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Rassegna Stampa del 19/04/2018

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Indice Articoli

Apple studia lancio di news a pagamento

La tv del futuro sta già cambiando i nostri programmi

Apple, abbonamento unico a più periodici via app

Chessidice in viale dell’ Editoria

Gazzetta dello sport, licenziati i vicedirettori Zapelloni e Cazzetta

I podcast sulla strada delle serie tv

Sky Italia si affida ad H-Farm per l’analisi dei dati

La Rai accelera: il cda approva gli studi al Portello

Per il cinema, non per le sale. E il film finisce su Netflix

Ora Netflix si scopre rete globale “Produrremo di più, anche in Italia”

Giornalisti: perché oggi, perché a Napoli

Suor Orsola, riparte la Scuola di giornalismo: «Più borse di studio»

Apple studia lancio di news a pagamento

Il Sole 24 Ore

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Apple starebbe lavorando ad un servizio di riviste digitali in abbonamento da lanciare il prossimo anno, secondo Bloomberg. Un modello che ricopia quello del servizio Apple Music, la piattaforma di musica in streaming a pagamento. E che integra quello di Texture, l’ azienda acquista da Cupertino poche settimane fa, che dal 2010 offre a pagamento la possibilità di accedere alle 200 riviste più lette attraverso l’ app per dispositivi mobili. Il servizio di editoria dell’ azienda californiana dovrebbe essere attivato direttamente nell’ appApple News, attualmente non disponibile in Italia. Il costo sarà fisso e una parte delle entrate dovrebbe andare agli editori, come succede per i diritti agli autori e alle case per lo streaming della musica. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

La tv del futuro sta già cambiando i nostri programmi

Il Sole 24 Ore

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Per decenni abbiamo guardato la tv più o meno nello stesso modo: la maggior parte degli utenti si è fermata ai primi sei canali, i tre Rai e i tre Mediaset. I più tenaci sono arrivati fino a La7 e qualche ardito del telecomando si è spinto anche oltre, nella selva dei canali a doppia cifra. Ma tutto sta cambiando, soprattutto per le nuove generazioni, cresciute a pane e YouTube, che tendono a non subire i palinsesti ma a crearseli. Manco a dirlo, l’ elemento dirompente che ha rotto gli assetti nel mondo dell’ intrattenimento televisivo e domestico in generale, è Internet che porta con sé una miriade di contenuti che arrivano via streaming. Così negli ultimi mesi tutto sta cambiando. Tre modalità di connessione Bisogna essere “laici”: sbagliano i tifosi a tutto campo del solo streaming, come sono in errore gli ultrà del broadcasting tradizionale. Il futuro, almeno quello prossimo, non passa da un solo sistema di ricezione dei contenuti. Infatti Internet non è ancora pronta, né per capillarità della banda ultra larga né per prestazioni, per sostituire i più efficienti sistemi di broacasting via etere, come il digitale terrestre e il satellite. Tanto per fare un esempio, se tutti gli spettatori volessero vedere solo in streaming la prossima finale di Champions League, la rete di oggi collasserebbe miseramente, rendendo impossibile la visione. Internet è invece ideale per la trasmissione di contenuti on demand, per i quali il broadcast tradizionale non può essere d’ aiuto. Il digitale terrestre, da parte sua, sta inevitabilmente riducendo il suo spazio vitale: mancano le frequenze per convertire tutti i canali in alta definizione e offrire almeno qualche canale regolare in 4K. Il satellite, da questo punto di vista, sta per vivere una seconda giovinezza: dal cielo il segnale arriva in tutto il Paese, senza grandi limiti di banda e quindi di canali disponibili, e con qualità sicuramente più alte, adeguate alle prestazioni dei nuovi tv. Quindi, il futuro televisivo poggia certamente su tre gambe: il digitale terrestre, che resterà almeno per un po’ la modalità preferenziale; il satellite, che via via ne prenderà il posto, soprattutto per chi cerca numerosità dei canali e risoluzioni alte; e ovviamente Internet, dal quale arriva già oggi e arriverà sempre più l’ intrattenimento on demand. Per questo gli unici tv veramente a prova di futuro sono quelli che integrano il cosiddetto “triplo frontend”: sintonizzatore digitale terrestre, sintonizzatore satellitare e presa di rete per alimentare le app di Netflix e compagni. Qualche preoccupazione in più la dà l’ ipotesi che tra il 2020 e il 2022, in occasione della cessione della banda di frequenza dei 700 MHz dalla tv alla telefonia, ci possa essere un nuovo switch off del digitale terrestre con un cambiamento di tecnica di trasmissione verso lo standard DVB-T2 HEVC: questo renderebbe i tv venduti fino al 2016 non compatibili con le nuove trasmissioni, se non appoggiandosi a un decoder esterno. Ne sapremo di più a giugno, quando verrà reso pubblico il piano del Governo. Nel frattempo l’ unica tranquillità per gli utenti è che i tv in vendita dal 1° gennaio 2017 sono sicuramente compatibili con i possibili nuovi standard trasmissivi. «SVOD», reazione a catena scatenata da Netflix In pochi sanno che Netflix, quando all’ inizio degli anni 2000 iniziava la sua attività, era semplicemente un servizio di noleggio postale di DVD: l’ abbonato aveva diritto ad avere a casa propria tre dischi contemporaneamente; quando ne rispediva alla casa madre uno, ne riceveva un altro. Eppure il nome della società conteneva già quel prefisso “net”, rete, segno che nella testa di Reed Hastings, il fondatore, era già chiaro in mente che la chiusura del cerchio sarebbe arrivata con Internet e lo streaming. Oggi Netflix, con i suoi nuovi paradigmi di utilizzo, ha rivoluzionato tutto il mondo dell’ intrattenimento: vedi quello che vuoi, sullo schermo che vuoi, quando vuoi. E riprendi a vedere precisamente dal punto dal quale hai interrotto. Basta “card”, basta decoder, basta vincoli di abbonamento, basta numero di device limitato. E soprattutto basta approccio “nazionale”: Netflix ha giocato la partita a livello internazionale, avendo così gioco facile nell’ acquisizione dei diritti e soprattutto riuscendo ad ammortizzare, su un numero di abbonati molto ingente, i costi incredibili di produzione per serial kolossal. La scintilla di Netflix è diventata un incendio: la modalità del cosiddetto «SVOD» (Subscription Video On Demand, lo streaming in abbonamento), complice anche il prezzo moderato (dagli 8 ai 14 euro al mese) ha spiazzato e messo in seria difficoltà il tvOD (Transaction Video On Demand), ovverosia il modello “pay per view”, per il quale paghi solo quello che vedi. Sulle piattaforme di SVOD come Netflix, tutte le puntate di una stagione arrivano insieme, una rivoluzione del dogma della tv tradizionale, con una puntata nuova a settimana. Così sono nate le piattaforme SVOD di un po’ tutte le emittenti, anche le Pay tv tradizionali: Sky ha Now tv, Mediaset ha Infinity, Tim ha TimVision; e ad esse si è aggiunta la potentissima Amazon con la sua Prime Video. Un po’ quello che è successo con la musica, con i servizi in abbonamento, come Spotify e Deezer, che hanno letteralmente spazzato via la “vendita” online delle singole canzoni. Oramai è chiaro a tutti che il futuro della musica è lo streaming in abbonamento. Il risiko tv e il ruolo di Sky Dopo anni di discreto torpore, chi sembra aver dato una sterzata secca alle proprie strategie è Sky. E attorno alle manovre di Sky si dipanano molte delle recenti vicende del panorama televisivo italiano. La pay tv di Murdoch ha in poche settimane annunciato una serie di accordi strategici destinati a rimodulare il panorama televisivo, quantomeno quello delle pay tv. Innanzitutto l’ alleanza siglata con Netflix, i cui servizi saranno veicolati anche attraverso il ricevitore di nuova generazione Sky Q. Poi i piani di cooperazione con OpenFiber: Sky si appresta a portare anche in Italia il modello inglese, in cui la società opera anche come fornitore di connessione in banda larga; e così si prepara a sfumare sempre più il ruolo del satellite, da usare a tendere solo per i grandi eventi in diretta. E infine, la recente alleanza, propedeutica a una prossima fusione, con Mediaset Premium: l’ era del duopolio nelle pay tv tradizionali in Italia è destinata a finire (di nuovo) e convergere in una sorta di gestore unico, con tutto quello che ne consegue in termini di potere contrattuale da parte dell’ emittente sia nei confronti dei titolari dei diritti che in quelli degli utenti. A fare le spese di questi nuovi assetti potrebbe essere sin da subito la Lega Calcio, che non potrà più contare sulla concorrenza tra Sky e Premium per massimizzare i ritorni dalla vendita della Serie A, e questo proprio alla vigilia del nuovo campionato, i cui diritti di trasmissione non sono ancora stati assegnati. Insomma, una situazione fluida nella quale lo spettatore deve essere accorto e pronto a saltare da un abbonamento a un altro per non rimanere contrattualmente incastrato in posizioni “scomode” e superate dagli eventi. E non tutti sanno che, per esempio, l’ abbonamento alle pay tv classiche, anche se è pagato a cadenza mensile, ha una scadenza annuale: occhio alla data di rinnovo se c’ è intenzione di dare una disdetta. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Apple, abbonamento unico a più periodici via app

Italia Oggi
GIOVANNI GALLI
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Apple prepara il lancio di un servizio di abbonamento unico per più riviste, da sottoscrivere attraverso un’ applicazione. Verosimilmente, secondo Bloomberg, integrando l’ app dedicata Texture appena acquisita nella sua piattaforma Apple News. I tempi del progetto prevedono un possibile debutto entro la fine di quest’ anno. Già soprannominata «Spotify dei magazine», Texture comprende un ventaglio di circa 200 testate (tra cui Time, National Geographic, The Atlantic, People e Rolling Stone), a cui accedere per quasi 10 dollari al mese (12,4 euro). Quale sarà il modello di business? Al momento non è dato sapere nei dettagli ma, sempre secondo indiscrezioni di stampa, il colosso di Cupertino guidata da Tim Cook riserverà una quota dei ricavi agli editori degli stessi giornali coinvolti, facendo tesoro peraltro dell’ esperienza di Facebook nel settore dell’ editoria. L’ obiettivo, infatti, è sempre lo stesso: diversificare e aumentare i ricavi dai servizi offerti online.

Chessidice in viale dell’ Editoria

Italia Oggi

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Credit Suisse, Persidera vale circa 440 mln. Secondo la stima fatta a fine settembre dalla banca elvetica, il valore della jv tra Tim e Gedi oscilla tra i 386 milioni di euro e i 514 milioni, con un valore mediano sui 440 milioni di euro. Quindi, stando alla valutazione richiesta dai due azionisti, restano lontani i 250 milioni messi proposti da Rai Way-F2i e i 290 milioni dell’ offerta non vincolante del fondo infrastrutturale americano ISquared. Persidera gestisce 5 mux digitali terrestri (i multiplex televisivi che ospitano più di 60 canali) e ha chiuso il 2016 con ricavi per 80,8 milioni, un ebitda di 46,2 milioni e un debito finanziario netto di 48,8 milioni e anche secondo Mediobanca il suo enterprise value è più alto, di 375 milioni. Netflix spinge sulle produzioni locali, Italia compresa. Si tratta di 100 progetti da 16 differenti paesi in 16 lingue diverse. Per l’ Italia si conferma Suburra, in arrivo c’ è Baby dopo le vicende di un gruppo di adolescenti del quartiere Parioli di Roma che hanno portato alla luce un giro di prostituzione minorile e si aggiunge ora Luna Nera sulla stregoneria nel Medioevo. E ancora c’ è il film Rimetti a noi i nostri debiti. Al via anche la prima produzione araba Jinn, dedicata ai poteri soprannaturali e pensata da creativi giordani per adolescenti. Casagit chiude il 2017 a quasi +4 mln. La Cassa di assistenza sanitaria integrativa dei giornalisti italiani chiude lo scorso esercizio con un attivo di 3,97 milioni, portando a quota 41,25 milioni il fondo di garanzia dell’ ente. Tra i soci ancora in calo il numero dei giornalisti in attività mentre cresce quello dei pensionati. Conseguente la diminuzione dei contributi associativi, scesi per la prima volta sotto la soglia degli 80 milioni. Casagit ha erogato nel corso del 2017 rimborsi per prestazioni sanitarie per oltre 66 milioni di euro. H-Farm, nuovo progetto per Sky Italia. Big data e analytic sono un mercato che nel 2017 è cresciuto, a livello globale, fino a raggiungere quota 1,1 miliardi. Così Sky Italia ha scelto di elaborare strategie di business transformation data driven, affidandosi alla piattaforma digitale veneta. Icon sbarca in Australia. Il maschile d’ alta gamma del gruppo Mondadori, diretto da Michele Lupi, debutta, dopo il mercato spagnolo, in Australia con il lancio un’ edizione digitale (icon.ink) e un numero speciale in uscita in versione cartacea a ottobre. L’ edizione australiana di Icon viene realizzata in licensing con Grace Publishing, già editore di Grazia Australia. Radio Capital al Festival di Dogliani. Per il settimo anno consecutivo Radio Capital è radio ufficiale del Festival della tv e dei nuovi media, che si terrà dal 3 al 6 maggio prossimo. In fm sia le dirette dalla piazza centrale di Dogliani (in provincia di Cuneo) sia gli appuntamenti con artisti. Festival giornalisti del Mediterraneo alla 10ª edizione a Otranto. L’ evento promosso dall’ Associazione Terra del Mediterraneo, con il comune di Otranto, prepara la sua fase conclusiva dal 10 al 16 settembre (dopo una prima parte a Bari a marzo). Tre le sezioni tematiche: terrorismo internazionale dalla Siria all’ Europa, Mediterraneo e diritti negati, pace e immigrazione.

Gazzetta dello sport, licenziati i vicedirettori Zapelloni e Cazzetta

Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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Ieri mattina il direttore del personale di Rcs quotidiani, Vito Ribaudo, ha consegnato le lettere di licenziamento a Umberto Zapelloni e Stefano Cazzetta, vicedirettori della Gazzetta dello sport. Che, in quanto figure apicali, come prevede il contratto nazionale dei giornalisti, possono essere licenziati così, di punto in bianco. Va detto che la Gazzetta dello Sport, dove il 2 aprile scorso era arrivato pure Stefano Barigelli come condirettore, aveva un ufficio di direzione tra i più popolosi di Italia: il direttore Andrea Monti, il condirettore Barigelli, quindi Gianni Valenti, vicedirettore vicario (e direttore del Festival dello Sport, su cui Rcs sta puntando parecchio), e poi i vicedirettori Pier Bergonzi (uomo del ciclismo, altro settore strategico per Rcs), Andrea Di Caro (responsabile dell’ online di Gazzetta, un prodotto che funziona molto bene e che il 12 aprile scorso ha raggiunto l’ audience record di 3,9 milioni di utenti unici), Zapelloni e Cazzetta. Insomma, sette giornalisti di vertice. Ora se ne vanno Zapelloni e Cazzetta, e pure per Di Caro ci sarebbe la corte del Corriere dello Sport, che da qualche settimana sta cercando un nuovo direttore al posto di Alessandro Vocalelli. Se dovesse andare in porto questo matrimonio (improbabile), e se Monti, entro breve, lasciasse le redini della Gazzetta a Barigelli, ci sarebbe una cura dimagrante drastica all’ ufficio direzione della Gazzetta: tre stipendi pesanti al posto di sette. Come piace tanto all’ editore di Rcs, Urbano Cairo. Abbastanza inspiegabile come il comparto dei quotidiani sportivi sia improvvisamente entrato in fibrillazione. Probabilmente tutto è partito dall’ addio di Barigelli al Corriere dello Sport (dove era vicedirettore e, probabilmente, direttore in pectore) per passare alla Gazzetta, determinando una sorta di effetto domino. Dal prossimo fine settimana Xavier Jacobelli diventerà infatti direttore di Tuttosport al posto di Paolo Di Paola; il Corriere dello Sport ha invece a lungo corteggiato Paolo Liguori (direttore del canale tv TgCom 24) che però alla fine è rimasto a Mediaset. Ora la corte si è spostata, come detto, verso Di Caro. Che tuttavia resterà quasi sicuramente in Gazzetta, soprattutto ora che il team di vicedirettori si è ridotto. Comunque il tempo della direzione di Vocalelli al Corriere dello sport sembra scaduto. Sarà anche curioso vedere cosa accadrà a Monti, 63 anni e in sella alla Gazzetta dall’ 11 febbraio 2010. Otto anni sono tanti. Ma ricordiamo sempre che l’ editore Cairo cerca direttori bravi, non necessariamente giovani, e non li cambia di frequente. La lezione di Sandro Mayer (78 anni), considerato alla sorta di un vecchio arnese dai francesi di Hachette Rusconi nel 2003, e che, ingaggiato da Cairo, è stato invece protagonista dal 2004 del più importante successo editoriale degli ultimi 20 anni (il settimanale DiPiù di Cairo editore), rimane sempre lì scolpita nel marmo a futura memoria. © Riproduzione riservata.

I podcast sulla strada delle serie tv

Italia Oggi
ANDREA SECCHI
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Il 44% degli americani, circa 124 milioni di persone, ha ascoltato almeno una volta un podcast, ovvero un contenuto audio on demand, che sia fiction, informazione o altro. L’ anno scorso la percentuale era del 40%, cinque anni prima del 27%. Al mese, secondo i dati di Edison Research, sono 73 milioni gli americani che ascoltano podcast e per alcune fasce della popolazione questo tipo di contenuti sono alla stregua delle serie tv. Dai podcast, per altro, cominciano proprio a nascere anche serie televisive: Julia Roberts, per esempio, farà la sua prima parte da protagonista in uno show tv con Homecoming, un thriller psicologico adattato dall’ omonima audioserie di cui Amazon Prime ha già prenotato due stagioni. Poi sempre negli Usa ci sono i casi di successo del tutto particolari, come il podcast fantascientifico finanziato da General Electric, The Message, in cui lo sponsor non compare mai, che è balzato in testa alle classifiche di iTunes nel 2015 e a tre anni dalla produzione continua ad attrarre ascoltatori. Oppure The Daily, il podcast del New York Times fra i più scaricati lo scorso anno, che in 20 minuti spiega cosa ci sia da sapere ogni giorno. In Italia il fenomeno non è ancora così diffuso e non ci sono dati ufficiali che ne mostrino l’ utilizzo. Le rilevazioni Tavolo editori radio-Ter sembrano indicare come i podcast siano ancora molto marginali nell’ ascolto della radio. Ma a parte che una metodologia come quella utilizzata non può riuscire a dare conto puntualmente dell’ utilizzo dei podcast, in quel caso si tratterebbe delle registrazioni delle trasmissioni radio e non di contenuti creati ad hoc. In ogni caso, stando a quel che accade Oltreoceano, i programmi audio on demand sembrano destinati ad avere uno spazio importante nelle abitudini di ascolto delle persone. Ci saranno in particolare due innovazioni tecnologiche che si suppone spingeranno in questa direzione: il diffondersi degli smart speaker e dei sistemi connessi nelle auto. Secondo il report The Infinite Dial 2018 di Edison Research e Triton Digital, che si occupa di tutto ciò che è audio digitale, il 18% degli americani, circa 51 milioni di persone, possiede almeno un altoparlante intelligente come Google Home, Amazon Echo o l’ HomePod di Apple. Questi strumenti, ma in generale i dispositivi connessi, stanno scalzando le tradizionali radio in casa. Nel 2008 gli americani che non avevano un apparecchio radio erano il 4%, nel 2018 sono il 29% e se guardiamo soltanto ai 18-34enni la percentuale sale al 50%. Nelle auto la radio tradizionale la fa ancora da padrona, ma con i sistemi connessi sarà naturale il passaggio dall’ ascolto in fm/dab a quello online sia in streaming live (la stessa trasmissione che si trova via etere) sia on demand, per esempio per il programma radio che si è perso il giorno prima. Ovviamente, auto connesse e smart speaker arrivano molto dopo il principale dispositivo con cui si ascolta l’ audio online: gli smartphone. Sempre lo stesso rapporto mostra come l’ audience mensile dell’ audio online (emittenti ma anche servizi in streaming) sia di 180 milioni di persone, il 64%, soprattutto grazie ai cellulari. Tornando all’ Italia, la produzione di podcast si sta comunque muovendo. A parte i podcast amatoriali e le registrazioni dei programmi radiofonici, serie vicine a quanto si produce negli Usa sono arrivate da Radio Rai, mentre Repubblica, con Veleno, ha fatto un esperimento che ricalca un famoso podcast americano (Serial). La Stampa, poi, ha lanciato la sezione PodLast. Molto viene però fatto da autori indipendenti, con prodotti tutt’ altro che amatoriali. Una società che sta cercando di dare il là allo sviluppo del settore si chiama MyVoxes, produttore di contenuti audio on demand che ha al suo attivo tra l’ altro una serie di podcast sulla salute realizzati per un anno per Starbene e una per Focus Junior. Il progetto principale di MyVoxes è di portare in Italia l’ esempio di GE con The Message: produrre podcast da distribuire gratuitamente sulle varie piattaforme grazie alla sponsorizzazione delle aziende. Attualmente sono cinque i progetti in fase di valutazione, audioserie per le quali la società (parte di Digital Mde, fra l’ altro agente in Italia delle tecnologie di gestione delle campagne pubblicitarie audio di Triton Digital) vuole arruolare squadre di autori e produttori che già lavorano per la prima serata tv. © Riproduzione riservata.

Sky Italia si affida ad H-Farm per l’analisi dei dati

Libero

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Sky Italia ha scelto di raccogliere la sfida del mercato big data e analytics affidandosi alla divisione Industry diH-farm per elaborare strategie di business transformation data driven

La Rai accelera: il cda approva gli studi al Portello

Libero

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ENRICO PAOLI Per il primo di gennaio del prossimo anno gli studi del nuovo centro di produzione di Milano, nel padiglione uno e due dell’ area della Fiera, non saranno ancora pronti. Ci vorranno alcuni mesi prima di essere a regime ed iniziare a trasmettere, lasciando liberi gli spazi in affitto di via Mecenate dove viene realizzato il programma di Fabio Fazio, in onda su Rai Uno, Che tempo che fa. Ma quella che fino ad oggi sembrava una possibilità fra le tante, da ieri è una certezza: il nuovo centro di produzione di Milano sarà realizzato nell’ area del Portello. Nello storico palazzo di Corso Sempione, di proprietà dell’ azienda, resteranno le strutture amministrative e gli uffici lombardi del vertice aziendale. Perché l’ idea di tenere alcune sedute del Cda all’ ombra della Madonnina potrebbe risorgere come l’ Araba fenice, avendola attuata con successo nel passato recente. Il consiglio di amministrazione della Rai, su indicazione del direttore generale, Mario Orfeo, e della presidente Monica Maggioni, ha ufficialmente iniziato a studiare la pratica scartando, di fatto, le altre offerte arrivate a viale Mazzini. L’ area del Portello, preferita e caldeggiata anche dalla giunta guidata dal sindaco Beppe Sala, risponde pienamente alle «esigenze della tv pubblica», spiegano da Viale Mazzini, e ora c’ è solo «da definire la pratica». La Rai era alla ricerca di spazi oscillanti fra un minimo di 16mila ad un massimo di 20mila metri quadrati per ricavarvi 6 studi televisivi. Uno di grandi dimensioni, 3 di media dimensione e due più piccoli. Alla fine del 2018 scadrà il contratto di affitto per gli spazi attualmente occupati dall’ emittente pubblica in via Mecenate. Per la Fondazione Fiera e il Portello si tratta di un’ occasione unica per uscire da uno stallo durato troppo a lungo. Il padiglione 1 e 2, per chi se lo fosse scordato, pareva destinato ad essere trasformato nel nuovo stadio del Milan su spinta di Barbara Berlusconi. Poi la clamorosa rinuncia del club rossonero e una conciliazione legale con la quale da via Aldo Rossi hanno acconsentito a versare 5 milioni di euro a Fondazione Fiera. Il padiglione 1 e 2 della Fiera ha dalla sua la vicinanza con la sede milanese della Rai di corso Sempione. In questo modo Milano potrebbe creare una sorta di «cittadella» del piccolo schermo. L’ unico punto debole, ma che in Rai considerano ampiamente superabile, l’ eventualità di abbattere l’ edificio e ricostruirlo. Ma trattandosi di una eventualità, e non di una possibilità visto che ora potrebbero bastare semplici adeguamenti, anche il punto di debolezza potrebbe non esser tale. Tasselli di un puzzle che, a breve, l’ emittente di Stato dovrà sistemare sul tavolo. «Tutto questo è la prova che la Rai non è affatto ferma», spiega a Libero il consigliere Franco Siddi «e il consiglio di amministrazione è fortemente impegnato a tenere viva l’ azienda». Insomma, Milano potrebbe tornare ad essere uno dei laboratori della Rai, con una forte vocazione verso l’ estero, facendo compiere un passo significativo «all’ elefante», sin troppo romano. Al Portello dovrebbe trovare la propria sede il canale in inglese della tv pubblica, rete alla quale tengono particolarmente la presidente del cda, Monica Maggioni, e il sindaco, Beppe Sala. Per Palazzo Marino, dopo la bruciante delusione per l’ Ema, l’ allargamento della Rai rappresenta sicuramente un motivo di orgoglio e una medaglia sul petto da mostrare in campagna elettorale. twitter@enricopaoli1 riproduzione riservata TRASLOCO L’ affitto per gli studi tv di via Mecenate scadono a fine anno. E la Rai ha deciso di traslocare al Portello, nei padiglioni 1 e 2 della Fondazione Fiera DOPO LO STADIO Prima della Rai, si era fatto avanti il Milan per costruire il nuovo stadio nei padiglioni della Fondazione, progetto tramontato poi per la retromarcia del club rossonero I padiglioni del Portello ospiteranno il centro tv della Rai

Per il cinema, non per le sale. E il film finisce su Netflix

Il Fatto Quotidiano
Federico Pontiggia
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Destino beffardo, il primo film italiano originale Netflix è intitolato Rimetti a noi i nostri debiti. E come non intenderlo l’ accorata preghiera del cinema tricolore tutto al colosso di intrattenimento online? Anche perché la simmetria evangelica non è contemplata: quel “come noi li rimettiamo ai nostri debitori” significativamente latita. Uno scambio mancato su cui il regista Antonio Morabito ha costruito diegeticamente il nuovo film, scritto a quattro mani col produttore Amedeo Pagani, interpretato da Claudio Santamaria e Marco Giallini. Ma di debito ce n’ è prima uno strutturale, sistemico, e riguarda appunto il cinemino nostro: prodotto da La Luna, con Lotus Production (Marco Belardi) e Rai Cinema, il film ha faticato a trovare distribuzione, e la sala effettivamente non la vedrà, giacché infine se l’ è assicurato la società di Reed Hastings. Spacciato quale film originale Netflix, sebbene sia più corretto parlare di esclusiva distributiva, nondimeno segna uno spartiacque: dal 4 maggio sarà disponibile sulla piattaforma streaming in 22 lingue e, stante la difficoltà del theatrical nazionale, chissà Netflix quanti altri debiti dovrà rimettere al comparto. Qualcosa è davvero cambiato, e i primi a rendersene conto sono gli attori: “È nato per il grande schermo, ora viaggia attraverso altri canali, ma il cinema non deve scomparire: è un momento di aggregazione ineludibile”, osserva Santamaria, mentre Giallini affonda il dito nella piaga: “Oggi un film in sala ha vita breve, brevissima: quanto può durare, due settimane nel migliore dei casi? Certo, io credevo uscisse al cinema, non ero preparato a Netflix, ed è un’ esperienza diversa, una terza via”. Sulla stessa lunghezza d’ onda Morabito, che stigmatizza l’ involuzione dell’ offerta: “Oggi il ventaglio è molto ridotto, viceversa, fino a qualche anno fa anche italiani non allineati, iraniani, altri orientali e via dicendo potevano avere vita dignitosa in sala. Non più, è cambiato tutto, drasticamente, e le responsabilità sono diffuse: distributori, esercenti, i registi stessi. Netflix non è un distributore classico, ma ci ha creduto, come non esserne contenti?”. Mantenendo la cifra ideologica del precedente Il venditore di medicine (2014), j’ accuse rivolto a Big Pharma interpretato da Santamaria, Morabito mette nel mirino il recupero crediti, mutuando ancora qualche topos della commedia all’ italiana, stavolta la costruzione e l’ utilizzo di una coppia di antonimi: l’ esperto, cinico e squaliforme esattore Franco, affidato a Giallini, e il pivello, ribattezzato Willy (sì, il Coyote) Guido, cui Santamaria sa dare l’ intesa ritrosia e refrattarietà. Non sappiamo perché Franco si sia dato alla professione, per Guido invece sì: perso il lavoro da magazziniere, assediato dai debiti, viene aggredito fisicamente dai creditori, e capisce che l’ unica via di salvezza è proprio passare al lato oscuro della forza, l’ esazione. È solo, Guido, fraintende per amicizia il rapporto con Franco, forse per amore quello con la barista Rina (Flonja Kodheli), ma un amico vero l’ ha sul serio, un vecchio professore (Jerzy Stuhr, bravo) che gli passa qualche soldo, gli insegna economia politica sul tavolo da biliardo (bella sequenza) e consiglia da Grillo parlante. Se lo scafato Franco agisce da carnefice senza remora alcuna, l’ apprendista Guido incarna la guerra dei poveri, togliendo ad altri povericristi: fino a quando? Per questi due esattori togati Morabito ha tratto ispirazione dallo spagnolo El cobrador del frac, di nero vestito con marsina e cilindro, che insegue ovunque il debitore, il resto l’ ha demandato alla scomoda, persino conflittuale alchimia tra Giallini e Santamaria, che rispolvera l’ exemplum de Il sorpasso: “Il personaggio di Marco è istrionico, ironico, te la racconta, ma il mio non gli dà corda. È una sorta di duello, come ha notato il direttore della fotografia Duccio Cimatti io non permetto a Giallini di essere quello che è di solito, e viceversa”.

Ora Netflix si scopre rete globale “Produrremo di più, anche in Italia”

La Stampa
GIANMARIA TAMMARO
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Netflix è cresciuta. Ha da poco superato i 125 milioni di abbonati in 190 Paesi (7,4 milioni in più nel primo trimestre dell’ anno, +43% anno su anno), 300 milioni i profili attivi, con un peso sempre maggiore del mercato fuori dagli Stati Uniti. Il «See What’ s Next», la presentazione dei nuovi titoli che quest’ anno si tiene a Roma, è stata l’ occasione per ribadire questa trasformazione. Non solo annunci di serie e film. Ora si vuole sottolineare il manifesto, ciò che Netflix sarà nei prossimi mesi. Prima parola d’ ordine: internazionalità. E quindi assenza di confini, di geografie stringenti, di idee destinate a singole realtà. Netflix vuole il mondo. Vuole essere la piattaforma di tutti. Reed Hastings, co-fondatore e Ceo, è stato piuttosto chiaro: gli accordi stretti in questi mesi, a cominciare da quello con Sky, servono per allargare la base degli abbonati e per aumentare l’ offerta dell’ archivio. Ce ne saranno altri. «Ormai – dice Hastings – a casa propria è disponibile la miglior qualità di visione in assoluto, anche migliore della sala cinematografica». Ed ecco la seconda parola chiave: offerta. Produrre sempre di più. Scegliere storie il più possibile universali. I 55 titoli in lavorazione Netflix è nata sperimentando. Hastings ha ricordato la sua prima serie, Lilyhammer , «quando la rivoluzione ebbe inizio». E oggi? Oggi c’ è una struttura più grande, più variegata, con diverse sottosezioni. L’ obiettivo è aumentare le produzioni originali. E aumentando quelle, gli abbonati. Ci sono 55 titoli in lavorazione al momento nell’ area Emea, che comprende Europa, Medio Oriente e Africa. Il doppio dell’ anno passato. Tra le novità più interessanti la nuova serie italiana Luna Nera , storia di un gruppo di donne accusate di stregoneria nel XVII secolo, produzione Fandango; e il primo film italiano, Rimetti a noi i nostri debiti , uscita fissata per il 4 maggio, con Claudio Santamaria e Marco Giallini. La diversità del modello di Netflix, però, non si ferma alla varietà produttiva. Va oltre. La diversità è anche nel cast, in chi decide, in chi racconta le storie. È stata presentata ufficialmente la seconda stagione di Glow , disponibile dal 29 giugno su Netflix. La casa di carta , successo di questi ultimi mesi, avrà una terza parte. Arriverà la prima serie polacca, 1983 , ambientata in futuro distopico in cui i russi non hanno mai abbandonato il Paese. Dal 4 maggio sarà disponibile The Rain , prima serie danese. In produzione The Witcher , adattamento dell’ omonimo videogioco. E poi Baby , altra serie italiana, presentata dal regista Andrea De Sica: nessuna fedele trasposizione della cronaca (il caso di riferimento è quello delle «baby squillo dei Parioli») ma una storia di adolescenti, delle loro passioni, di una Roma giovane e festaiola. Gli attori e i creativi che sono intervenuti al «See What’ s Next» hanno parlato di libertà, di innovazione, di voglia di cambiare. Gli esempi fatti sono The Protector , prima serie turca su un supereroe, e The Innocents , serie britannica sci-fi. C’ è stato anche un momento dedicato a Suburra , in produzione con la seconda stagione. Un film sui due papi Insieme alla piattaforma, si è trasformato anche il pubblico. Si è allargato, ed è diventato più attento ai prodotti innovativi. E Netflix, se n’ è accorta. La seconda stagione di 13 è la risposta all’ esigenza di raccontare i giovani e i loro problemi. E ancora una volta, la diversità. In produzione non solo serie tv, ma anche film. Uno dei più attesi, in lavorazione in questi giorni in Italia, tra Roma e Reggia di Caserta, è The Pope , sul passaggio di testimone tra Papa Benedetto e Papa Francesco. Tra i protagonisti Anthony Hopkins, uscita prevista per il 2019. Poi Norway di Paul Greengrass, e Outlaw King . Tra i titoli annunciati al «See What’ s Next» anche la nuova serie animata di Matt Groening (l’ inventore dei Simpson) Disenchantment , Maniac di Cary Fukunaga con Emma Stone e Jonah Hill e Turn up Charlie , comedy con Idris Elba. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

Giornalisti: perché oggi, perché a Napoli

Corriere del Mezzogiorno

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Scrivo per questo giornale ( e per il Corriere della Sera ) e dirigo da oltre un biennio la scuola di giornalismo di Suor Orsola Benincasa, la prima del Mezzogiorno, arrivata ormai al suo quindicesimo anno d’ età. Approfittando del duplice ruolo (e influenzato anche dalla collaborazione con Marzullo per le recensioni dei libri) provo qui a pormi qualche domanda e a dare qualche risposta sul valore e l’ utilità di una scuola del genere, oggi, a Napoli. Perché diventare giornalista? «Perché è la professione più bella del mondo» Nel senso che si guadagna molto? «Nel senso che è la più creativa». E gli artisti e gli attori, allora? «Un giornalista può creare ogni giorno, a volte anche più volte al giorno, basta un take d’ agenzia, un articolo, un servizio video. In più, il giudizio dei lettori su ciò che crei arriva subito, non devi aspettare». Ma non è una professione in crisi? «Il peggio è già passato». Nel senso? «Il mercato si allarga. Aumenta il numero degli alfabetizzati nel mondo e ognuno consuma, attraverso mezzi diversi, più informazione contemporaneamente: uso il tablet e vedo la tv, ad esempio». Questo in teoria. Ma nella realtà? «In India, negli ultimi dieci anni, la vendita media di quotidiani è passata da 39 a 62 milioni di copie. Il Washington Post è stato acquistato dal patron di Amazon nel 2013: allora era dato per spacciato, ora gode di ottima salute». Sarà, ma non è più come una volta. Un tempo sì che dirsi giornalisti valeva la pena… «Un tempo? All’ inizio del secolo scorso Benedetto Croce scrisse che “il giornalismo coltivato per mestiere distrae le menti degli artisti e degli scienziati; disabitua dalla considerazione attenta e scrupolosa della verità; rafforza la tendenza all’ unilateralità, all’ imprecisione e al sofisma; costringe all’ improvvisazione e, perciò, più o meno al ciarlatanesimo”. È una vecchia storia, come si vede. A parlar male dei giornalisti sono buoni tutti, anche i migliori». Molto vecchia, questa storia? «Direi proprio di sì. È cominciata prima di Gutenberg, con l’ invenzione della scrittura, quando Platone teorizzò che scrivere avrebbe fatto male alla memoria, e dunque al sapere, alla cultura, all’ umanità. Poi però si ravvide, per nostra fortuna». E con Benedetto Croce come è finita? «A pareggiare il conto ha provveduto Leo Longanesi: “Benedetto Croce – scrisse – è perfetto come un orologio svizzero: non ritarda e non avanza”». Perché iscriversi a una scuola di giornalismo? «Perché se non hai santi in paradiso o relazioni forti in famiglia e non sei “nato imparato”, come si dice dalle nostre parti, non hai molte altre chance ». Perché a Napoli? «Perché il giornalismo è nato a Napoli: scuramente quello politico, con Eleonora Pimentel Fonseca; perché questa è la città di Vincenzo Cuoco e di Matilde Serao; perché napoletano era Torelli Viollier, il fondatore del Corriere della Sera ; perché qui il giornalismo d’ inchiesta ha pagato un prezzo altissimo con Giancarlo Siani. E perché a Napoli c’ è ancora molto da raccontare, come dimostrano gli oltre cinquanta scrittori – quasi tutti collaboratori di giornali – regolarmente pubblicati e registrati alla Siae» .

Suor Orsola, riparte la Scuola di giornalismo: «Più borse di studio»

Il Mattino

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Oltre 40mila euro di borse di studio, la collocazione nella nuova Torre della Comunicazione e una specifica sezione formativa dedicata al lavoro attraverso i new media. Sono alcune delle novità dell’ ottavo biennio della Scuola di Giornalismo «Suor Orsola Benincasa», nata nel 2003 come prima scuola di giornalismo del Mezzogiorno e pronta a festeggiare ad ottobre di quest’ anno i primi 15 anni della sua attività. Fino al 23 aprile sono aperte le domande di iscrizione (il bando è online sul sito web www.unisob.na.it/giornalismo) ad un percorso formativo di due anni che abilita gli allievi a sostenere l’ esame di Stato per l’ accesso all’ albo dei giornalisti professionisti. La Scuola di Giornalismo «Suor Orsola Benincasa» è inserita nella moderna Torre della Comunicazione dell’ Ateneo napoletano che vanta il più grande comparto formativo accademico del Mezzogiorno nel settore della comunicazione con due corsi di laurea, dieci master, corsi di perfezionamento ed alta formazione ed uno specifico dottorato di ricerca. Cresce da quest’ anno anche l’ impegno del Suor Orsola sulle borse di studio per gli iscritti alla Scuola di Giornalismo. Sin dal 2003 ci sono due borse di studio da 10mila euro a biennio riconosciute dal Premio «Giancarlo Siani». Prosegue per il lavoro sul giornalismo internazionale la partnership istituzionale con la Fondazione «Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo» con 25mila euro di borse di studio per ogni nuovo biennio. E da quest’ anno ci sarà un impegno specifico dell’ Ateneo con una borsa di studio di mille euro per ogni giornalista pubblicista e ci saranno altre borse di studio dedicate a Giancarlo Siani grazie alla partnership con la casa editrice napoletana «Alessandro Polidoro Editore» che ha deciso, su indicazione dell’ autore, di devolvere ai migliori allievi della Scuola i proventi del nuovo libro di Paolo Miggiano «NA K14314. Le strade della Méhari di Giancarlo Siani» (in uscita il 10 maggio). La redazione della Scuola è strutturata con un’ area per le postazioni computer, un’ ampia area destinata esclusivamente al montaggio dei servizi radio-tv ed alla registrazione dei testi in cabina insonorizzata, una sala riunioni e un set per le riprese televisive in studio. Le lezioni frontali (dedicate alla preparazione teorica del lavoro giornalistico ma anche alle materie indispensabili per affrontare la professione come il diritto, l’ economia e la storia) si svolgono nell’ aula «Giancarlo Siani», che è stata dedicata al giovane cronista de Il Mattino ucciso dalla camorra nel corso della visita che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto alla Scuola di Giornalismo nel 2008. Alla direzione della Scuola, c’ è Marco Demarco, già direttore de Il Corriere del Mezzogiorno ed editorialista de Il Corriere della Sera, affiancato nella direzione del settore radiotelevisivo da Pierluigi Camilli, già vicedirettore delle Testate giornalistiche regionali Rai. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

L'articolo Rassegna Stampa del 19/04/2018 proviene da Editoria.tv.


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