Indice Articoli
Dopo «Repubblica» anche «Il Sole» è accusato di una truffa all’ Inps
Corte dei conti e Anac: vertici Rai e Fazio a rischio
Come si proteggono le notizie dagli strilloni tipo Google News?
Zuckerberg promette: controllerò le appPronto a testimoniare davanti al Congresso
I nuovi trend nei media? Più differenziazione, dati verificati e spazio al giornale della sera
SE I MEDIA TRADIZIONALI SONO ANCORA INDISPENSABILI
Mediapro garantisce i primi 50 milioni
Mediapro, ieri incontro con Mediaset e oggi tocca a Sky
Il direttore deve eliminare l’ articolo diffamatorio
Dopo «Repubblica» anche «Il Sole» è accusato di una truffa all’ Inps
La Verità
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francesco bonazziUna scelta di stile, quella che ha fatto ieri il Sole 24 Ore, a non pubblicare neppure una riga sulla perquisizione subita martedì dal gruppo Gedi-Repubblica, per una presunta truffa sull’ accesso alla cassa integrazione e sui prepensionamenti tra il 2012 e il 2015. Nonostante il titolo avesse perso in Borsa il 4,7% il quotidiano della Confindustria ha evitato di infierire. Anche perché da una denuncia del senatore grillino Elio Lannutti, presentata alla Procura di Milano a novembre del 2016, sembra di capire che un problema simile potrebbe esistere pure in viale Monterosa. Anche se su questo filone, è bene chiarirlo subito, non risulta che vi siano indagati. Così come l’ inchiesta romana su Gedi è nata da segnalazioni anonime, anche questa storia del Sole 24 Ore nasce probabilmente dall’ interno. In mano al procuratore di Milano Francesco Greco, lo stesso che indaga sullo scandalo delle copie digitali gonfiate ai tempi di Benito Benedini e Roberto Napoletano, ci sono alcuni documenti interni che Lannutti, fondatore e anima di Adusbef, ha accluso alla sua denuncia. Una mail del comitato di redazione ricorda ai colleghi, a margine della richiesta delle ferie, che si possono chiedere «3 giorni di ferie e il conguaglio sulla solidarietà». La solidarietà è il nome, un po’ pietoso, della cassa integrazione per i giornalisti. Un marchingegno che, in cambio della riduzione di stipendio, consente agli editori di ridurre il costo del lavoro, evitare i licenziamenti e scaricare gran parte di questo costo su Inps, Inpgi e Stato. Ma il «conguaglio», ovvero un modo surrettizio di far recuperare ai dipendenti parte dei tagli in busta paga, è una di quelle cose che non andrebbero mai nominate, men che mai per iscritto. E vediamo perché. Anche se prima occorre ricostruire come il giornale della Confindustria, sempre in prima linea contro «gli sprechi» pensionistici, ha utilizzato la cosiddetta solidarietà. Circa 8 anni fa, il Sole concentra in un’ unica struttura, denominata Uor di Roma (unità operativa redazionale) 23 giornalisti delle testate tecniche settimanali, come Edilizia e territorio, Agrisole, Sanità e Scuola. In tal modo, nel febbraio 2012, anche i dipendenti di Uor vengono messi in cassa integrazione. Per evitare 6 licenziamenti accettano una riduzione dell’ orario di lavoro (e dello stipendio) del 25%. Le somme perse dai giornalisti, però, vengono rimborsate per il 60% dall’ Inpgi e per il 20% dall’ Inps. Ovviamente, se qualche lavoratore se ne va, a qualunque titolo, bisogna informare gli enti pensionistici, in modo che i relativi contributi di solidarietà si riducano in misura corrispondente alla diminuzione del costo del lavoro. Ecco, secondo la denuncia presentata dal Lannutti, al Sole le cose non sarebbero andate così. Nella sua denuncia si citano alcune email in cui si fa riferimento a un fatto che, se fosse vero, sarebbe assai grave: «Il cdr della Uor avrebbe firmato, a latere dell’ accordo pubblico sullo stato di crisi alla base della solidarietà, una scrittura privata sulla base della quale l’ azienda avrebbe rimborsato a ciascun giornalista la percentuale di solidarietà trattenuta e non dovuta, rimborsandolo in busta paga con una voce apposita «Cong Comp». E il piccolo marchingegno sarebbe stato nascosto in busta paga sotto la forma di «cessione ferie e permessi» dal dipendente all’ azienda. Ad aggravare le dimensioni del presunto magheggio, il fatto che Uor è stata poi integrata nell’ agenzia Radiocor (appena scorporata) in modo da portare, sempre secondo la denuncia, «i giornalisti dell’ Agenzia sopra il minimo richiesto per poter ottenere i fondi del Dipartimento della Presidenza del Consiglio per le agenzie di stampa». In base al bando dell’ epoca, Radiocor incassava 1 milione e mezzo di euro l’ anno come sostegno alle agenzie di stampa. La denuncia è stata depositata a Milano il 25 novembre 2016, con la richiesta di sequestrare mail e buste paga. Da allora, la Finanza ha visitato più di una volte la sede del Sole 24 Ore, per il troncone principale dell’ inchiesta sulla presunta truffa delle vendite online, ma non è dato sapere se abbia acquisito i documenti che consentirebbero di cestinare, o confermare, il dettagliato esposto dell’ Adusbef. Intanto anche ieri, in Borsa, il titolo Gedi ha vissuto una giornataccia, arrivando a perdere fino al 5,5% del proprio valore. I danni alla sola Inps, secondo la procura di Roma, si aggirerebbero sui 30 milioni, ai quali andrebbero aggiunti quelli alla presidenza del Consiglio e all’ Inpgi. Sotto la lente dei pm ci sono 187 prepensionamenti di poligrafici e 69 di giornalisti, tutti a carico di Stato, Inps e Inpgi; mentre per altri 554 lavoratori erano stati attivati i contratti di solidarietà come al Sole. Certo, fa impressione vedere gruppi editoriali in prima linea da anni nella lotta agli «sprechi» dell’ Inps, e favorevoli a sempre nuovi interventi sulle pensioni, lasciarsi andare a quella che con un eufemismo si potrebbe chiamare «ottimizzazione contributiva». Una settimana fa, il Sole scriveva: «Se fosse una qualsiasi azienda l’ Inps avrebbe già portato i libri in Tribunale. Ma l’ Inps non potrà mai fallire. È l’ ente pubblico che intermedia i flussi delle pensioni degli italiani e lo Stato ne garantisce l’ esistenza. Magra consolazione però, dato che se si guardasse al pianeta previdenza con gli occhi dei conti dell’ Inps ci sarebbe poco di cui gioire». Sul «portare i libri in Tribunale», purtroppo, a volte bisogna vedere chi arriva primo.
Corte dei conti e Anac: vertici Rai e Fazio a rischio
Il Fatto Quotidiano
Stefano Feltri
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Gli accertamenti sul contratto Rai per il programma di Fabio Fazio, Che tempo che fa, durano un’ intera stagione televisiva: al termine, la Corte dei conti dovrà valutare se i costi sono stati giustificati dai ricavi. A settembre l’ Anac, l’ Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone, ha iniziato a indagare sui contratti relativi a Che tempo che fa, passato da Rai3 a Rai1, ora ha finito il suo lavoro e presto pubblicherà la delibera sul suo sito, il ritardo dipende dalla Rai che sta cercando di omissare quanto più possibile del testo con la motivazione di non dare informazioni alla concorrenza (che nel mercato televisivo italiano non è altissima). Intanto l’ Anac ha trasmesso la delibera alla Corte dei conti. E il responso dei magistrati contabili può avere conseguenze sia sui destini della trasmissione sia sugli equilibri interni alla Rai, visto che a luglio arriva a scadenza il Cda nominato ai tempi del governo Renzi nel 2015. Il contratto di Fazio vale 2 milioni e 240 mila euro a stagione per quattro anni (in totale 8,9 milioni). Per i diritti del format per quattro stagioni, inoltre, Viale Mazzini pagherà 2 milioni e 816 mila euro per i 4 anni (704 mila euro a stagione). Poi ci sono 12 milioni di euro alla società Officina per l’ anno 2017-2018 per la produzione e la realizzazione del programma, cifra che comprende anche la trasmissione di Massimo Gramellini, Le parole della settimana. Non è compito dell’ Anac valutare se Fazio è pagato “troppo”. Il contratto con il conduttore e con le società connesse è artistico quindi, per sua natura, discrezionale e non deve rispettare gli obblighi di gara previsti dal codice degli appalti. Ma è comunque regolato dall’ articolo 4 del codice: “L’ affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall’ ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità”. Ed è proprio sul criterio di “economicità” che l’ Anac di Cantone si è concentrata. Tradotto: i costi del programma sono certi – ed elevati -, i ricavi molto aleatori. Poiché i costi sono stati giustificati dalla Rai proprio sulla base dei ricavi, se a fine stagione questi dovessero rivelarsi molto diversi da quanto stimato tutta l’ operazione risulterebbe non più giustificata. E dunque potrebbe giustificare l’ accusa da parte della Corte dei conti di un danno erariale. Già nell’ agosto del 2017 il direttore generale Rai, Mario Orfeo, alla commissione parlamentare di vigilanza aveva assicurato: “Il contratto con Fazio artista si ripaga già integralmente con le 13 puntate in onda nell’ autunno 2017”. E lo stesso Fazio aveva detto al Corriere della Sera che “il programma è pressoché interamente ripagato dalla pubblicità”. Stabilire se sta succedendo è più complesso di come sembra. La Rai sostiene che Fazio ha fatto risparmiare 12 milioni di euro a stagione, perché prima la domenica sera su Rai1 c’ erano fiction più costose del pur costosissimo show di Fazio. Ma il bilancio andrebbe visto nel complesso: al “risparmio” di Rai1 vanno sottratti i danni a Rai3. Fazio si è portato dietro un tesoretto da 3 milioni di euro circa, avanzi degli incassi pubblicitari dei tempi di Vieni via con me con Roberto Saviano. E Rai3 non ha più una prima serata altrettanto forte. Domenica 19 marzo 2017, per esempio, la somma dello share di Rai1 e Rai3 era 24,7 per cento. Domenica 18 marzo, nonostante il successo di Storie Maledette su Rai3, lo share totale delle due reti era 23,6 (in Rai si consolano col fatto che da gennaio la media di rete sul terzo canale è 6,86 per cento contro il 6,79 del 2017). Fazio ha il contratto blindato per quattro anni. Ma la decisione di dove e come collocare Che tempo che fa va rinnovata a ogni stagione. Orfeo o il suo successore rischiano di doversi trovare a scegliere se confermare una trasmissione che può essere fonte di danno erariale o rimetterla in discussione, con tutto quello che comporta. Un bel dilemma.
Come si proteggono le notizie dagli strilloni tipo Google News?
MF
ALBERTO GAMBINO*
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Nell’ ambito del rapporto fra tutela del copyright e interesse globale all’ informazione uno dei temi di cui si discute è quello relativo agli snippet, estratti di notizie aggregati da motori di ricerca (tipo Google News). Come deve essere disciplinato questo fenomeno in relazione alle regole del diritto di autore? In nessun ordinamento democratico la notizia, in quanto tale, è coperta dal copyright. Per la legge italiana sul diritto d’ autore il valore di una notizia rileva solo quando il suo accaparramento contrasta con le norme della concorrenza. Rispetto alle agenzie di stampa, chi con il proprio dispaccio ha dato luogo alla notizia ne rimane titolare per le prime 16 ore. Entro questo arco temporale le notizie possono essere cedute dal titolare dietro corrispettivo e lo stesso può adire l’ autorità per il comportamento sleale di chi le abbia utilizzate senza pagare. Notizia e articolo giornalistico che la contiene appartengono a genus diversi: la prima è un bene immateriale di pubblico dominio, il secondo è coperto pienamente dal copyright. Tornando agli aggregatori, una volta che una notizia è divulgata, diventa parte del patrimonio informativo dei consociati. Si pensi allo strillone con la mazzetta dei giornali adagiata sul braccio che nel secolo scorso andava urlando «Assassinato l’ Arciduca Francesco Ferdinando d’ Asburgo!»; la notizia la dava liberamente, rinviando all’ acquisto di un quotidiano a chi ne voleva conoscere contenuti e dettagli. Lo strillone di oggi opera nel web e si chiama «aggregatore di notizie». Non fa nient’ altro che comunicare al grande pubblico notizie già pubblicate da quotidiani, i quali peraltro, a differenza dei giornali cartacei, hanno in molti casi già reso gratuitamente accessibile agli utenti i loro articoli contenenti le notizie strillate dagli aggregatori. Ora non si può negare che le nuove generazioni appagano la loro sete di conoscenza attingendo solo in superficie ai contenuti informativi, cosicché anche il mero «urlo» di una notizia e del suo breve estratto (snippet) non ha più l’ effetto di spingere all’ approfondimento ulteriore. Occorre così trovare il modo di tutelare gli investimenti delle testate giornalistiche per non cadere in sacche di monopoli informativi e per non incentivare piattaforme che sfruttano, spesso indebitamente, elementi informativi prodotti da altri soggetti. Solo quando il testo della notizia riportata da un aggregatore riecheggi l’ elaborazione e il commento originato dal lavoro intellettuale di un giornalista, esso violerà il diritto d’ autore. In questa direzione ora la posizione di Consiglio e Parlamento Ue introduce la presunzione che l’ autore di un’ opera giornalistica (e non della notizia a essa sottesa) abbia ceduto i propri diritti all’ editore, legittimandolo a perseguire quegli snippet che siano riproduttivi del singolo articolo. Per risolvere fattispecie concrete è opportuno allora lavorare con discernimento e, nel caso degli aggregatori online, distinguere tra la comunicazione di una mera notizia accompagnata da estratti (snippet) liberamente utilizzabili in base alla normativa da informazioni frutto di veri e propri «copia e incolla» che finiscono per esautorare i contenuti scritti del giornalista/editore che ha investito sul reperimento delle notizie e, con il suo apporto professionale, le ha rese interessanti al pubblico dei lettori. Perché l’ equilibrio di un sistema complesso deve necessariamente precedere l’ ecosistema digitale e non inseguirlo. (riproduzione riservata) *docente di Diritto Privato all’ Università Europea di Roma e presidente dell’ Italian Academy of the Internet Code.
SBATTI ZUCK IN COPERTINA
Il Foglio
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San Francisco. “Naturalmente non potevamo prevedere quello che sarebbe successo poi” di ce David Moretti, direttore creativo (uscente) di Wired, ideatore della copertina di marzo col Mark Zuckerberg incerottato e dolente. Mentre Facebook crolla in Borsa sulla questione dei presunti dati rubati e finiti in mano a macellerie elettorali, quello con l’ incerottamento dell’ eroe (un tempo) di Silicon Valley è anche l’ ultimo numero firmato da Moretti, milanese trasferito in California solo tre anni fa. Quinoa e salmone fresco, siamo nel ristorantone interno della rivista americana a SoMa, ex zona industriale disastrata e oggi terreno di coltura delle più fondamentali startup. “Wired è nato a San Francisco, unica testata del gruppo Condé Nast a non essere a New York”, dice lui, “poiché legato alla cultura tecnologica californiana, all’ università di Berkeley, al movimento hippy. Se ti affacci alla finestra, lì è dove è nato Twitter, poco lontano c’ è l’ autostrada che porta in Silicon Valley. Qui intorno non c’ era niente. Infatti il primo ad essere assunto da Wired fu il cuoco, perché non c’ erano bar per mangiare”. Sui monitor campeggia una finta copertina che i suoi gli hanno fatto per salutarlo, coi suoi tic (“le famose riunioni da cinque minuti che ne durano quarantacinque”) e altrove campeggia invece la vera copertina di marzo. “E’ un’ illustrazione iperrealista, non è un ritratto fotografico”, dice Moretti. “Basata su un ritratto poi rilavorato; è opera di Jake Rowland, artista e fotografo, che ha manipolato l’ immagine fotografando altre persone, e poi pezzo per pezzo ha montato quelle facce su quella di Zuck”. “Volevamo rappresentarlo come un combattente, che, ferito, si rialza, sta cercando di aggiustare Facebook. L’ idea è quella di un’ opera d’ arte che rappresentasse anche l’ inchiesta più completa che Wired possa fare sull’ argomento”. In effetti sono quattordici pagine fitte fitte che si leggono come il romanzo di SIilicon Valley (soprattutto col senno del poi); “Nicholas Thomson, il nostro direttore, ha intervistato più di cinquanta persone, una cronistoria di quanto è avvenuto negli ultimi due anni, da quando Facebook ha cercato di vincere la gara contro Twitter tentando di batterla sul loro terreno, quello delle news”). Reazioni? “Facebook ha molto apprezzato il pezzo, ma sulla copertina ha detto che ci si è spinti un po’ troppo in là”. Certo qui tra stuoli di Tolomeo Artemide, mattoni a vista, redattori -designer a perdita d’ occhio, vengono in mente i nostri disgraziati giornali italici. Com’ è lavorare a un magazine americano? “In Italia a Wired c’ erano una ventina di persone”, dice Moretti. “Qui sono centoquaranta, e questa è la prima grande diversità. Abbiamo un milione di copie vendute ogni mese, un miliardo di utenti online. E poi la macchina editoriale è impressionante: pezzi che vengono pensati per sei -otto mesi, poi magari non vengono neanche pubblicati”. E avete anche voi quelle squadre bestiali di fact checkers leggendari? “Assolutamente, abbiamo otto persone che fanno controllo costante”. Prima di arrivare a Wired (Italia e poi Usa), “ti rando fuori finalmente la mia anima nerd”, Moretti ha lavorato in molti altri posti e fatto molte altre cose. Era il frontman dei Karma, “eravamo uno dei gruppi grunge importanti a Milano, ventisettemila copie vendute, due album”. “In Italia pare una cosa bizzarra, qui è molto normale, anzi interessante. Quando sono arrivato a San Francisco ero vice direttore creativo, e il mio capo era un musicista. Uno dei miei grafici è il fondatore di un gruppo Indie, i Camper Van Beethoven. Victor continua a fare tournée, ora per esempio è in tour in Arizona”, dice Moretti mentre raccoglie le sue copie di Wired (“di cui ero collezionista anche prima”). Prima però delle apoteosi siliconvalliche, infanzie milanesi. “Mio papà era una delle anime creative del Corriere della Sera. E non voleva assolutamente che facessi il suo lavoro. Così ho fatto scienze politiche e storia. Non mi dava mai una lira, però, per cui ho fatto qualunque tipo di lavoretto, soprattutto in tipografia, e per pagarmi l’ università ho cominciato a lavorare come account in una piccola agenzia di pubblicità, perché ero bravo a intortare la gente. Poi mi invento una cosa, Progetto Moda. Sapevo da mio padre che molte società della moda, soprattutto quelle piccole, non erano soddisfatte di come venivano trattate dai giornali. Allora mi invento un sistema per cui noi compravamo le pagine di pubblicità e prestavamo noi i direttori creativi ai giornali, gli facevamo anche sconti sulle modelle (nel frattempo io avevo fatto anche il driver per un’ agenzia di modelle), con buoni fotografi, tutto a costi bassissimi: e cominciano ad arrivare clienti, tipo Gold Market, te li ricordi? Facevano bigiotteria in oro. E Mandarina Duck”. “Era un mondo preistorico, lavoravamo con la pellicola, il taglierino, non c’ erano i computer. I computer li usavo invece per la musica, c’ erano i Commodore e gli Amiga”. Poi arriva Mani Pulite, “finiti i soldi e l’ entusia smo, e io comincio a fare i dischi, e non solo faccio i miei ma curo l’ immagine anche di altri, disegno quelli dei Tiromancino, collaboro coi Casinò Royale, viviamo in una casa occupata a Milano perché nel frattempo non c’ era più una lira”. “Poi basta anche con la musica ed entro a lavorare a Max. Grazie a un festival musicale che facevano loro e si chiamava Max Generation. Una volta porto con me il mio portfolio e il direttore Paolo Bonanni mi dice: belle queste cose. Ma a calcetto come sei messo? Io a calcetto ero una pippa tremenda, ma dico che sono bravissimo, esco e di fronte alla sede della Rizzoli c’ è un negozio di sport; compro un paio di scarpe ma non ci sono della mia taglia e le prendo di due numeri più piccoli. Facciamo questa partita, e sotto la doccia mi dicono: ‘allora settimana prossima cominci’. E da lì inizia tutto. Solo che per quelle scarpette mi saltano le unghie di tutti e due gli alluci”. “Paolo è quello che ha inventato i calendari, vendevano milioni di copie, con la Ferilli un milione. Quando sono arrivato facciamo il calendario con Alessia Marcuzzi in Brasile. Bonanni era un genio dell’ editoria e aveva ricevuto Max in eredità da Paolo Pietroni, probabilmente l’ uomo che ha inventato più giornali in Italia (oltre a Max e Amica, Sette e lo Specchio). Era l’ art director che diventa direttore, un mito. Amica era la prima rivista di quel genere che teneva il confronto con quelle straniere. Sta in tutti i manuali di grafica. E poi il suo Max era un giornale molto hollywoodiano, e con un’ estetica per l’ epoca molto gay, con attenzione spasmodica della fotografia, il formato gigante, ispirazione l’ Interview di Warhol. Altri tempi, oggi nessuno potrebbe permettersi centomila dollari a servizio, tranne Vanity Fair America o Vogue”. “E poi dopo Max molti giornali: Newton, Capital, le varie riviste internazionali di Rcs“. “Poi lanciamo Rolling Stone Italia, trasformando un magazine musicale in uno dedicato allo stile. Realizzo il sogno, un giornale fatto con gli amici che sono anche i migliori professionisti su piazza. Coinvolgo Carlo Antonelli, che fino a quel momento era direttore artistico di Caterina Caselli, e Michele Lupi”. Poi Wired. E il salto in America, lasciando Milano e spostandosi in una casa nel bosco nella baia di San Francisco coi figli e la moglie Marina Pugliese, storica dell’ arte e già direttrice del Museo del Novecento (“ma siamo sempre stati due avventurosi”). Anche l’ avventura dei giornali cartacei è finita per sempre? Il ceo del New York Times ha detto che dureranno dieci anni al massimo. “Il quotidiano molto probabilmente sì, perché ormai mancano i luoghi e le ritualità. Una volta si andava al bar e all’ edicola. La stampa periodica di massa non ha più senso. Non tocca il vero interesse delle persone, perché quel tipo di informazione la puoi trovare in mille altri luoghi. Oggi invece si cerca una passione. Così stiamo assistendo a un momento molto interessante, nella fattura di oggetti meravigliosi, di ricerca sulla carta. Qualcosa di unico che trovi solo in quei luoghi: una delle riviste più belle è Brownbook”, dice Moretti riferendosi al patinatissimo magazine. “E’ stato definito il Monocle del Medio riente, ma è sbagliato. Monocle ormai è un catalogo, ti vende il mobiletto, la giacchina, la candela, e a quel punto se vuoi un catalogo c’ è Mr. Porter. Brownbook invece ha una prospettiva completamente diversa di lettura del Medioriente. I luoghi sono sorprendenti ma accessibili, e poi il formato è super interessante, c’ è il poster, un libercolo, una raccolta di poesia, una cartolina, una serie di reperti, c’ è molta esperienza tattile”. Un altra rivista che gli piace è il California Sunday Magazine, che è anche uno show nei teatri, “e trasforma il contenuto giornalistico in spettacolo”. Il bello di Wired, dice, è che non c’ era distinzione tra la carta, l’ online e il video, si partiva “da un’ idea e poi la si declinava”. Con squadre di sceneggiatori e montatori e non solo grafici e giornalisti. E adesso declinando ancora in un nuovo modo futuribile, dopo aver firmato la sua ultima copertina, lui va a lavorare ad Apple, con un nuovo incarico prestigiosissimo di cui non può dire nulla, con la segretezza dei colossi siliconvallici. E dalla tipografia milanese al Commodore, a Cupertino, la sua sembra una speciale autobiografia delle news, e non solo di come si disegnano.
Zuckerberg promette: controllerò le appPronto a testimoniare davanti al Congresso
Corriere della Sera
Giuseppe Sarcina
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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON Da ora in avanti Mark Zuckerberg avrà il ruolo politico di cui si è tanto parlato negli ultimi mesi. No, non sarà l’ avversario di Donald Trump. Ma, di fatto, uno dei garanti, forse il più importante, nella campagna elettorale che porterà al rinnovo della Camera e di un terzo del Senato nel novembre 2018. Il voto di midterm: «Sono sicuro che qualcuno proverà a condizionare questo importante appuntamento elettorale negli Usa; ci saranno altre elezioni cruciali in Brasile e altrove. Faremo il possibile per evitare che qualcuno usi Facebook per interferire». È una svolta radicale, profonda per il giovane imprenditore che nel 2016 aveva liquidato come «una sciocchezza» il sospetto che i russi potessero manovrare online per inquinare le presidenziali. Poi sono arrivate le indagini del super procuratore Robert Mueller e in casa Facebook, il ciclone Cambridge-Analytica: 51 milioni di profili sottratti dalla piattaforma e trasferiti, all’ insaputa degli interessati, ai comitati elettorali della Brexit e di Donald Trump (su quest’ ultimo punto indaga lo stesso Mueller). Zuckerberg, 33 anni, è stato costretto a uscire allo scoperto. La sera di mercoledì 21 marzo ha postato una nota sul suo account e poi ha rilasciato interviste al New York Times , alla Cnn e al sito Recode . In una sola giornata si è esposto più di quanto abbia fatto in dieci anni. Il suo piano di rinascita si sviluppa sostanzialmente su due livelli. Il primo di merito, tecnico. Innanzitutto ha esposto la sua ricostruzione dei fatti, precisando che già nel 2014 era chiaro il pericolo costituito dalla app inventata da Aleksandr Kogan, il «sifone» che ha risucchiato i dati personali dal network di Facebook. In realtà solo pochi giorni fa, grazie all’ inchiesta giornalistica di Guardian e New York Times , si è scoperto che quel materiale era finito nelle mani di Steve Bannon, lo stratega di Trump. Zuckerberg ha spiegato che ora verranno vagliate, una per una, le app che si appoggiano sul social. Sarà un lavoro lungo perché, ha detto, «sono migliaia». Ma il passaggio più impegnativo è il secondo livello: «Sarò felice di testimoniare davanti al Congresso». E ancora: «Sono pronto a confrontarmi più spesso con i giornalisti e a rispondere alle loro domande». Quali che fossero le sue ambizioni, Casa Bianca o altro, adesso cambia tutto. Fine del profilo appartato del businessman che comunica di tanto in tanto con la sua comunità di oltre 2 miliardi di iscritti, postando messaggi all’ insegna dell’ ottimismo, ma sempre un po’ generici. Finito anche il tempo delle esplorazioni nascoste, i viaggi nel Paese come quello del 2017, i media a distanza di sicurezza. Se terrà fede all’ impegno, Zuckerberg passerà da una griglia all’ altra. Tre o quattro commissioni di Capitol Hill gli hanno già chiesto di presentarsi. Stesso discorso per il Parlamento britannico e quello europeo. Poi ci sono i procuratori del Massachusetts e di New York. E ancora la Federal Trade Commission, la temibile agenzia americana per la protezione dei consumatori. Nessuno gli farà sconti. I deputati e i senatori americani, specie democratici, gli scaricheranno addosso la frustrazione accumulata negli ultimi due anni. E probabilmente non basteranno a placarli i 7 milioni di fondi con cui il social ha foraggiato il Congresso nel 2017, come riportato dal «House and Senate lobbying record». Finora Mark aveva inviato nelle audizioni dirigenti abili solo a schivare le insidie. Quell’ epoca è terminata.
Facebook nel vortice
Il Giornale d’Italia
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Il caso Facebook ha innescato un vortice ed è difficile intravederne la fine. A poco o nulla sono servite anche le parole del fondatore Mark Zuckemberg che, uscito allo scoperto dopo giorni di silenzio, ha detto: “Sono responsabile di quello che è successo. Abbiamo fatto degli errori, c’ è ancora molto da fare. Abbiamo la responsabilità di proteggere le vostre informazioni. Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non riusciamo a farlo non meritiamo di essere al vostro servizio”. E a quanto pare fin troppo sulla parola hanno deciso di prenderlo gli inserzionisti britannici, che minacciano di abbandonare Facebook come riferito dalla Bbc. David Kershaw, boss del colosso Saatchi, in particolare, ha poi aggiunto che la minaccia di passare su altre piattaforme “non è un bluff. Io penso che i clienti siano arrivati a un punto nel quale il troppo è troppo, e hanno ragione. Dal punto di vista dei consumatori, i social network restano un servizio straordinario in cambio del quale tu condividi i tuoi dati. Ma credo sia un accordo che la maggior parte dei consumatori accetta solo finché quei dati non vengono fatti oggetto di abuso, come accade ora”. Fra i grandi inserzionisti, ha aggiunto la Bbc, il boicottaggio di Facebook (così come di Google) è già stato minacciato dalla multinazionale Unilever, per bocca del responsabile marketing Keith Weed: “Non possiamo avere un ambiente nel quale i nostri clienti non si fidano di quello che trovano online”. E mentre negli Stati Uniti scatta la prima class action contro Facebook e Cambridge Analytica (avanzata presso la corte distrettuale di San Jose’, in California) qualcosa potrebbe muoversi anche in Italia. Il Co dacons ha infatti presentato un esposto a 104 Procure della Repubblica di tutta Italia e al Garante della Privacy. “Di fronte all’ aggravarsi dello scandalo sull’ utilizzo dei dati sensibili degli utenti a fini elettorali, abbiamo deciso di coinvolgere la magistratura affinché accerti eventuali reati commessi sul territorio italiano da Face book o da società terze legate al social network- spiega il presidente Carlo Rienzi- Se infatti emergerà che profili e dati personali dei cittadini italiani iscritti a Facebook sono stati usati in spregio delle norme e per profilazioni politiche e campagne elettorali, si determinerebbe una palese violazione del Codice della Privacy, concretizzando reati per cui e’ prevista la reclusione”. L’ ufficio stampa di Fratelli d’ Italia, invece, replica ad un articolo apparso ieri su Repubblica e definito “senza alcun fondamento per sostenere che Fratelli d’ Italia si è avvalso della società Cambridge Analytica. Per i giornalisti che hanno firmato questa sedicente inchiesta risulta alquanto sospetto che Fratelli d’ Italia sia riuscito ad ottenere, nelle elezioni politiche del 2013 e a soli 40 giorni dalla sua fondazione, il consenso necessario per essere rappresentato in Parlamento e a diventare 5 anni dopo la quinta forza politica in Italia. Vogliamo rassicurare il quotidiano “La Repubblica”: il consenso di Fratelli d’ Italia deriva esclusivamente dal coraggio e dalla determinazione di un movimento politico che difende con coerenza le sue idee e si occupa di difendere i diritti e i bisogni del popolo italiano, non da oscure strategie di marketing che violano la privacy delle persone”.
I nuovi trend nei media? Più differenziazione, dati verificati e spazio al giornale della sera
Italia Oggi
MARCO LIVI
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«Per i quotidiani del futuro, forse, ha più senso il giornale della sera quando la cronaca stretta è stata già bruciata da internet e dai social network e quando si può indurre maggiormente il lettore alla riflessione»: è l’ opinione che ha dato ieri al 2° Milano Marketing Festival Giorgio Triani, giornalista e sociologo dell’ Università di Parma, a proposito dell’ impatto delle nuove tecnologie sul mondo dei media. Secondo Triani però, i giornali dovrebbero maggiormente differenziarsi tra loro smettendo di intervistare sempre gli stessi esperti di pensioni, economia e costumi, «se no poi è ovvio che uno si mette a seguire una testata straniera come la Bbc», ha proseguito il sociologo precisando che, a livello di nuovi trend nei media, «vanno bene i dati ma bisogna saperli leggere e verificare. Vanno bene le infografiche ma devono essere comprensibili». Guardando all’ estero, in cerca di esempi, Triani ha suggerito una lettura di The Guardian e dei meno noti Theconversation.com e Aeon.co. Insomma, più spunti alla riflessione del lettore e avere il coraggio di mostrare un’ opinione chiara dei valori della testata come ha confermato Alberto Maestri, direttore della collana Professioni digitali di FrancoAngeli (editore tra l’ altro di Giornalismo aumentato, curato da Triani), ricordando che i giornali devono anche difendersi dalle fake news, sempre esistite ma oggi con una forza di diffusione più veloce. © Riproduzione riservata.
SE I MEDIA TRADIZIONALI SONO ANCORA INDISPENSABILI
La Repubblica
ANTONELLO GUERRERA
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Tra le righe, martedì sera Mark Zuckerberg lo ha ribadito ben due volte durante il mea culpa sul caso Cambridge Analytica: sono stati i giornali tradizionali ad avvertire Facebook – e poi l’ opinione pubblica – delle violazioni sui dati personali di circa 50 milioni di utenti. Magari per “Zuck” serve anche a sfumare sue eventuali leggerezze, ma c’ è una certezza: con i loro ultimi scoop, Guardian, Observer e il New York Times hanno fatto conoscere al mondo intero il caso Cambridge Analytica. In un’ era in cui ogni giorno in Internet, al di là delle legittime critiche, vari culturisti da tastiera, affamati odiatori e “troll” attaccano ed esecrano pregiudizievolmente giornali e media tradizionali, il caso Cambridge conferma come, ancora una volta, senza il lavoro e la professionalità dei giornali, la nostra società sarebbe molto meno libera, trasparente e democratica. Certo, in questi casi, cruciali sono le fonti e i “whistleblower”. Ma non bastano. Tsunami di rivelazioni come Wikileaks e la vicenda Pentagon Papers raccontata da Steven Spielberg nel film The Post, non potrebbero essere comprese in un contesto politico-sociale senza il filtro professionale e attento dei media tradizionali. Non dovremmo dimenticare che ogni giorno numerosi scandali locali, nazionali e mondiali vengono alla luce grazie al lavoro di giornali e dei media. Alcuni giornalisti vengono anche uccisi per questo, come Daphne Caruana Galizia a Malta e Jan Kuciak in Slovacchia. E, intanto, in un’ epoca disturbata dalle sirene malefiche delle “fake news”, il giornalismo diventa sempre più indispensabile, come dimostra il boom di abbonamenti ai quotidiani nell’ America di Donald Trump. Segno che c’ è ancora, tanto, bisogno dei giornali. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Mediapro garantisce i primi 50 milioni
Corriere della Sera
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(m. col.) L’ atteso incontro fra Jaime Roures, presidente di Mediapro, con Infront (presente l’ ad De Siervo) e la Lega, nella figura di Paolo Nicoletti, sembra aver sbloccato la partita dei diritti tv. Chiariti i dubbi degli spagnoli relativi al confezionamento dei pacchetti e al diritto di commercializzare la pubblicità, Mediapro ha garantito che entro il 27 marzo verserà il deposito di 50 milioni. In serata vertice con Premium, oggi con Sky e alcune banche per la fideiussione da 1 miliardo e 200 milioni.
Mediapro, ieri incontro con Mediaset e oggi tocca a Sky
Il Messaggero
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DIRITTI TV MILANO Avverrà oggi il tanto atteso incontro tra MediaPro e Sky, definito conoscitivo da entrambe le parti. Nel frattempo Jaume Roures, presidente dell’ agenzia spagnola, ieri ha incontrato Infront e Lega serie A, per poi vedere anche Mediaset, Tim e Perform. Un summit, quello tra MediaPro e l’ advisor della Lega serie A, che potrebbe aver sbloccato la partita sui diritti televisivi del nostro campionato. Infront ritiene molto proficuo il vertice con MediaPro, che un mese fa si era aggiudicato l’ asta per i diritti della A 2018-2021 offrendo 1,05 miliardi di euro all’ anno (nel ruolo di intermediario indipendente). Per la felicità di tutti i presidenti della massima serie, che prima dell’ apertura della busta avevano ricevuto un’ offerta totale di 830 milioni di euro da parte di Sky e Mediaset. Cifra che non aveva raggiunto appunto il minimo richiesto. IL FACCIA A FACCIA Gli spagnoli hanno incontrato l’ ad di Infront, Luigi De Siervo, e il sub commissario della Lega, Paolo Nicoletti, dando rassicurazioni sull’ imminente caparra da 50 milioni di euro che dovrà essere versata entro martedì 27 marzo. Condizione necessaria perché tutto possa proseguire senza intoppi e battaglie legali. Ma non finisce qui. Oggi è in programma un secondo vertice. Qui saranno affrontati gli aspetti più tecnici legati alle garanzie che Mediapro dovrà presentare per blindare i diritti per il triennio 2018-2021, dopo il recente via libera dell’ Antitrust. Inoltre, nelle prossime ore gli spagnoli potrebbero anche vedere Unicredit e Intesa San Paolo per iniziare a discutere riguardo alla fideiussione da 1,2 miliardi. La posizione della Lega serie A in tutto questo? I presidenti dei club per ora restano in attesa. Dopo aver declinato l’ invito a cena di Mediapro (sarebbe dovuta andare in scena ieri perché l’ agenzia catalana intendeva chiarire le sue posizioni), aspettano con trepidazione il deposito dei primi 50 milioni. Un versamento obbligatorio, ricordano da Infront, per confermare l’ aggiudicazione dei diritti televisivi (senza, in pratica, l’ accordo salterebbe). IL TAVOLO Nel tardo pomeriggio c’ è stato anche il tanto atteso vertice tra MediaPro e Mediaset. Successivamente gli spagnoli hanno visto anche Tim e Perform. Dei summit giudicati importanti ed esaustivi. Con l’ emittente di Cologno Monzese si è parlato soprattutto di possibili pacchetti (gli spagnoli ritengono di poterci mettere mano seguendo le linee guida). Mediaset è ferma all’ offerta di 200 milioni di euro per le otto squadre, Roma esclusa. Qualora i giallorossi rientrassero nelle otto squadre di cui sopra, non è esclusa che l’ offerta possa essere alzata a 230 milioni circa. Soldi fondamentali per MediaPro: sarebbero una garanzia fondamentale per ottenere la fideiussione da 1,2 miliardi. Così da poter chiudere definitivamente l’ affare e ripartire senza preoccupazioni. Salvatore Riggio © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Il direttore deve eliminare l’ articolo diffamatorio
Il Sole 24 Ore
Patrizia Maciocchi
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roma Il direttore responsabile della testata giornalistica online risponde per gli articoli postati in maniera anonima, se non li rimuove tempestivamente. La Cassazione, (sentenza 13398) accoglie il ricorso della parte civile – respinto in appello – che chiedeva i danni per la diffamazione subìta a causa di un articolo senza firma, pubblicato nel sito web di un giornale, con il quale gli venivano attribuiti fatti specifici. La Corte d’ appello aveva negato che, nel caso esaminato, potesse scattare la “colpa” del direttore prevista dall’ articolo 57 del Codice penale. I giudici di seconda istanza erano partiti da un principio errato, assimilando il giornale telematico più alla tv che alla “carta” per l’ assenza dei requisiti tipici della riproduzione telegrafica. Infine avevano anche concesso, con una motivazione “sbrigativa”, la tutela del diritto di cronaca. La Cassazione fa ordine. I giudici ricordano, prima di tutto, che già le Sezioni unite hanno chiarito che il giornale online è sottoposto allo stesso trattamento della stampa, sia per quanto riguarda i diritti, sia per i doveri. Sempre le Sezioni unite hanno in realtà anche escluso una responsabilità del direttore per i commenti online postati direttamente dall’ utenza, difficili da “arginare”. Nello specifico, però, i giudici della quinta sezione penale non escludono la responsabilità soltanto perché l’ articolo era stato postato senza firma, valorizzando alcuni elementi, ad iniziare dalla posizione dello scritto e dal tempo di permanenza online. Il “pezzo” diffamatorio era inserito nel corpo della testata, dove era rimasto per quasi 12 mesi, alla portata di un numero potenzialmente illimitato di lettori. Una modalità che lascia presumere la possibilità da parte del direttore – che nello specifico era anche amministratore del sito dove veniva pubblicato il giornale – di fare un controllo preventivo. Ma la Suprema corte va oltre, spiegando che neppure l’ accertamento dell’ impossibilità di controllare prima della pubblicazione il contenuto dell’ articolo postato in forma anonima salverebbe il direttore. La responsabilità a titolo di colpa o di concorso prevista nella diffamazione, a seconda che ci sia adesione o meno rispetto alle affermazioni incriminate, scatta se il pezzo postato non viene rimosso. E il reato dura fino a quando lo scritto non viene tolto dalla rete. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
L'articolo Rassegna Stampa del 23/03/2018 proviene da Editoria.tv.