven Spielberg, che considera Netflix un servizio televisivo e non cinematografico. L’ obbiettivo di Stuber sono gli Oscar, che darebbero alle sue produzioni lo status necessario per respingere le critiche e affermarsi non solo nel nuovo mondo digitale ma tra gli studios, costringendo anche il cinema a cambiare pelle. «La sala resterà sempre per l’ esperienza comunitaria del cinema – dice Martin Scorsese – ma che tipo di esperienza sarà? S Il grande schermo per noi è ancora quello dei western e di Lawrence d’ Arabia, l’ esperienza speciale di vedere “2001 Odissea nello spazio” nel 1968 o quella di vedere “La donna che visse due volte” in VistaVision. Ma quel cinema non c’ è più». ©RIPRODUZIONE RISERVATA roma Prima le serie televisive, ora il successo del portale di streaming che ha raggiunto i 137 milioni di abbonati in tutto il mondo e i 4 miliardi di ricavi: l’ industria dell’ entertainment sta cambiando completamente faccia 1 1Un’ immagine del film “Roma” prodotto da Netflix e distribuito per soli tre giorni anche nelle sale.

La Lega a 5 Stelle tradisce chi lavora

Libero
Renato Farina
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Non ci importa un fico secco delle procedure che umiliano Emma Bonino e indignano Giorgio Napolitano. E neppure che ai senatori sia toccato di fare quello che fanno sempre: incassare lo stipendio e pigiare i bottoni a loro insaputa. Sono cose che ci commuovono, ma reggeremo il colpo. Occupiamoci piuttosto di che cosa ci è caduto in testa. Sconcerie! In italiano si dovrebbe dire sconcezze, boiate, canagliate, ma ci pare simbolica questa parola della neo-lingua che ha adoperato il senatore brianzolo Massimiliano Romeo della Lega, per dire che non è vero, che tutto è uno zuccherino. Una panzana da terroni. Chi siete diventati, amici della Lega? Vi siete impastati della grammatica del Movimento 5 Stelle. Del resto si diventa chi si frequenta, e voi li frequentaste troppo. D’ accordo, il problema degli immigrati è roba grossa. Salvini sul tema è bravo. Ma non si vive solo di barconi da respingere. C’ è da campare in modo decente, godendo di una pensione meritata per cui si è sudato 40 anni; essere liberi di lavorare senza essere puniti anche se si hanno 70 anni; fare impresa non essendo costretti a fatture elettroniche colpendo i piccoli e gli artigiani uccidendone la santa pazienza; persino soccorrere i milioni di italiani alla canna del gas con opere di carità, ambulatori gratis evitando tasse supplementari; consentire agli istituti di ricerca di trovare rimedi e soluzioni per combattere il cancro e le malattie dei bambini senza lacci fiscali ulteriori. NON SOLO EUROPA E – consentiteci, anche se c’ è un conflitto di interessi, ma la cosa riguarda voi che ci state leggendo – continuare a pubblicare giornali che non sono giornaloni, e saranno per volontà del M5S e complicità vergognosa della Lega privati delle provvidenze (una parola che ci piace molto, anche per la carica manzoniana che esprime) per l’ editoria. Niente da fare. Colpa dell’ Europa? L’ Europa fa schifo. Non ce lo deve spiegare nessuno. Abbiamo plaudito l’ idea britannica di referendum proponendo di lasciar praticare lo stesso esercizio di democrazia anche agli italiani per liberarci della tirannide di Bruxelles. Sono certo crudeli come due diavoli di malebolge il lituano Dombrovskis e il francese Moscovici, i quali costringono il povero angioletto italiano Conte a tagliare quattro decimali di deficit. La cosa ci fa spremere alquante lacrime. Il problema però è la qualità di questo deficit, sia esso del 2,4 o del 2,04. Un conto è spendere per investire, ristrutturare, rendere più facile la produzione di ricchezza. E abbiamo sempre saputo che il primo punto del programma, decisivo per meritare i voti del Nord al centrodestra, è stata la flat tax. Aliquota unica, al 23 per cento. La Lega esagerava dicendo che era poca roba e puntava al 15. Sparita, rimandata alle calende della Magna Grecia dove comanda com’ è noto Luigino Di Maio e ai cui diktat si è piegato Matteo Salvini. TORNA A CASA L’ Italia, paese che si trova già agli ultimi posti in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo e per produttività del fattore lavoro, dopo questa manovra si ritroverà incredibilmente con altri tagli agli investimenti per 4,5 miliardi di euro e con più tasse. Tutto questo per cosa? Per finanziare misure assistenzialiste come il reddito di cittadinanza e la quota 100, che non creeranno nemmeno un euro in più di crescita del Pil. Si taglia la spesa per investimenti per aumentare la spesa corrente. Senza considerare il salasso in termini di maggiori tasse che gli italiani dovranno pagare nei prossimi tre anni, per effetto delle clausole di salvaguardia dell’ Iva, che costeranno circa 80 miliardi di euro agli italiani (circa 1.200 euro all’ anno per ogni famiglia) e altri 2 miliardi di euro di clausole di salvaguardia salva deficit che scatteranno nel caso il deficit previsto dal governo non dovesse essere rispettato. Ma tutto questo è forse troppo tecnico, e non c’ è bisogno di ingolfarci di troppi numeri. Basti questo: colpiscono gli enti di carità e quelli di ricerca, i quotidiani liberi, e pensionati da mille e cento euro per finanziare dei fannulloni. Che vergogna. Straccia il contratto, torna a casa Matteo. riproduzione riservata.

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