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Rassegna Stampa del 13/08/2018

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C’ E’ VITA OLTRE LA RAI

DIAMO I NUMERI

“Dalla Rai al Tg4 la mia tv antipopulista nell’ era dei tg gialloverdi”

C’ E’ VITA OLTRE LA RAI

Il Foglio
STEFANO CINGOLANI
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pronuncia perfetta. “Ecco, poi vedremo come recita”. Il confronto è davvero arduo, con mostri sacri del calibro di Dustin Hoffman. La società di produzione è nata da un uomo che ha in gran parte costruito la Rai così come la conosciamo, Ettore Bernabei il quale, arrivato alla pensione, nel 1992 fece una scommessa: tradurre in immagini il libro più letto al mondo, cioè la Bibbia; tutta, il Vecchio e il Nuovo Testamento, non singole parti come aveva fatto John Huston. Un’ idea semplice e di grande successo: 21 film venduti in 140 paesi. La Lux Vide è presieduta da Matilde Bernabei e gestita da suo fratello Luca. Dal 2000 produce per Rai1 una serie come “Don Matteo” che si rigenera a ogni stagione (ne è stata annunciata già una dodicesima). “Lavo riamo in base ai target. Conquistiamo pubblico nuovo con nuove linee narrative, per esempio abbiamo attratto molta audience anche tra giovani”, spiega l’ am ministratore delegato. “I Medici”, lanciata due anni fa, ha fatto compiere il salto dalla coproduzione vecchio stile a una vera integrazione internazionale. Netflix la distribuisce nel mondo americano e in India, anche se nasce e rivive, puntata dopo puntata, in via Settembrini nel quartiere Prati, a duecento metri dalla direzione Rai. Non c’ era bisogno di Netflix per introdurre i serial di gran successo (pensiamo solo ai “Sopra nos” di Hbo), ma l’ azienda californiana ha cam biato il paradigma, facendo compiere un salto all’ intero mondo dell’ intrattenimento. E’ qui, dunque, il futuro della televisione? Calma, non arriviamo a facili conclusioni. Il cammino è lungo, molte e diverse sono le caselle da riempire. Una sola cosa appare chiara: è in corso una metamorfosi profonda e dal bozzolo uscirà un essere ibrido, oggi come oggi difficile definire. Tante volte hanno intonato il de profundis per quel decodificatore di impulsi che ha cambiato l’ esistenza di almeno due generazioni. La televisione, però, ha molte vite, forse ancor più di sette; adesso sta attraversando soltanto la sua sesta esistenza: dalla macchina dello scozzese John Logie Baird nel 1928 siamo passati al tubo catodico, la diretta dalla Luna ha segnato una svolta davvero spaziale, poi il colore, il satellite, la rivoluzione digitale e internet. Ogni nuova tecnologia ha spiazzato quella precedente, ma non l’ ha seppellita. La tv doveva cancellare il cinema e il teatro, non parliamo delle videocassette; i cd avrebbero dovuto far sparire i concerti, non parliamo del personal computer o dello smartphone. Poi è arrivata la centralità della rete internet, cresciuta quasi in sordina nei primi anni 90, esplosa a cavallo del nuovo secolo e, dopo aver attraversato una crisi come sempre accade nelle innovazioni distruttive, è diventata così centrale da segnare l’ epoca in cui ci è dato di vivere. Gli effetti dirompenti sono evidenti, tuttavia le due grandi I, Informazione e Intrattenimento, rappresentano ancor oggi i pilastri che reggono l’ intero tempio televisivo. Film, canzoni, concerti, opere liriche, partite di calcio allo stadio, stanno ancora tutte lì. Nulla ha sostituito l’ in formazione in diretta, comunque e dovunque la si riceva, su un orologio da polso come su un maxi schermo al Circo Massimo. Sembra un elogio del tempo perduto, il ragionamento di una generazione ormai passata. Invece, è esattamente il contrario: mentre il boom dei social media comincia a stancare anche gli investitori di Wall Street, la più grande “guerra di mercato” si combatte per controllare proprio il magico mondo delle due I. Stiamo assistendo a una contaminazione tra tv e internet che si svolge in forme parzialmente inattese. Il primo movimento, cioè come la rete ha trasformato il modo di usufruire la televisione è già molto evidente; il secondo movimento, ovvero lo sbarco della tv nella rete, sta già nelle cronache, ma quel che appare più nuovo e forse dirompente è il terzo passaggio, cioè la forza di attrazione della tv che sta già cambiando la stessa internet. “Tutti possono farsi un video, comporre una canzone, lanciare messaggi che possono essere visti da milioni e milioni di persone – dice Darren Childs – YouTube è una piattaforma aperta sulla quale chiunque può piazzare il suo canale tv, ma, siamo chiari, nessuno nella sua camera da letto può filmare nemmeno un episodio di ‘Do wnton Abbey'” (prodotta dalla Itv, rete privata britannica, e dalla Pbs, l’ unica televisione pubblica americana). Yahoo, Google, Amazon, Apple, YouTube dopo aver spacciato l’ illusione che tutti possano essere Steven Spielberg o Walter Lippman, spendono miliardi per cercare e assumere i nuovi Spielberg e Lippman. Dopo aver venduto a un pubblico in parte ignaro in parte credulone un’ utopia, adesso diventano più realisti del re.Netflix è una bolla finanziaria? Se lo chiede anchel’Economist che pure gli ha dedicato una simpateticastoria di copertina. Con un abbonamento medio di 10dollari, quest’anno, aggiungendo i nuovi abbonati, potràincassare al massimo 14 miliardi, ma deve spendere,secondo le stime di Goldman Sachs che si basa suiprogetti messi in cantiere, almeno 22 miliardi l’anno diqui al 2022. Oggi come oggi i debiti ammontano a 8,5miliardi di dollari. E sono destinati a impennarsi.Jon Thoday, fondatore di Avalon Entertainment, èmolto netto: Il problema di Netflix è che il suo modellocompra-subito paghi-dopo dipende da una crescitasempre più veloce dei suoi debiti, che salgono in modoesponenziale. Il rischio, dunque, è diventare vittimadel proprio successo. Gli studios si sono svegliati e legrandi catene generaliste hanno cominciato a sfornareprodotti competitivi e non vedo come Netflix possacontinuare a crescere se non fa sempre di più o non siassicura la maggior parte dei prodotti sul mercato. Larelativa tranquillità di Mediaset si basa anche sullaconvinzione che Netflix, avvicinandosi al culmine dellapropria parabola, sarà costretta a entrare in unarete di relazioni più ampia. Il secondo trimestre dell’annoè stato deludente: la compagnia americana haaggiunto 4,47 milioni di clienti in tutto il mondo invecedei 5 milioni previsti. Il valore delle azioni, che eraraddoppiato lo scorso anno, è sceso del 14 per cento.Un crollo forse eccessivo, tuttavia riflette la debolezzadei fondamentali e la sensazione che il pallone si stiasgonfiando.Se è così, il progetto di Vivendi per una alleanza europeaanti Netflix è già invecchiato. Sono passati dueanni da quando Bolloré ha lanciato la sua scalata aMediaset. L’attacco è stato respinto da Silvio Berlusconi,dalla famiglia e dai fedelissimi di sempre, come FedeleConfalonieri, Gianni Letta e in particolare EnnioDoris, con il suo decisivo pacchetto di quasi il 3 percento. Quel matrimonio forse si poteva fare, ma certonon in quei modi. Le cose non vanno granché bene perCanalplus, la pay tv di Vivendi. E Bolloré sta contandole perdite dell’intera sua campagna italiana: per esempioha svalutato per circa mezzo miliardo di euro il suoinvestimento in Tim.Il vero campione europeo sarà probabilmenteSky. Rupert Murdoch con la Fox ha il 39 per cento evorrebbe anche il resto, ma la piattaforma televisivaeuropea fa gola anche a Comcast. D’altro canto, la stessaFox si è accordata con Disney per cedere gran partedelle attività legate all’intrattenimento, oltre che lastessa Sky News onde evitare problemi con l’antitrust.Su questi asset ha messo gli occhi anche Comcast, cheha provato a inserirsi nella trattativa tra lo Squalo eTopolino. Sky è il veicolo per conquistare il mercatoeuropeo, incrociando i ferri anche con Amazon chepreoccupa forse più di Netflix. Jeff Bezos ha una lineatradizionalista sul cinema e la distribuzione deisuoi film: la sala continua a giocare un ruolo importante;Amazon è persino più tradizionalista delle major,come Warner e Universal che cercano nel futuroun’abbreviazione della finestra distributiva, dal cinemaall’home video, sostiene Gianmaria Tammaro sullaStampa. Sky ha speso qualcosa come 9 miliardi didollari nella produzione di serie tv in Europa, ma preferisceil modello distributivo lineare, con un giornodi messa in onda precisa, pubblicità, una (o al massimodue) puntate a settimana. Il binge watching vedereuna serie per intero senza interruzioni, un episodiodopo l’altro è un fenomeno nato quasi in concomitanzacon Netflix che ne ha fatto la fortuna, almeno all’ini -zio. I canali via cavo di nicchia, come Hbo, Fx e le inglesiChannel4 e Itv, continuano a produrre serie semprepiù particolari e originali, che spesso trovano undistributore internazionale.La Lux Vide gestisce in autonomia i propri progetti,dall’ideazione alla post-produzione, seguendo il modellointrodotto dagli americani; ha sempre scelto tecnologieinnovative (è stata la prima a lavorare in digitale)e ha messo in cantiere produzioni orientate al pubblicointernazionale coltivando al tempo stesso le proprieradici. Luca Bernabei lo chiama ilMediterranean Drama, storie forti che ruotano attornoal nostro spazio storico e geopolitico, a partire daiMedici per arrivare a Devils, i diavoli, la serie sui latioscuri del mondo della finanza, prodotta per Sky, cheparte da Milano e si dirama a Londra e Francoforte;oppure a Costiera, lo spy-thriller in lavorazione traSorrento, Positano e Amalfi. La competizione sui contenutimette in gioco anche l’egemonia culturale, sostieneBernabei. Disney compra tutto, dai Marvel a Pixare ora Fox perché vuole recuperare quella egemoniasull’immaginario esercitata nel Dopoguerra. Appleoccuperà una fascia alta, più sofisticata, fa parte dellasua business culture. Amazon sarà il re della distribuzione,Jeff Bezos è il più grande mercante della nuovaèra. YouTube parte dal basso, ma salirà sempre più inalto. Il mondo internet, quello di cui si è nutrito il populismo,viene spinto in un’altra dimensione, quella dellaqualità, del prodotto sofisticato, costruito da talenticompetenti, finanziato in modo professionale. L’etàdell’innocenza, insomma, sta per finire.Stimolare il cinema italiano è l’obiettivo dichiaratodella Vision Distribution guidata da Nicola Maccanico,frutto dell’accordo tra il Gruppo Sky e cinque tra leprincipali società di produzione indipendenti: Cattleya,Indiana, Lucisano Media Group, Palomar, Wildside.Maccanico viene dalla Warner Bros e conosce benele sfide alle quali le major debbono rispondere. Occupareuna nicchia è un passaggio necessario, ma nonsufficiente. Per competere occorre ben altro potere difuoco e, soprattutto, bisogna avere alle spalle un sistema.Il cinema nazionale, spinto e finanziato dalla televisione,ha compiuto passi avanti in questi anni, e laquantità alla fine ha generato qualità. Tuttavia, l’uni -co modo di difendere il made in Italy, nel cinema comein ogni altra attività intellettuale o manuale, è fare cosebelle che piacciano al mondo, per citare lo storicoCarlo Maria Cipolla. Dunque, bisogna presidiare grandigruppi con disponibilità finanziarie e vaste capacitàoperative.Il settore radiotelevisivo italiano è piccolo fuori daiconfini. Nel complesso esprime ricavi di oltre 10 miliardidi euro (un decimo rispetto al totale europeo) eimpiega circa 90.000 addetti, di cui 27.500 diretti (elaborazioniCrtv su dati del 2016). Nonostante la crisi economica,ha mantenuto livelli occupazionali sostanzialmentestabili. Il rapporto R&S Mediobanca sottolineache il mercato è ancora estremamente concentrato: iprimi tre gruppi, Mediaset, Rai e Sky detengono, secondoi dati Agcom, il 90 per cento dei ricavi televisivi. Ilquinquennio 2012-2016 è stato terribile: nell’insieme ilsettore ha perso 1,3 miliardi di euro: 545 milioni Mediaset,454 la Rai, 325 La7 che ha sempre chiuso in rosso,sottolinea Mediobanca, 33 milioni Sky. Fa eccezioneDiscovery con più 23 milioni. Anche in Italia le retigeneraliste hanno perso ascolti (da 33,6 a 29,8 per Rai eda 28,6 a 24,9 per Mediaset) a favore di canali tematici,ma meno che in altri paesi e le quote di ascolto medierestano molto alte (ben oltre il 30 per cento sia per Raisia per Mediaset) che surclassano tutti gli altri (Sky 7,9,Discovery 6,7 e La7 3,7).L’Italia è un mercato meno chiuso di un tempo perchésono arrivati operatori stranieri come Sky, Discovery,Paramount e Netflix, la quale, però, opera da Amsterdamcon appena cinque addetti. I due principaligruppi europei, la Bbc con 5,8 miliardi di euro e la tedescaArd con 5,6 miliardi, hanno un giro d’affari doppiorispetto a Rai (2,8 miliardi) e Sky (2,7) mentre Mediasetraggiunge i 3,6 miliardi insieme alla consociataspagnola (il fatturato italiano è 2 miliardi e 636 milioni),superando France Télévisions (che incassa 3 miliardidi euro). Bbc e Rai sono finanziariamente le menosolide (con debiti pari rispettivamente al 288,6 percento e al 134,8 per cento del capitale netto ), la spagnolaRtve e France Télévisions invece sono in buona salute.La Rai investe meno della metà di France Télévisionse Bbc, ma più di Rtve. Il canone ha una funzionefondamentale. Quello italiano ha il valore unitario piùbasso e la Rai è la tv pubblica che vanta il primato degliindici d’ascolto: nel 2017 abbiamo pagato 90 euro a testae 74 sono rimasti alla Rai. In Francia il canone è di136 euro, nel Regno Unito di 169,9 e in Germania di215,8. Il basso canone unitario italiano è parzialmentecompensato dalla pubblicità, non presente sulle retiBbc e Rtve, e limitata per quantità e fasce orarie inFrancia e Germania.Nel mondo occidentale c’è una overdose di serie tv edi prodotti in genere, una vera e propria sovrapproduzioneche, se le leggi della economia valgono anche qui,produrrà un crollo e un ulteriore processo di concentrazione.L’Italia ha il vantaggio dello sviluppo tardivocome lo chiamava nel secolo scorso lo storico AlexanderGerschenkron, quindi può imparare dagli errorialtrui. Mediaset ha deciso di focalizzarsi sulla tv inchiaro e il successone della coppa del mondo di calcioha confermato la bontà della scelta. Ora lancerà la sfidaa La7 sull’informazione, cambiando in parte il palinsestodi Rete4 dove saranno concentrate anche molteproduzioni in proprio. Canale5 continua a investiresui reality show, su Italia1 ci sarà molta comicità. Firmatol’accordo con Mediapro sulla serie A, il Biscioneha lanciato una offerta pubblica di acquisto sul 60 percento di Ei towers che ancora non controlla, per toglieredal listino la società che possiede 3.300 ripetitoriassociando Fqi, il fondo strategico che fa capo alla Cassadepositi e prestiti. Quel che le manca, tuttavia, è unpartner estero. Vivendi aveva molto da offrire, ma comesi è visto voleva comandare lei. Mediaset guardaalla Francia, a Tf1 di Bouygues? O ai tedeschi di ProSiebenSat.1?O magari tornerà d’attualità l’alleanzacon Sky?La Rai resta un centauro enigmatico e mutevole, metàpubblico (pagato dai contribuenti) metà privato (pagatodalla pubblicità), ma non si capisce mai se pubblicaè la testa e privato il corpo o viceversa. Intanto, avvienela solita spartizione, più pasticciata che mai. Ivincitori prendono tutto, si dividono le spoglie, e il governogialloverde andato al potere contro la vecchiaclasse dirigente scopre anche qui di non avere unaclasse dirigente di ricambio. La scelta di Marcello Foacome presidente è un’altra provocazione politica inventatada Matteo Salvini che indebolisce la Rai rispettoai concorrenti. Il nuovo amministratore delegato inquota cinque stelle, Fabrizio Salini, è un professionistapreparato nel suo campo, viene dal mondo privato equesto di per sé è un bene: dietro le spalle ha la direzionede La7 di Urbano Cairo e questo solleva alcuniinterrogativi. Beppe Grillo, con il suo cinico tempismo,ha spiazzato anche i suoi fidi, intenti a occupare le poltrone,rilanciando il progetto di spacchettare la Rai eriportando in auge la legge Maccanico del 1997. Dunque,una rete generalista competitiva, una rete pubblicasenza pubblicità, e una terza rete in vendita? Secondol’allora ministro Antonio Maccanico doveva toccarea Rai2 mentre Mediaset avrebbe dovuto liberarsi diRetequattro. La legge Gasparri, con il passaggio al digitaleterrestre, ha rimescolato tutte le carte. Adessoqualcosa può cambiare di nuovo. In molti si candidanoal public service (e di conseguenza anche al canone).Non nasconde la sua ambizione La7, piccola, ma sostenuta dal primo quotidiano d’Italia, il Corriere della Sera, e soprattutto con molte benemerenze da vantare nei confronti dei pentastellati che ha contribuito a sdoganare come una forza di lotta e di governo. E perché solo Urbano Cairo? E’ in corsa Mediaset, come abbiamo visto; c’è Sky con le sue news H24 e le sue dirette istituzionali, altri sono pronti ad arrivare dall’esterno o a nascere in casa. Anche in Italia, dunque, il futuro è legato all’esito dello scontro di potere sulle due i, l’informazione e l’in – trattenimento. Aldo Grasso sottolinea che tra tecnologia e contenuto c’è una sfasatura, la tecnologia è corsa avanti, i contenuti inseguono, ma non c’è dubbio che la tv generalista resta più forte sulla fiction e il prodotto di qualità non si può fare su YouTube. La tecnologia consente alla gente di trovare i contenuti che vuole insiste Childs ma non può creare da se stessa i contenuti. C’è bisogno di grandi team creati attorno a una pietra miliare: il talento di scrivere e quello di recitare. Secondo un vecchio adagio di Hollywood, bisogna mettere i quattrini nelle parole e nella gente in grado di pronunciarle, il resto viene da sé. La gente richiede ancora alti standard e per questo la tv generalista continuerà ad avere un grande vantaggio. La televisione, dunque, vive la sua sesta vita. Ma come la trascorre? Oggi non esiste un solo percorso. Alla diversificazione della domanda corrisponde una offerta plurale. C’è la dimensione solipsistica di chi si fa il proprio video e se lo manda a un gruppo di amici, per lui è perfetto YouTube; c’è chi sceglie la sera di guardare un programma in intimità o con un piccolo gruppo di persone e per lui è perfetta la pay tv; ci sono poi i grandi eventi, le celebrazioni collettive e per questi nulla può sostituire la tv generalista. La natura dello sviluppo tecnologico attuale favorisce questa compresenza; il problema non è tanto prevedere quale sarà il paradigma dominante, ma come scegliere tra molti strumenti e modelli spesso in competizione tra loro. Questa fluidità disorienta spesso gli esperti. Julian Aquilina e Andrew McIntosh in un loro rapporto per Endersanalysis sul mercato britannico, uno dei più aperti alla concorrenza e alle innovazioni, notano la relativa stabilità nei trend delle piattaforme televisive; al contrario di quel che comunemente si pensa e non prevedono cambiamenti radicali a breve termine. La maggior parte delle famiglie britanniche, per esempio, si dichiara soddisfatto dell’assetto attuale. Dave Evans, futurologo e stratega di Cisco, è convinto, invece, che non abbiamo ancora visto niente. In dieci anni la tv sarà dappertutto: sul muro, in tasca, sul nostro polso, persino nella nostra testa. Le reti televisive dovranno creare prodotti sempre più personalizzati, ritagliati su preferenze individuali. La pubblicità stessa sarà spinta verso espedienti nuovi e sempre più vari. Lo spot diventerà parte integrante dello show, se un’at – trice indossa un certo abito, se un attore usa un certo gadget, o quant’altro, chi guarda potrà comprare quel prodotto via internet in tempo reale. Il tentativo di attrarre audience attraverso una gran varietà di scelte al margine, provocherà reazioni estreme spostando il confine di che cosa mostrare e rompendo remore o limiti morali. Si pensi solo alla possibilità di utilizzare attori virtuali, attraverso una ricomposizione di immagini di veri attori. Ciò rende dirompente la questione del copyright. La qualità costa, ci vuole lavoro, competenza, l’esperienza di una vita. La televisione ha certamente un futuro, ma deve vivere ancor più in simbiosi con internet, dice Dawn Ayrey che è passato dalla tv a Yahoo. Per Bruce Daisley, top manager di Twitter a Londra, proprio la natura aperta, pubblica e viva di Twitter ne fa il complemento perfetto della televisione. Consente di sapere facilmente cosa stanno vedendo i nostri amici, ma anche quel che guardano gli altri e diventa possibile discutere attorno a un evento, a uno show, a un film. Il Nielsen Twitter Tv rating è la fonte definitiva per capire l’impatto sociale di una trasmissione televisiva. In Europa ha scelto l’Italia per debuttare 4 anni fa perché, secondo l’amministratore delegato italiano Giovanni Fantasia, gli italiani amano la tv, ma sono anche grandi utilizzatori di social network. Basti pensare che al piccolo schermo ogni giorno dedicano una media di 4 ore di visione e che è pari al 94 per cento la penetrazione dei social network sugli utilizzatori di internet via mobile. Tra i due mezzi c’è una corrispondenza biunivoca, più tweets più ratings, insiste Daisley. I gruppi televisivi hanno investito in contenuti, le aziende online hanno investito nelle tecnologie più potenti e stanno cambiando pelle. Yahoo prima era un catalogo e un motore di ricerca, adesso è diventato il maggiore editore sul web. Google ha il più ampio parco dati del mondo e sta provando a fare una televisione. La sfida è destinata a cambiare sfidati e sfidanti. E viene in primo piano la questione di fondo: che uso fare di quei dati; sono senza dubbio uno strumento per monetizzare i contenuti, ma la peculiare capacità umana di connetterli sarà mai rimpiazzata da un algoritmo? La domanda è destinata a restare in sospeso, forse la risposta verrà trovata nella prossima vita della tv. Stefano Cingolani dopo tanto girovagare per giornali (l’ Unità, Il Mondo, Corriere della Sera, Il Riformista) e città (Milano, New York, Parigi), ha trovato al Foglio il rifugio agognato. Ha scritto “Le grandi famiglie del capitalismo italiano” e “Guerre di mercato”.

DIAMO I NUMERI

Il Foglio

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9,5 miliardi In euro, i ricavi aggregati nel 2016 dei cinque principali gruppi televisivi italiani, comprese le attività oltre confine (in aumento del 6,8 per cento sul 2015). Nel complesso, il settore radiotelevisivo italiano esprime ricavi per oltre 10 miliardi di euro, pari allo 0,5 per cento del pil nazionale (fonte rapporto R&S Mediobanca). 1,3 miliardi Il valore delle perdite nei ricavi televisivi in Italia nel quinquennio 2012-16. 3,6 miliardi Il fatturato di Mediaset nel 2016 considerata anche la consociata spagnola (il gruppo di Cologno Monzese realizza quasi un terzo dei suoi ricavi all’ estero). Con questa cifra Mediaset risulta primo gruppo italiano per fatturato totale. Al secondo posto la Rai, al terzo Sky Italia (2,77 miliardi). 2,78 miliardi Il giro d’ affari della Rai nel 2016 secondo il rapporto di R&S Mediobanca. Tra le tv pubbliche, la Rai è al quarto posto dopo Bbc (5,8 miliardi), Ard (5,6), France Télévisions (3). 2.443,9 I ricavi della Rai nel 2017, in calo di oltre 183 milioni rispetto all’ anno precedente. Ricavi pubblicitari pari a 647 milioni di euro (in calo rispetto al 2016). Ricavi da canone di circa 1,8 miliardi, con un decremento di 133 milioni sul 2016, dovuto alla riduzione dell’ importo unitario rispetto all’ esercizio precedente (da 100 a 90 euro). 400 euro Il canone tv in Svizzera, il più caro d’ Europa. In Francia il canone è di 136 euro, nel Regno Unito di 169,9, in Germania di 215,8. Il canone italiano è quello con il valore unitario più basso. 164 milioni Di tanto sono calati i costi per la Rai nel 2017. In diminuzione anche il costo del personale: da 928,2 a 888,7 milioni di euro. 14,3 milioni L’ utile con cui il bilancio consolidato del gruppo Rai 134,8 per cento L’ indebitamento della Rai rispetto al capitale netto. L’ indebitamento netto è comunque migliorato di circa 112 milioni di euro nel 2017 sul 2016. I debiti della Bbc sono pari al 288,6 per cento del capitale netto. 99,4 miliardi In euro, il giro d’ affari della televisione in Europa nel 2016 (fonte ItMedia Consulting, dall’ ultimo rapporto di R&S Mediobanca). 126 I prodotti originali di Netflix nel 2016. L’ azienda, nata in California nel 1997, fino al 2008 ha distribuito dvd e videogiochi via internet, poi ha avviato l’ attività di streaming on demand. Nel 2016 è arrivata a produrre in 21 paesi in lingua originale. 177 miliardi In dollari, la capitalizzazione complessiva che è arrivata a toccare Netflix all’ i n izio di luglio, superando la Disney di 20 miliardi, per diventare la società media con più valore al mondo. Il titolo è arrivato a crescere del 65 per cento quest’ anno. E’ c alato vistosamente a metà luglio (perdendo in una sola seduta, il 17, il 13 per cento) dopo che il gruppo ha diffuso i dati sul secondo trimestre, con 670.000 nuovi iscritti alla piattaforma negli Stati Uniti e 4,47 milioni nel resto del mondo. Gli analisti se ne aspettavano 1,23 milioni negli Stati Uniti e 5,11 milioni nel resto del mondo. 13 Gli anni, dal gennaio 1961 al settembre 1974, di Ettore Bernabei (1921-2016) alla direzione generale della Rai. Tra i programmi di quel periodo, “Tv7”, “Odissea”, la serie “Atti degli apostoli” con la regia di Roberto Rossellini, “Gesù di Nazaret” d iretto da Franco Zeffirelli. 1992 L’ anno in cui Bernabei, lasciata la Rai e dopo diciassette anni alla dirigenza di Italstat, fonda la Lux Vide, società di produzione televisiva. Dopo poco tempo la fama e il successo internazionali grazie al progetto “Bibbia”: 21 prime serate tv prodotte fra il 1994 e il 2002 per Rai Uno, vendute in 140 paesi.

“Dalla Rai al Tg4 la mia tv antipopulista nell’ era dei tg gialloverdi”

La Repubblica
CONCETTO VECCHIO
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ROMA Gerardo Greco, nel momento in cui la Rai diventa sovranista e il centrodestra si spacca, lei va a dirigere il Tg4 per farne una rete antipopulista. È un caso? «L’ idea è di tornare al racconto, facendone una rete narrativa. Raccontare la politica attraverso la società, e non più attraverso le piazze. È quello che un tempo faceva la Rai, prima di cedere questo spazio a La7». Come cambierà la rete? «La rivoluzione sarà avere ogni sera una trasmissione diversa in prima serata, con un grande sforzo di autoproduzione: Nicola Porro il lunedì, Roberto Giacobbo il martedì, Piero Chiambretti il mercoledì, io il giovedì, Gianluigi Nuzzi venerdì. E dalle 20,30 alle 21,25 ci sarà la striscia quotidiana di Barbara Palombelli». Per fare concorrenza alla Gruber? «Il nostro bersaglio grosso sono La 7 e Rai3, anche se io il giovedì temo molto la concorrenza di Don Matteo su Rai1. Barbara è molto amata dal pubblico Mediaset, ha grande empatia, racconterà il fatto o il personaggio politico del giorno con uno o due ospiti in uno snodo orario diventato sempre più decisivo». Da Emilio Fede a Del Debbio ha un pubblico di destra, conservatore. Può funzionare il suo riposizionamento? «Bisogna puntare su un pubblico nuovo, mantenendo quello vecchio. Dopodiché anche io, facendo Agorà in maniera non ideologica, ho probabilmente ingrassato il populismo. Bisogna tornare alla realtà oggettiva dei fatti, non lasciarsi risucchiare dallo scontro élite-popolo». Anni fa lasciare la Rai sarebbe stato impensabile? «Infatti vengo visto come un marziano. Erano due anni che parlavo con Mediaset, e adesso sono maturate le condizioni per fare qualcosa di totalmente nuovo». Non teme la famiglia Berlusconi come “padrone”? «Per niente. Berlusconi è il mio editore, mi tranquillizza avere come riferimento figure come Confalonieri e Piersilvio Berlusconi». Che Rai lascia? «In crisi di identità. Molto indebolita dai continui cambiamenti dei direttori generali: ben quattro, Gubitosi, Dall’ Orto, Orfeo, Salini, da quando sono tornato dall’ America nel marzo 2013. Tony Hall è al comando della Bbc dall’ aprile 2013. Resta debole sul web, dove a fronte di una fortissima credibilità informativa dei suoi tg o gr, non riesce a diffondere questa forza sui social, che oggi determinano le fortune di una notizia». La Rai diventerà il megafono dei populisti? «La Rai ha una lunga tradizione governativa, è evidente che ora ci sarà anche una Rai salviniana. Bisogna vedere se manterranno gli equilibri decisi negli anni Ottanta: vedremo che fine farà il Tg3». Foa rimarrà presidente? «La mia impressione è che lo cambieranno». © RIPRODUZIONE RISERVATA Chi è In Rai 26 anni Gerardo Greco, 52 anni, dal 10 agosto è il nuovo direttore del Tg4. Lascia la Rai dopo 26 anni, tredici dei quali trascorsi negli Usa come corrispondente. Ha condotto Agorà su Rai 3 dal marzo 2013, ed ha diretto il Giornale Radio Rai dal giugno 2017.

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