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Rassegna Stampa del 12/11/2018

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Spotify stona in Borsa

Tv, il futuro è solo “pay”

Insulti alla stampa, i 5 Stelle insistono «Quando ci vuole… E ora nuove leggi»

Berlusconi -Matteo, è lite sugli stellati «Aria da pre -dittatura». «Fai ridere»

Spotify stona in Borsa

Affari & Finanza
ERNESTO ASSANTE
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roma I conti vanno bene, gli utenti crescono. Il gruppo ha anche iniziato a mettere degli artisti sotto contratto Ma agli analisti finanziari non basta: perché manca l’ innovazione “finale”, quella che cambia il mercato Q ual è lo stato di salute di Spotify? Dipende dai punti di vista. L’ azienda diretta da Daniel Ek ha messo a segno un risultato positive dietro l’ altro. I numeri parlano chiaro: la scorsa settimana Spotify ha annunciato i risultati finanziari per il terzo trimestre riportando un fatturato di 1,352 miliardi di euro, leggermente superiore alle stime degli analisti, e in crescita del 31% rispetto ad un anno fa. La perdita operativa è ancora elevata, 6 milioni di euro, ma in miglioramento del 92% I margini operativi sono del 25%, nettamente superiori alle aspettative. Gli utenti attivi mensili sono 191 milioni a livello mondiale, in crescita del 28% rispetto allo scorso anno. Crescono anche gli abbonati premium, arrivati a 87 milioni, 4 milioni in più del trimestre precedente, 25 in più rispetto allo scorso anno. Tutto bene, dunque? No, perché gli analisti continuano a restare scettici e il titolo Spotify ha subito, nei giorni seguenti alla comunicazione della trimestrale, un forte calo. L’ azienda ha raggiunto risultati ragguardevoli, non ha superato le aspettative ma non le ha neanche deluse; ha addirittura posto le basi per una futura autosufficienza dalle case discografiche, iniziando a mettere sotto contratto gli artisti direttamente e a lavorare sui podcast. Tutti i dati secondo i quali l’ azienda va giudicata positivamente, ma per gli investitori non è ancora abbastanza. Il problema è semplice: Spotify va benissimo per l’ industria discografica, ma non va abbastanza bene per il mercato finanziario. Le etichette discografiche misurano il successo di Spotify a seconda dei loro ricavi e questi sono senza alcun dubbio cresciuti negli anni, facendo diventare l’ azienda svedese una delle “gambe” sulle quali la discografia ha ricominciato a camminare. Gli investitori, invece chiedono una crescita più rapida e pongono l’ attenzione sulla redditività, che non è mai stata una priorità per le case discografiche. Secondo Mark Mulligan, analista di Midia Research, «Il problema delle aziende musicali che vanno sul mercato è che gli investitori non hanno la stessa conoscenza del mercato che hanno gli specialisti dell’ industria musicale, non capiscono i problemi con le società che gestiscono il diritto d’ autore, le strategie delle case discografiche, le necessità degli editori musicali o i contratti degli artisti. E non li conosceranno mai, perché la musica è una parte molto piccola del portfolio di un investitore istituzionale». Così è più facile comparare i numeri di Spotify con quelli di Netflix, anche se è come paragonare mele e accendini. Quello che manca agli investitori è il fattore della “market disruption” che viene invece portato da Amazon, Facebook, Google, da aziende che con il loro ingresso nel mercato non hanno cambiato le regole del gioco, ne hanno stabilito di nuove. Spotify invece è legata a doppio filo alla “vecchia” industria discografica, dalla quale dipende per l’ approvvigionamento dei contenuti, è un’ alleata dei discografici ed è al tempo stesso il player che vuole stabilire nuove regole, ma che non può farlo fino in fondo. Nel frattempo continuano gli aggiornamenti software. Ma la novità più interessante è l’ introduzione di una nuova modalità di “artist radio”: prima l’ utente poteva impostare la sua radio partendo da un artista o da un genere e quindi migliorare le scelte del sistema dando dei like alle canzoni preferite e dei “non mi piace” a quelle che voleva eliminare, adesso invece fa tutto l’ algoritmo, così come già ora compila playlist di successo Daily Mix o Discover Weekly. confermando che il modo principale che gli utenti usano per ascoltare la musica sulla piattaforma è proprio quello delle playlist realizzate da altri utenti, seguito dalle playlist realizzate dalla redazione. L’ ascolto libero, ovvero quello in cui l’ utente sceglie le singole canzoni, è solo il terzo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA 1 Il personaggio Daniel Ek cofondatore e ceo di Spotify.

Tv, il futuro è solo “pay”

Affari & Finanza
STEFANO CARLI
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roma In Europa la metà delle risorse di un sistema che vale quasi 100 miliardi di giro d’ affari viene dagli abbonamenti mentre la quota della pubblicità è in continuo calo, rileva l’ ultimo report di ItMedia S iamo vicini a un sorpasso storico: manca poco e per il settore delle tv in Europa gli abbonamenti varranno da soli la metà delle risorse totali del settore, ossia varranno quanto i ricavi da canone e da pubblicità messi assieme. E’ il dato principale che emerge dall’ ultima edizione di “Turning Digital” il report con cui ogni anno ItMedia Consulting fotografa lo stato dell’ arte dell’ Europa televisiva mettendo a confronto le strutture di business di tutti i mercati dell’ Unione. Un mercato che nel 2017 è arrivato ad assommare un valore intorno ai 100 miliardi di euro (98,7), un crescita dello 0,5%, ma con profonde diversità al suo interno: infatti se i ricavi da canone restano fermi, quelli da pubblicità scendono del 2,4% e quelli da “pay” salgono invece del 2,7, portando il loro totale, a livello continentale, al 46,9%. Dentro la voce “abbonamenti” però, ci sono tre differenti componenti. In primo luogo gli abbonamenti: sia quelli alla tv via cavo di 20 milioni di famiglie tedesche ma soprattutto quelli alle pay tv tradizionali, ossia le grandi piattaforme broadcast come Sky o Canal Plus, distribuite principalmente via satellite e in misura minore, come nel caso di Mediaset Premium, via digitale terrestre, a quelli agli Ott che viaggiano sui cavi a banda larga: Netflix e Amazon Prime Video su tutti ma poi i vari Tim Vision in Italia, Movistar in Spagna. Ma il cambiamento in corso non riguarda solo la struttura dei ricavi: va anche oltre. «Di fatto il calo dei ricavi pubblicitari segnala che l’ intero comparto del broadcast sta perdendo terreno – spiega il direttore di It-Media Consulting Augusto Preta a vantaggio della distribuzione in streaming. E questo a sua volta spiega perché questa tendenza è più accentuata nei mercati del nord Europa. Ma è sempre da qui, e in particolare dal mercato britannico, che le innovazioni iniziano a diffondersi». Insomma, il trend di mercato che si starebbe delineando è più o meno il seguente: la pubblicità muove verso altri lidi, come già accaduto, per esempio, per la stampa; al tempo stesso la competizione delle piattaforme, sia quelle tradizionali, che quelle online, per aggiudicarsi contenuti pregiati, ossia film, serie tv ed eventi soprattutto sportivi, si sta facendo sempre più agguerrita, ottenendo come effetto la lievitazione dei costi dei diritti. Conseguenza inevitabile: la pubblicità non è più in grado di coprire questi costi e l’ unica soluzione è il mercato “pay”, dove nel frattempo lo sviluppo delle tecnologie ha abbassato di molto le barriere di ingresso e soprattutto la scalabilità dei costi. Un Ott può far crescere la propria infrastruttura in relazione allo sviluppo della sua base utenti, mentre, in confronto, un broadcaster ha dei costi di rete che sono fissi indipendentemente dal numero di utenti che raggiunge. Questa tendenza è così delineata che gli stessi broadcaster hanno invertito un principio a cui si erano attenuti nell’ ultimo decennio: limitarsi alla distribuzione e produrre sempre meno in proprio. E’ questa legge non scritta che in Italia ha informato negli ultimi anni le strategie di Mediaset e Rai, che sono state le ultime ad abbandonarla. Rai perché forte del canone, Mediaset per la sua posizione di forza sul mercato pubblicitario che le ha permesso di assorbire i primi anni di calo dei ricavi. Ma già Sky, invece, mentre andava ad attaccare il mercato degli investimenti pubblicitari sui canali in chiaro, aprendo tre nuovi canali sul digitale terrestre, ha accelerato sugli investimenti diretti in contenuti con due obiettivi: il primo di avere un maggiore stock di film e serie prodotte in casa, abbassando i costi di acquisto, il secondo di aprire una nuova linea di ricavi con la cessione dei diritti di queste stesse opere sui mercati in cui non è presente (in Europa ovunque tranne Gran Bretagna, Italia, Germania e Spagna). Ultima indicazione dello studio ItMedia è che la pressione competitiva da parte delle piattaforme per innalzare il livello qualitativo dell’ offerta di tv oltre ai contenuti si propagherà alla qualità di immagine. Lo standard full Hd è ormai universalmente adottato. Ora la sfida si chiama 8K, che quadruplica il pixel degli schermi, che partiranno dai 60 pollici in su. E che oggi sono appena l’ 1% del mercato, ma arriveranno al 9% tra due anni e al 19% entro il 2024. ©RIPRODUZIONE RISERVATA.

Insulti alla stampa, i 5 Stelle insistono «Quando ci vuole… E ora nuove leggi»

Corriere della Sera
Giovanna Cavalli
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ROMA «Eh no, quando ce vo’ ce vo ‘», ha esclamato il vicepremier Luigi Di Maio quando Massimo Giletti a Non è l’ Arena s u La7 gli ha chiesto se volesse fare retromarcia sui detestati giornalisti. «Assolutamente no: il gioco ora è esaltare la Lega e dipingere noi come appestati. Vogliono far saltare il governo, ma non abbocchiamo». E dopo gli insulti (pennivendoli, prostitute, sciacalli, verginelle, op. cit. Di Maio e Di Battista), che il portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino ritiene quasi educativi («I toni eccessivi a volte servono», ha spiegato a Fabio Fazio, «la libertà di stampa è giusta, ma c’ è un accanimento contro di noi, il cane da guardia fa questo»), i Cinquestelle minacciano provvedimenti e tagli ai finanziamenti per la stampa. «Ci sarà una legge sul conflitto di interessi, e una parte riguarderà l’ editoria, è una nostra priorità», ha annunciato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a 1/2 ora in più su Raitre. «Chi è padrone di un giornale e ha interessi economici rilevanti può essere portato a direzionare l’ informazione», sostiene il Guardasigilli che sulle invettive contro i cronisti, punzecchiato da Lucia Annunziata («Sarei più puttana o pennivendola?») spiega che «ciascuno ha il suo stile, magari non avrei usato quei termini però non mi scandalizzo». Di sfrondamento dei contributi pubblici parla invece il sottosegretario agli Esteri del M5S Manlio Di Stefano: «Occorre abolire il finanziamento pubblico all’ editoria: troppi giornali sono ormai in chiaro conflitto di interessi e per decenni hanno preso milioni di soldi tramite le tasse dei cittadini, per poi fare propaganda politica per i loro editori tesserati e proprietari di partiti politici». Nemmeno il giornalista Gianluigi Paragone, oggi senatore grillino, si spende granché in difesa dei colleghi, anzi: «Nel giornalismo ci sono tante puttane e ancor più sputtanati, grandi firme in transito dall’ estrema sinistra ai salotti del capitalismo». L’ unico del governo che spende due parole buone è il ministro dell’ Interno Matteo Salvini: «Siamo signori e i giornalisti ci stanno simpatici anche perché ci trattano bene». Ma è ironico. Contro i Cinquestelle va il presidente della Regione Lazio, il dem Nicola Zingaretti: «Vergognatevi per la vostra aggressività, voi che, in occasione di qualsiasi indagine giudiziaria, vi siete comportati come delle iene feroci, ora chiedete scusa». Guido Crosetto, deputato di FdI, rinfaccia al M5S di aver «insultato e attaccato con violenza inaudita chiunque abbia ricevuto un avviso di garanzia e adesso urlano al complotto». Persino Clemente Mastella li biasima: «I dioscuri che attaccano i giornalisti con rozza arroganza dov’ erano quando subivo attacchi pieni di cattiveria?». La Federazione nazionale della Stampa indice per domani il flashmob #giùlemanidall’ informazione: «Gli insulti e le minacce di Di Maio e Di Battista non sono solo l’ assalto a una categoria ma il tentativo di scardinare l’ articolo 21 della Costituzione». Per il presidente dell’ Ordine Carlo Verna gli insulti di Di Maio sono «incompatibili col ruolo di ministro».

Berlusconi -Matteo, è lite sugli stellati «Aria da pre -dittatura». «Fai ridere»

Il Mattino
Barbara Acquaviti
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ROMA Il Movimento5stelle come i comunisti nel 94. Il paragone oramai è diventato un grande classico per Silvio Berlusconi. Ma gli attacchi alla stampa nel giorno della sentenza di assoluzione di Virginia Raggi gli offrono sul piatto d’ argento l’ occasione per silurare i grillini. «Siamo dentro una democrazia che possiamo definire illiberale. Se continua così siamo all’ anticamera della dittatura», sentenzia il leader azzurro partecipando al congresso di Forza Italia giovani. È l’ ennesima volta che il Cavaliere attacca il governo gialloverde puntando il mirino solo sui pentastellati e risparmiando i leghisti. A rispondere alle accuse di Silvio Berlusconi, però, questa volta è proprio Matteo Salvini. Che non usa identica cortesia e assimila le parole di Berlusconi a quelle dei «frustrati di sinistra». «Certe sciocchezze le lascerei dire a loro e ai burocrati di Bruxelles». Ma il leader leghista è ancora più sprezzante: «Berlusconi che parla di dittatura mi fa ridere». L’ ASSALTO DEL CAV E pensare che poco prima il leader di Forza Italia era tornato a prospettare la caduta del governo, ad opera di Salvini, e a pronosticare la nascita di un esecutivo di centrodestra con voti da rastrellare in Parlamento. Di fatto, la stessa ricetta tirata fuori all’ inizio della legislatura. Il leader azzurro rivolge un appello: «Se la Lega non vuole compiere un drammatico suicidio politico, ci sono due strade che sarà il Capo dello Stato a valutare. Una è quella di un nuovo governo di centrodestra, la seconda, è il ritorno al voto». Anche su questo fronte, però, il numero uno del Carroccio risponde picche: «Io vado fino in fondo e sto qua per 5 anni». Solo all’ apparenza il ministro dell’ Interno fa una difesa d’ ufficio del governo e dell’ alleato M5s. La scelta di non far cadere nel vuoto le accuse di Berlusconi è più una dimostrazione di forza agli occhi dell’ elettorato di centrodestra, una risposta all’ accusa di averlo tradito in nome del governo gialloverde. Per il leader di Forza Italia il problema però è anche un altro e, come sempre, lo riguarda direttamente tanto da capo di partito quanto da capo azienda. Perché nelle dichiarazioni contro la stampa, da parte grillina riecheggiano sempre due magiche parole: conflitto d’ interessi. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, annuncia anche la presentazione di una legge per evitare che «chi ha interessi economici» possa «direzionare» l’ informazione. E Di Maio non recede dall’ attacco ai giornalisti, ricorrendo al romanesco: «Quando ce vò ce vò. Siamo stati linciati per anni e non ho alcuna intenzione di fare retromarcia». SOLCO SEMPRE PIÙ AMPIO Il fatto è che, nonostante il governo gialloverde stia vivendo tutto tranne che un momento di idillio (vedi per esempio il nodo prescrizione), paradossalmente il solco all’ interno del centrodestra tra Lega e Forza Italia non sembra ridursi. Altro tema di conflitto è la questione della chiusura domenicale dei negozi. Su cui, peraltro, Matteo Salvini ha ingaggiato un aspro botta e risposta con il sindaco Pd di Milano Beppe Sala che aveva invitato Luigi Di Maio ad occuparsi di quelle di Avellino e lasciare in pace la sua città. «Siamo a favore del diritto alla famiglia e al riposo, che deve andare di pari passo con il lavoro e lo sviluppo. A Milano – dice Salvini – mi piacerebbe che ci fosse un sindaco più attento alla città e non alle vicende nazionali». Una posizione che Forza Italia, insieme alle promesse di leggi sul l’ editoria, considera non vicine agli elettori di centrodestra. «Dittatura o meno, sembrano leggi degne di Caracas, Venezuela. O la Cuba di Castro. A Salvini piacciono così tanto da difenderle?», chiede il deputato di Forza Italia, Andrea Ruggeri. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

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