Indice Articoli
Vecchio business, bugie e privacy Così Zuckerberg perde fondi e “amici”
Google/Facebook, quota pubblicità in calo negli Usa
Perché il caso Cambridge Analytica svela il peccato originale di Facebook
Radio batte tv per affidabilità
Vice Italia, fibrillazione ai vertici
Chessidice in viale dell’ Editoria
Tv, la sfida è nella distribuzione
Commissioni di garanzia Per la Vigilanza Rai il Pd tenta la carta Boschi
Diritti tv, i dubbi di Mediapro “Blocchiamo i pagamenti”
Il datagate affossa Facebook
Il Fatto Quotidiano
Virginia Della Sala
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La peggiore giornata a Wall Street dal 2012 per Facebook: il social network è stato travolto dall’ inchiesta su Cambridge Analytica, la società britannica che avrebbe sottratto illecitamente i dati di 50 milioni di utenti. Ieri, la valanga: il social ha perso poco meno del 7% in Borsa, i membri del Congresso hanno chiesto spiegazioni, la commissaria europea Vera Jourova ha parlato di una vicenda “orripilante”, l’ autorità britannica per la protezione dei dati ha annunciato un’ indagine. Si cerca il capro espiatorio per gli esiti elettorali dell’ ultimo anno. E c’ è: è il padrone delle informazioni su quasi 2 miliardi di utenti su cui pende da un lato la questione legale, dall’ altro la questione morale sull’ uso politico dei social network. Il rischio è che si confondano i due livelli. Tutto nasce con l’ inchiesta pubblicata nel fine settimana da New York Times e Guardian. Racconta che Cambridge Analytica avrebbe ottenuto illecitamente i dati provenienti dai profili Facebook di circa 50 milioni di elettori americani. Obiettivo: utilizzarli a scopi elettorali. La società ha infatti lavorato per Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Uno dei suoi fondatori, Bob Mercer, è il padre di Rebekah Mercer, alla guida del più importante comitato elettorale dei repubblicani. Inizialmente i Mercer (e Cambridge Analytica) si schierano con Ted Cruz ma dopo i primi test elettorali iniziano ad appoggiare Trump. A capo della campagna c’ è Steve Bannon che assolda Cambridge Analytica: lui, che ne era stato uno dei primi capi e azionista fino a pochi mesi prima. Il business (nato nel 2013) di Cambridge Analytica si basa sulla micro – profilazione degli elettori. Raccoglie dati in base al come, al dove e al perché di Like, commenti, foto e localizzazione. I suoi algoritmi – sviluppati da un ricercatore di Cambridge, Michal Kosinski – fanno il resto e tracciano profili precisissimi degli utenti, come per la pubblicità. Solo che Cambridge Analytica lo avrebbe fatto (anche se smentisce) per cucire addosso ai singoli utenti la comunicazione elettorale basandosi sulle loro reazioni emotive. Lo definisce “microtargeting comportamentale”. Nel 2015, un altro ricercatore dell’ Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, (che ora lavora per Facebook) realizzò con la Global Science Research (Gsr) l’ applicazione thisisyourdigitallife. Sosteneva di tracciare i profili psicologici e di previsione del comportamento, basandosi sulle attività online. Per usarla, gli utenti dovevano collegarsi tramite Facebook Login, il sistema che permette di iscriversi a un sito senza creare nuovi account, utilizzando le credenziali Facebook. In questo modo, l’ applicazione ottiene però l’ accesso a molte informazioni del profilo dell’ utente (dall’ età al sesso: sono comunque sempre indicate dal social). A iscriversi furono in 270 mila. Il problema è che al tempo Facebook (indicandolo nelle condizioni d’ uso) permetteva ai gestori di raccogliere anche alcuni dati sulla rete di amici della persona che effettuava l’ accesso. Le informazioni si moltiplicavano quindi esponenzialmente (da qui i 50 milioni di utenti stimati dai due quotidiani): localizzazione, gusti, foto e post pubblici. Solo in seguito l’ accesso ai dati degli amici fu vietato. Qual è allora il problema? Il fatto che Kogan avrebbe passato a Cambridge Analytica tutti i dati raccolti violando i termini d’ uso del social network. Quelle informazioni non potevano infatti essere condivise con società terze, pena la sospensione dell’ account e quindi della fonte del business. Cambridge Analytica&C. sono però stati sospesi solo il 16 marzo scorso, a ridosso della pubblicazione delle inchieste. Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica e principale fonte dei due giornali aveva sostenuto che Facebook sarebbe stata al corrente del problema da circa due anni. La stessa Cambridge Analytica si sarebbe autodenunciata e avrebbe confessato al social di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’ uso e di averne disposto subito la distruzione.
Vecchio business, bugie e privacy Così Zuckerberg perde fondi e “amici”
La Stampa
FRANCESCO SEMPRINI
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Modello di business, Instagram, fake news e feed news, carenza di leadership, stanchezza. Il crollo a Wall Street registrato ieri da Facebook ha radici più profonde dei semplici ordini di «sell-off» impartiti dagli algoritmi all’ indomani dello scandalo Cambridge Analytica. E l’ indicazione arriva proprio dal Nyse dove Ken Polcari veterano di O’ Neil Securities lancia un monito: «È la conferma di come ciò che temevamo da tempo sia oggi una realtà preoccupante. È come se gli utenti del social avessero preso coscienza del fatto che i loro post vengono utilizzati in tanti modi non consentiti. E dinanzi a questo la risposta di Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg è tutt’ altro che chiara». Ben inteso il colosso di Menlo Park, California, è ancora l’ azionista di maggioranza della Silicon Valley, ma la concorrenza è incalzante, come spiega Jan Rezab, fondatore di Socialbakers. «Instagram sta prendendo sempre più piede e sempre più quote di attenzione e mercato, rivelandosi come la prossima piattaforma dominante». Secondo il guru tecnologico gli utenti trascorrono sempre più tempo sul social di condivisione foto, controllato sempre da Facebook, «il quale è il prossimo a raggiungere il traguardo del miliardo di utenti». Al contempo si assiste a una sorta di stanchezza collettiva. «Ritengo che la gente sia esausta di Facebook», dice lapidario Jim Cramer, il guru di Mad Money e co-fondatore di The Street. «La gente è esausta di una società che inizia ad avere sempre meno amici – prosegue – e sempre meno “like”». La stanchezza da cosa deriva? In buona parte dal tormentone fake news e dal fatto che il nome di Facebook sia stato legato con la Brexit, la vittoria di Donald Trump di Usa 2016, il Russiagate, i populismi europei e, in ultimo, il voto in Italia. Il sentimento comune è che sia stato fatto «troppo poco e troppo tardi». «Certi portali Internet, che rappresentano schieramenti di destra tanto quanto di sinistra, hanno già incassato successi non trascurabili, in termini finanziari e di influenza politica, oltre che in notorietà», avverte Gabriel Bell, editor culturale di Salon.com. C’ è di più secondo Chris Wylie, gola profonda di Cambridge Analytica: «Col recente scandalo si è riusciti a portare le fake news ad un livello superiore», compiendo il salto di qualità. Azioni e reazioni scritte nei numeri, come quelli di eMarketer secondo cui Google e Facebook assieme controllano il 56,8% degli investimenti in pubblicità rispetto al 58,5% dello scorso anno. Questo perché operatori minori sul campo social, come Amazon e Snapchat, sono protagonisti di una crescita veloce. Questo – spiega Max Willens di Digiday – accompagnato dal fatto che editori “virali” come Viral Thread, ViralNova, 9gag, Bored Panda, Diply e Distractify vedono i volumi di interazione del colosso di Zuckerberg – ovvero likes, condivisioni, commenti – in veloce caduta. E ciò da quando Facebook ha annunciato in gennaio di voler ridurre in termini di priorità i contenuti editoriali di notizie nel suo «news feed». Si tratta della Sezione Notizie, non a caso lo spazio che si vive di più su Facebook – consultato quasi 20 volte al giorno – per scoprire cosa succede nel mondo e tra gli amici. Questo anche in conseguenza della guerra che i giganti dell’ editoria tradizionale, in primis Rupert Murdoch, patron del colosso News Corp, hanno promesso di scatenare alle piattaforme social che fanno circolare in chiaro contenuti prodotti a pagamento. Un elemento che rischia di rendere la società prigioniera del suo stesso modello di business. E non è tutto, come spiega Matt Rosoff, direttore editoriale per il digitale di Cnbc. «I leader capaci ammettono gli errori, chiedono scusa velocemente e si adoperano per l’ immagine della società. Facebook al contrario ha reagito male e tentato di nascondere». Così come non è mai stata data una spiegazione «alla vendita di azioni iniziata la scorsa estate da parte di alcuni alti dirigenti come lo stesso Zuckerberg». Il punto è che Facebook sta affrontando problemi in questa fase, «e – conclude Rosoff – i vertici invece di dare risposte non parlano e dismettono azioni. Questa non è leadership, quando i leader cadono, le società crollano». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
Google/Facebook, quota pubblicità in calo negli Usa
Italia Oggi
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Google e Facebook hanno dominato il mercato americano della pubblicità digitale per anni, cristallizzando un vero e proprio duopolio. Ora, però, ci sono segnali del fatto che altre piattaforme, come Amazon e Snapchat, stanno iniziando a erodere quote di mercato ai due giganti. In base alle più recenti stime della società eMarketer, la quota di mercato combinata di Google e Facebook negli Usa passerà dal 58,5% dello scorso anno al 56,8% di quest’ anno. Allo stesso tempo, la spesa in advertising digitale nel Paese dovrebbe crescere del 19% a 107 miliardi. Più nel dettaglio, i ricavi di Google dalla pubblicità digitale dovrebbero aumentare del 15% quest’ anno a 39,92 miliardi di dollari, mentre Facebook dovrebbe mettere a segno un +17% a 21 miliardi, sempre secondo le stime di eMarketer. Questo significa che Google avrebbe una quota di mercato del 37,2% (contro il 38,6% di un anno fa) e Facebook del 19,6% (19,9% lo scorso anno). I rapporti degli inserzionisti con Google e Facebook hanno vissuto momenti di tensione negli ultimi anni, a causa di pubblicità comparse accanto a contenuti inappropriati, discrepanze nel sistema di misurazione e per l’ utilizzo delle piattaforme, da parte della Russia, al fine di interferire nella campagna elettorale statunitense. Amazon è tra i player che potrebbero seriamente rivaleggiare con Google e Facebook nel mercato della pubblicità digitale. Il gigante dell’ e-commerce dovrebbe vedere i ricavi da digital advertising salire quest’ anno del 64% a 2,89 miliardi di dollari negli Usa, per una quota complessiva del 2,7%. Entro il 2020, per eMarketer Amazon salirà al terzo posto, superando Oath di Verizon Communication e Microsoft, con 6,4 miliardi di dollari di vendite pubblicitarie digitali negli Usa. Snap dovrebbe vedere crescere i ricavi dell’ 82% a oltre 1 miliardo di dollari nel 2018, con una quota dell’ 1%. Instagram, che fa capo a Facebook, potrebbe superare il 5% di quota di mercato, con ricavi da pubblicità digitale a 5,48 miliardi. Per quanto riguarda Twitter, i ricavi da pubblicità digitale negli Usa dovrebbero calare del 4,9% a 1,12 miliardi nel 2018, per una quota in decremento all’ 1%. Per eMarketer dovrebbe tornare a crescere nel 2019, con un +5,5% in termini di ricavi. © Riproduzione riservata.
Perché il caso Cambridge Analytica svela il peccato originale di Facebook
Il Foglio
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Roma. Il verbo fondamentale nella vicenda di Cambridge Analytica e Facebook è “harvest”, che è un verbo contadino, e significa fare raccolto, mietere, vendemmiare. Cambridge Analytica, ha detto il whistleblower Christopher Wylie al Guardian e al New York Times, ha “fatto raccolto” in maniera illecita dei dati personali di decine di milioni di utenti di Facebook, e l’ ha usato per creare un’ arma di manipolazione elettorale potente con cui Steve Bannon avrebbe contribuito all’ elezione di Donald Trump, alla vittoria della Brexit e per dare sostanza all’ ondata populista europea. Nel suo racconto, Wylie ha accusato Cambridge Analytica, la società di targettizzazione politica cofondata da Bannon con i soldi della famiglia Mercer, di aver ottenuto i dati di almeno 50 milioni di elettori diffondendo una app che autorizzava l’ azienda a fare raccolto dei dati Facebook degli utenti e di quelli dei loro amici: like, post sulla bacheca, post condivisi, network di amici, in alcuni casi perfino i messaggi privati. Fino al 2014, Facebook consentiva a queste app di fa re “harvesting”: anche la campagna per la rielezione di Barack Obama nel 2012 aveva la sua app. Ma la app di Cambridge era stata dissimulata come un test della personalità con finalità ludiche e di ricerca, e i suoi utenti non sapevano che i loro dati sarebbero stati utilizzati in campagna elettorale. Usando i dati di Facebook, Wylie e i suoi avrebbero creato dei modelli di targettizzazione potenti – significa: trovare il messaggio politico o commerciale perfetto per manipolare la psicologia di ogni singolo elettore/consumatore/utente in base al suo profilo – che sarebbero stati usati nella campagna elettorale americana, in quella referendaria sulla Brexit e altrove. Come se non bastasse, alcuni ricercatori di Cambridge Analytica avevano relazioni sospette con la Russia. Ci sono due interpretazioni estreme di questa vicenda. La prima è: “Cambridge Analytica ha fatto vincere Trump e la Brexit usando i dati di utenti ignari”. L’ altra è: “Cambridge Analytica esagera il suo ruolo nella campagne elettorali recenti e i dati che ha acquisito non hanno spostato nessun risultato”. Le classi politiche americana, inglese ed europea hanno optato per la prima opzione, e negli ultimi due giorni sono state piuttosto minacciose nei confronti di Analytica e di Facebook, promettendo comparizioni davanti a commissioni d’ inchiesta e indagini giudiziarie. In realtà, lo stesso Wylie ha detto al Guardian di non avere idea degli effetti che il lavoro di Analytica ha avuto nell’ ascesa del populismo, e certo passeremo i prossimi mesi a interrogarci sull’ influenza di Analytica nelle vicende politiche degli ultimi anni in occidente. Ma alcune responsabilità sono chiare fin da subito: quelle di Face book, che non a caso ieri è crollato in Borsa. Il primo livello di responsabilità riguarda l’ omesso controllo: Facebook sapeva almeno dal 2015 che Analytica aveva vendemmiato i dati di utenti inconsapevoli e li usava per campagne politiche, ma secondo Wylie non ha fatto quasi niente per impedire che fossero usati. Il secondo livello di responsabilità è più generale e riguarda l’ atto stesso dell'”harvesting”. Il fatto fondamentale è che i dati di Facebook (ergo: i nostri dati personali, le nostre vite digitali) sono là fuori per essere vendemmiati con relativa facilità da chiunque voglia organizzare una guerra culturale o una campagna pubblicitaria. Facebook dice di aver chiuso tutte le falle di sicurezza, ma la domanda che ci faremo nei prossimi anni sarà ugualmente: quante altre aziende con obiettivi politici e commerciali hanno raccolto i nostri dati con il silenzio -assenso del social network? Quante lo faranno ancora? La prima che ci viene in mente è Facebook stesso: il suo modello di business è la vendemmia dei nostri dati. L’ abbiamo sempre saputo, ma pensavamo che Facebook servisse a venderci gadget, non a manipolare la democrazia. Certo: non è l’ unica azienda a farlo, ma è l’ unica a possedere le nostre vite quasi per intero. Ci siamo svegliati tardi. Presto i dati personali saranno il tesoro più prezioso che avremo. Chi ne avrà il dominio potrà decidere elezioni e creare imperi economici. Allora ci chiederemo come abbiamo potuto cederli tutti a Facebook. Gratis, per giunta. (ec)
Radio batte tv per affidabilità
Il Sole 24 Ore
Andrea Biondi
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«Il mezzo radio è in salute. Anzi, ha ampi margini di miglioramento in termini di raccolta. È un mezzo potente, ascoltato da oltre 35 milioni di persone. E soprattutto, in quasi tutta Europa, è quello che ha più credibilità, prima di tv, carta stampata e Internet. Lo dicono gli utili dati dell’ Eurobarometro». Nicola Sinisi ha lasciato, dopo due anni, la presidenza di Ter, il Tavolo editori radio, società che rappresenta il comparto nella sua totalità, con emittenti pubbliche, private, commerciali e locali. Proprio alle radio locali, che hanno il 30%, spetterà ora la presidenza di questa società nella quale Upa (investitori pubblicitari) non è voluta entrare, in polemica con le tipologie di rilevazione affidate al metodo Cati, fatto di telefonate a campione. Sinisi però, approdato già da un mese alla guida di Rai Canone, l’ indagine la difende a spada tratta: «Si parla di 120mila persone contattate, che sono tantissime. Se ne occupano due società, vale a dire Ipsos e Gfk, con il vaglio successivo di Reply. Più di così onestamente è difficile. E il meter, oltre che inutile per un mezzo di flusso come la radio, sarebbe troppo costoso per le locali sul giorno medio. Si potrebbe utilizzare nelle indagini sulle coperture a 7 oppure 14 o 28 giorni». Certo è che c’ è stata più di qualche turbolenza sulla diffusione dei dati in questi primi anni di attività che seguono la chiusura dell’ esperienza Audiradio coperta parzialmente poi da Radiomonitor di Gfk. «È evidente – replica Sinisi – che parliamo di una sorta di condominio litigioso, ma gli editori sono in grado di trovare la sintesi quando è necessaria, come dimostra anche il fatto che le decisioni in consiglio sono state prese quasi tutte all’ unanimità». Del resto, è anche vero che il mondo radio ha avuto una grossa trasformazione, soprattutto con l’ ingresso di Mediaset. «A fine settimana – dice Sinisi – sarà reso noto il nastro di pianificazione con la declinazione, per la prima volta, sui vari device delle audience 2017», già diffuse nei giorni scorsi. «È un’ operazione unica, di straordinaria importanza – aggiunge – e che evidenzia ancora di più quanto la radio possa crescere, sull’ onda della convergenza crossmediale». Secondo gli ultimi dati Nielsen a gennaio la pubblicità per la radio è salita del 5,3% annuo. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Milano? Serve solo più cinema
Italia Oggi
FRANCESCA SOTTILARO
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Mille spot prodotti lavorando con maestri delle pubblicità e del cinema inclusi i premi Oscar Martin Scorsese, Dante Ferretti, Giuseppe Tornatore. Il sogno di Andrea De Micheli, a.d. e fondatore assieme a Luca Oddo di Casta Diva Group, holding operante a livello mondiale nel settore della comunicazione, è che Milano «una mela aperta alle novità» si apra di più al cinema. «I progetti ci sono», spiega il ceo assieme a Oddo, che è presidente del gruppo e si divide tra Londra e l’ Italia. «Il settore è concentrato a Roma perché Milano è soprattutto finanza o marketing. Il mondo professionale è meno impulsivo, analizza tutto nel dettaglio: i produttori romani se ne fregano delle analisi, si buttano e fanno quella cosa a patto che li appassioni». De Micheli e Oddo saranno di scena al 2° Milano Marketing Festival di Class Editori (dal 21 al 23 marzo al MegaWatt Court), portando la case history del Blue Note, il jazz club di Casta Diva group che ha cambiato il volto della metropoli lombarda che i due manager raccontano a ItaliaOggi. Tra l’ altro il gran finale della kermesse sarà targato proprio Blue Note Off, sulle note jazz del sassofonista Felice Clemente. Domanda. Che cosa accomuna advertising e jazz? Risposta. La sfida, che si tratti di girare un film o fare musica, è regalare qualcosa di indimenticabile a dei perfetti sconosciuti. Se ci riesci hai successo in tutte le altre discipline. D. Come sono evoluti? R. Entrambi i settori hanno attraversato mutamenti importanti. Oggi quando si gira uno spot conta quasi più l’ analista che studia l’ algoritmo sui differenti canali che non il creativo. Il Blue Note, incorporato in Casta Diva (nel 2016, ndr) e fondato da Paolo Colucci, un avvocato d’ affari che aveva lavorato a New York e voleva ricrearlo a Milano, è stato invece «detemplizzato». All’ inizio infatti veniva vissuto con timore reverenziale. D. Anche Milano è cambiata e attorno al Blue Note è rinato un quartiere, l’ Isola. R. Da ragazzi non ci si avvicinava. In via Borsieri conviviamo oggi con oltre 30 ristoranti. Il bar accanto offre addirittura musica dal vivo e un aperitivo low cost. Così quando la gente si siede da noi consuma meno.. D. Potreste valutare un’ opzione d’ acquisto… R. Ci abbiamo pensato. D. Una parola per definire la metropoli? R. È una mela aperta: hai dei tunnel, dei bachi ognuno con la sua nicchia. Nel suo insieme è estremamente ricettiva. Poi capita di assistere a un fanatismo inaspettato. D. Per esempio? R. Giorni fa abbiamo inaugurato le serate Blue Vinyl Nite (termine informale per dire night, notte, ndr) con musica dal vivo insieme a quella su disco. Certi puristi hanno storto il naso. E dire che a Milano quando si ascoltava il jazz al Capolinea tra tovaglie a quadretti e toast sbruciacchiati i musicisti si alternavano senza un senso. Verso mezzanotte arrivavano musicisti più o meno noti, come Jannacci che era medico che si presentava quando finiva il turno in ospedale. D. Cosa ne pensate della cover di Elton John diventata immagine per una limited edition di Gucci? R. Siamo al confine tra la cultura e il marketing. Vale anche per la Vinyl Nite. D. Il vinile è ritornato fenomeno. Perché? R. Il mercato vuole buona musica e contenitori, come quando si comprava la prima Internet box della Telecom con una scatola grande e una sim piccolissima. Le copertine sono come quadri d’ arte e il suono è di maggior qualità. Detto ciò, quello che sta accadendo per l’ e-commerce con Amazon o nel cinema con Netflix varrà anche le etichette. C’ è da aspettarsi che chi fa streaming sarà produttore. D. Tra marketing culturale e cultura del marketing quali passi avanti sono stati fatti? R. Si è investito molto nel far recepire meglio al pubblico un genere, una disciplina. La cultura del marketing, invece, è meno ingenua, ha sempre più a che fare con specialisti e analisti. L’ unica considerazione è che nonostante i calcoli e i numeri, sbagliano ancora. D. Con la holding Casta Diva Group siete specializzati a livello mondiale in advertising, branded content e comunicazione. Quali sono i progetti? R. Siamo in un’ epoca in cui anche l’ influencer è uno storyteller primitivo e nel marketing mix bisogna pensare a ogni mezzo. È finita l’ epoca in cui per fare branded content sapevi che 20 milioni di persone le avevi davanti all tv. Prima di propinare lo spot nel film, per Sanremo o nella partita, devi creare la serie e il festival, Il pubblicitario deve fare l’ impresario. La sfida è continuare a investire sulla qualità, che si tratti di un corto per Banca Intesa o per un docufilm candidato a Venezia. © Riproduzione riservata.
Vice Italia, fibrillazione ai vertici
Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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Il caos regna sovrano ai vertici di Vice Italia, la casa editrice filiale della multinazionale Usa, e che nella Penisola pubblica il periodico cartaceo Vice, cura la versione nazionale di Vice.com e una serie di canali web verticali destinati ai millennials (tra cui Creators, I-D, Motherboard, Munchies, Noisey). Negli ultimi giorni ci sono state due uscite eccellenti: se ne è andato Romano Ruosi, che era responsabile del business development (ovvero quello che portava a casa i contratti pubblicitari in Italia) e che ritorna in Condé Nast, da dove arrivava e in cui per anni aveva guidato la concessionaria interna. Ha appena lasciato pure Andrea Amato, che da fine 2016 era direttore della edizione cartacea di Vice e che successivamente aveva avuto la responsabilità su tutte le redazioni del gruppo. Da Vice Italia, inoltre, nello scorso mese di ottobre si era allontanato l’ amministratore delegato Elia Blei (un addio con strascichi legali e cause intentate), che guidava le operazioni da meno di un anno. E in effetti tutta la fibrillazione di Vice Italia era iniziata proprio nell’ autunno 2016, quando il co-fondatore della società (nata in Italia nel 2005), Andrea Rasoli, aveva venduto il suo 30% alla holding Vice Europe holding ltd, che ora controlla il 100% della filiale tricolore. A seguito di questa mossa, c’ erano state le dimissioni del direttore responsabile Giorgio Viscardini e del direttore di Vice News, Valerio Bassan. Poi, nel novembre 2016, era arrivato Blei, c’ erano stati tagli al personale (una decina di unità) per giungere, poi, nell’ autunno 2017, allo stop agli aggiornamenti del sito Vice News. Pure le produzioni di reportage e di inchieste giornalistiche in Italia da veicolare su Sky sono state interrotte (e ora Sky acquista direttamente i contenuti da Vice Usa o Uk). I conti della società sono ancora sotto controllo: nel 2016 i ricavi erano scesi a quota 2,5 milioni di euro (un calo di 900 mila euro rispetto al 2015), per una perdita di esercizio pari a 590 mila euro (493 mila euro di utili nel 2015). Nel 2017 le previsioni di budget davano tuttavia ricavi in ripresa sopra i 3,5 milioni di euro. Previsioni che, però, potrebbero aver subito pesanti contraccolpi dagli addii eccellenti di Blei e Ruosi, tenuto conto che le entrate di Vice sono quasi esclusivamente riferibili a contratti pubblicitari. Sarà compito del presidente di Vice Italia srl, John Richard Waterlow, e dell’ unico membro italiano del cda, Riccardo Trotta, produttore e direttore creativo di Vice Italia, quello di trovare una nuova strada per l’ azienda, al momento guidata dal general manager Roberta La Selva (che già era in Vice Italia e si occupava di rapporti con le agenzie e i centri media), e in cui a capo di tutti i contenuti c’ è Lorenzo Mapelli, mentre Leonardo Bianchi è il news editor. Il giornale cartaceo Vice sarebbe formalmente un quadrimestrale free press. Ma nel 2017, causa i seri problemi di Vice Italia, è uscito con un solo numero. Il grosso del business si sviluppa, quindi, attorno al sito Vice.com e i canali verticali. La produzione dei contenuti è a cura di una quindicina di addetti (su un totale di 26 dipendenti di Vice Italia), molto giovani, e senza neppure un giornalista. Forse anche per questo, in Italia il piglio di inchiesta e di reportage è stato molto annacquato: in Usa e Uk i siti di Vice parlano certo ai millennials, con un tono di voce un po’ particolare, ma affrontando sempre temi che sono al centro del dibattito pubblico. Invece Vice.com/it è una sorta di «strano ma vero», con molto sesso e notizie bizzarre. © Riproduzione riservata.
Chessidice in viale dell’ Editoria
Italia Oggi
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Meredith, tagli in vista dopo l’ acquisizione di Time. Meredith si prepara a tagliare tra i 200 e i 300 dipendenti una volta ultimata l’ acquisizione di Time Inc. Lo ha rivelato il Wall Street Journal. La mossa è parte del piano che dovrebbe consentire di risparmiare 400-500 milioni di dollari in due anni. I tagli dovrebbero riguardare soprattutto Time e altri ne seguiranno entro l’ anno. Messaggero, Alvaro Moretti vicedirettore. Dal 3 aprile Alvaro Moretti assumerà il ruolo di vicedirettore de Il Messaggero lasciando dopo sei anni la direzione del quotidiano gratuito Leggo. Tbwa per Wind Tre. A seguito di una gara creativa, Tbwa si è aggiudicata l’ incarico per la comunicazione Wind Tre above the line traditional, diventando così la nuova agenzia creativa di riferimento dell’ azienda di telecomunicazioni. Novità in casa Milano Fashion Library. Nuovi direttori per Riders, Urban ed Entertainment Illustrated. Per la direzione di Riders, il magazine di lifestyle motociclistico, il ceo di Milano Fashion Library Diego Valisi ha scelto Roberto Parodi. La nuova direzione del magazine di lifestyle metropolitano Urban, è invece affidata a Marco Cresci. A Entertainment Illustrated arriva invece Peter Cardona. «In questo importante momento di rinnovamento della Casa Editrice», ha detto Valisi, «non posso non ricordare con affetto e stima Valerio Venturi, scomparso lo scorso 8 febbraio e fino a quella data direttore responsabile di Entertainment Illustrated e augurare a Moreno Pisto, che ha collaborato negli ultimi anni con Milano Fashion Library in qualità di direttore responsabile di Riders e Urban, i migliori successi». Lega Serie A, Micciché eletto presidente all’ unanimità. L’ assemblea della Lega Calcio ha nominato Gaetano Micciché nuovo presidente. Il presidente di Banca Imi succede a Maurizio Beretta che ha guidato la Lega per due mandati, fino a marzo 2017. Poi la Confindustria del calcio è stata commissariata una prima volta da Carlo Tavecchio, ex presidente della Figc, e successivamente da Giovanni Malagò. Facebook nel mirino dell’ Ue per uso improprio dei dati. Il fronte che vede Facebook nell’ occhio del ciclone per l’ uso improprio dei dati dei suoi utenti si allarga a macchia d’ olio, dagli Usa fino a toccare i vertici dell’ Unione Europea. Le autorità dell’ Ue hanno detto che potrebbero avviare un’ indagine su come Facebook gestisce i dati degli utenti, dopo che il social media ha detto che una società collegata con la campagna elettorale di Donald Trump, Cambridge Analytica, ha impropriamente tenuto per anni questi dati, invece di distruggerli come previsto.
Tv, la sfida è nella distribuzione
Italia Oggi
MARCO A. CAPISANI
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Il futuro della televisione? Sarà in mano alle emittenti che sapranno aggregare più contenuti e distribuirli dalle proprie piattaforme, piuttosto che ai canali che decideranno di operare on demand o a quelli che punteranno su un flusso lineare o ancora rispetto a chi opterà per un modello a pagamento o gratuito. È il motivo per cui un produttore di contenuti del calibro di Disney capitalizza poco più di un terzo del valore complessivo di un social network come Facebook (rispettivamente 152 miliardi di dollari e oltre 500 mld di dollari, ossia 123 miliardi di euro e più di 405 mld di euro). Tra l’ altro proprio il colosso di Topolino correrà ai ripari con il lancio di una piattaforma streaming di proprietà nella seconda parte del 2019. Ma la concorrenza tra produttori di contenuti e distributori (sulla falsariga di quello emerso in altri settori suddivisi tra servizi e infrastrutture di proprietà, dalle ferrovie fino alle tlc, in Italia per esempio con la discussione dello scorporo della rete Tim) ha portato anche un colosso come il produttore tv Sky a presentare sul mercato Sky Q, un media centre che oltre alla programmazione dell’ emittente satellitare, per l’ appunto, distribuisce il servizio di Netflix. In particolare è l’ Europa che conferma l’ importanza della sfida ed è sul Vecchio continente che il duello si è fatto più agguerrito, perché non riguarda tanto o solamente la distribuzione a pagamento di canali che già in partenza sono pay, ma soprattutto si è concentrato sullo sforzo delle emittenti in chiaro di farsi pagare anche la distribuzione dei canali in chiaro. In Francia, per esempio, è da oltre due anni che la battaglia va avanti col canale generalista Tf1 del gruppo Bouygues che ha combattutto da solo sia contro tutti i principali operatori delle telecomunicazioni (come Sfr e Orange, che distribuiscono i contenuti tv free ai loro abbonati) sia contro emittenti come Canal+ del gruppo Vivendi-Bolloré (che include l’ offerta Tf1 nel suo box). La battaglia ha ripercussioni in tutta Europa dove, trasversalmente ai paesi, non si parla più di «commissione di ritrasmissione» quanto piuttosto di «acquisto di prodotto», definizione più ampia proprio per affermare l’ idea che venga pagato qualsiasi tipo di contenuto si voglia distribuire, sia che nasca a pagamento sia soprattutto che sia stato inizialmente pensato free. L’ acquisto di prodotto è un po’ quello che aveva ipotizzato Tim (oggi guidata dall’ a.d. Amos Genish) con l’ operazione da oltre 400 milioni sui contenuti anche gratuiti da Mediaset, nella cornice dell’ intricato scontro tra il Biscione e Tim (di cui il primo azionista intorno al 25% è Vivendi di Vincent Bolloré). All’ origine del contenzioso: il mancato acquisto della pay tv tricolore Premium. In Italia, peraltro, non sembra esistere un modello univoco di pagamento per la cessione di contenuti, visto che alcune emittenti confezionano solo contenuti free alla Mediaset e vogliono monetizzarli tutti mentre altre alla Discovery creano per terzi pacchetti a pagamento coi canali pay a cui si aggiungono quelli gratuiti. Ulteriore precisazione: per lo stesso motivo, quello di farsi pagare canali nati free, nel settembre 2015 Mediaset della famiglia Berlusconi era uscita dal bouquet Sky di Rupert Murdoch. Insomma, un tema complicato di rapporti di forza tanto quanto lo sono i legami societari che in un solo gruppo accorpano oggi i canali tv che si vogliono far pagare e gli operatori delle tlc, a cui viene chiesto di pagare. Un esempio? Lo fornisce sempre il mercato francese dove Tf1 ha dichiarato guerra non solo all’ ex monopolista di stato Orange (in mano al veterano del settore Stéphane Richard) ma anche alla stessa Bouygues Télécom guidata da Martin Bouygues (editore di Tf1). Inoltre, la prima a cedere alla tv guidata da Gilles Pélisson è stata Sfr del gruppo tlc Altice, che fa capo a Patrick Drahi. Però, dopo che Sfr ha dovuto pagare Tf1, la divisione media di Altice ha deciso di riprendersi la rivincita chiedendo a Bouygues Télécom il conto per la distribuzione dei propri contenuti. Tralasciando che alle rivendicazioni di Tf1 si è aggiunta anche un’ altra tv contro le tlc, M6, dopo Sfr, Orange e Bouygues, Tf1 sta duellando adesso con Free di Xavier Niel (il rompiscatole delle tlc transalpine, come lo definisce la stampa francese, e arcinemico di Martin Bouygues, nonché prossimo allo sbarco in Italia). Ma soprattutto l’ emittente tv è ai ferri corti con Canal+ diretta da Maxime Saada. In un’ escalation di contraccolpi, quest’ ultima ha deciso di spegnere i contenuti di Tf1 sul suo decoder. È dovuto intervenire persino il ministro della cultura Françoise Nyssen, che ha richiamato «tutti i protagonisti alla responsabilità». Qualche giorno fa c’ è stata una svolta quando Canal+ ha messo fine all’ oscuramento e ha iniziato a ritrasmettere repliche di trasmissioni targate Tf1. Segnali di pace seppur di una pace ancora lontana. Infatti, stando a indiscrezioni di mercato, la tv a pagamento di Bolloré vuole tirare la querelle per le lunghe, fino a quando verrà approvata la nuova legge sull’ audiovisivo. Nel frattempo, l’ attività di lobbying è partita. C’ è da dire però che Tf1 ha già portato a casa un risultato, concreto e quantificabile in oltre 50 milioni di euro: è l’ ammontare totale di quanto hanno pagato finora gli operatori tlc scesi a patti. Poco, secondo alcuni analisti visto che l’ obiettivo iniziale dichiarato da Tf1 era a quota 100 milioni. Ma la filosofia di Pélisson è che «ognuno deve mostrare i muscoli» e per quanto possibile «ogni società deve sfruttare i propri asset».
Commissioni di garanzia Per la Vigilanza Rai il Pd tenta la carta Boschi
La Stampa
FABIO MARTINI
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È una delle novità più paradossali del dopo-voto: ogni giorno il Palazzo è investito da una nuova folata, da uno scenario di governo diverso da quello del giorno precedente. Ieri è stata la volta dello schema ribattezzato dei “due consoli” – Matteo Salvini presidente del Senato e Luigi Di Maio presidente della Camera – e oggi sicuramente affiorerà nei pourparler un nuovo schema di gioco, se non capovolto almeno molto diverso rispetto a quello del giorno prima. E domani, idem. È lo scotto fisiologico di elezioni e di una legge elettorale che non hanno individuato una maggioranza e dunque il dopo-voto scorre confusamente alla giornata, in vista delle prime sedute di Camera e Senato, previste per la giornata di venerdì. Nei decenni scorsi, di solito quando erano passati 15 giorni dalle elezioni, erano stati definiti gli schemi di gioco per la conquista delle principali caselle parlamentari. E dunque presidenti delle due Camere, ma anche presidenze delle Commissioni strategiche, quelle spesso decisive per l’ iter parlamentare: Affari costituzionali, Bilancio. Ma anche la ripartizione di due Commissioni delicate, assegnate alle opposizioni: il Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi) e la Commissione di Vigilanza Rai. «Ma stavolta – spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti, neodeputato del Pd – non sappiamo ancora chi sarà maggioranza e chi sarà opposizione e dunque occorre attendere la nascita del governo. Le Commissioni parlamentari, non a caso, vengono formate sempre dopo la nascita dei governi e anche stavolta si seguirà questa procedura». L’ evanescenza degli scenari tiene indefinite anche le caselle che spettano alle opposizioni, ma nei conversari di queste ore rimbalzano le prime ipotesi. Se il Pd dovesse restare all’ opposizione, aspirerà alla presidenza di almeno due delle Commissioni di «garanzia». Se Matteo Renzi avrà conferma della sua «tenuta» nel partito e nei Gruppi, in prima battuta – trapela dal Nazareno – potrebbe chiedere due posti al «sole» per i personaggi che in questi anni gli sono restati al fianco senza se e senza ma: Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Personalità diverse: ambiziosa e attenta ai riflettori Boschi, molto più appartato Lotti. Due identikit che – si dice – corrispondono a due incarichi: Vigilanza per Boschi, Copasir per Lotti. Anche se gli assetti incerti dentro il Pd e dentro i suoi gruppi rendono complicato un «en plein». Ce rto, negli ultimi 20 anni la Vigilanza Rai è andata sempre ad un esponente dell’ opposizione: quando Romano Prodi v inse per la prima volta le elezioni con l’ Ulivo nel 1996, la presidenza della Vigilanza andò a Francesco Storace, di An, che guadagnandosi il nomignolo di “Epurator”, ne fece un trampolino per la successiva escalation politica da governatore del Lazio e da ministro della Salute. Commissione-trampolino anche per altre carriere importanti: Claudio Petruccioli la guidò prima di diventare presidente della Rai; e anche Paolo Gentiloni l’ ha presieduta prima di diventare per la prima volta ministro delle Comunicazioni e successivamente degli Esteri. Postazione decisamente più appartata quella del Comitato per i servizi ma anche poltrona più delicata e decisamente più di potere. Non a caso il Comitato è stato presieduto da ex leader di partito, come Francesco Rutelli e da presidenti del Consiglio come Massimo D’ Alema. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
Diritti tv, i dubbi di Mediapro “Blocchiamo i pagamenti”
La Repubblica
MARCO MENSURATI
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Nel giorno dell’ elezione di Micciché alla presidenza della Lega, gli spagnoli vincitori dell’ asta chiedono il rinvio del primo bonifico da 50 milioni previsto per martedì. I piccoli club nel panico: devono pagare stipendi e scontare fatture ROMA Mediapro, a sorpresa, fa un passo di lato; e adesso la Serie A rischia di finire i soldi. Nel giorno dell’ incoronazione di Gaetano Micciché alla presidenza della Lega, una lettera firmata da ” Mediapro italia srl” gela il sangue nelle vene dei presidenti e dei loro irascibili contabili, aprendo uno scenario da armageddon in seno alla Confindustria del pallone, proprio quando, tra nuovo statuto e nomina del presidente, la situazione sembrava decisamente migliorare. Nel documento, Mediapro chiede infatti di « sospendere i termini » del pagamento di quanto offerto (un miliardo, cinquanta milioni e mille euro) il giorno dell’ apertura della busta della gara per l’ intermediario unico. Motivazione? Nella delibera Antitrust del 14 marzo l’ ultima, quella che di fatto determinava l’ accettazione dell’ offerta da parte della Lega – l’ autorità delimitava il campo d’ azione di Mediapro circa due temi che gli spagnoli, evidentemente, considerano cruciali: quello della composizione finale dei pacchetti da rivendere ai broadcasters; e quello relativo alla pubblicità nei medesimi pacchetti. « Prima di pagare, vorremmo chiarire», fanno sapere oggi gli spagnoli. Inutile dire lo sgomento che la missiva ha generato. Gli argomenti usati per chiedere di non pagare non sono proprio convincenti ( i primi a festeggiare, dopo la delibera Antitrust erano stati proprio la Lega e il suo advisor, Infront, che avevano definito il provvedimento « di una chiarezza sconcertante »). Ma le casse dei club – specialmente dei più piccoli – piangono. E molti presidenti facevano e fanno tuttora affidamento sui 50 milioni (2,5 milioni a club) che gli spagnoli devono versare entro martedì prossimo, come anticipazione, per scontare le fatture e pagare gli stipendi. Ma cosa è successo? Perché questa improvvisa richiesta? Le teorie in assemblea sono le più varie. La più gettonata è quella che parla di una strategia: Mediapro ha sempre dichiarato che il suo vero obbiettivo è quello di fare il canale di Lega, da subito; e di considerare ” un’ ipotesi subordinata” quella del semplice intermediario ( ruolo al quale invece la vincola la delibera Antitrust). La strategia sarebbe dunque quella di affamare il calcio italiano per “costringere” i presidenti a ripiegare sul Canale. E questo spiegherebbe il perché della richiesta di un incontro urgente con cui si chiude la missiva. Un’ altra teoria vuole invece che Mediapro – che la prossima settimana incontrerà Unicredit e Intesa – non ha ancora trovato i soldi per la fideiussione da 1,3 miliardi che deve essere presentata entro il 6 aprile. A nessuno sfugge che una teoria non esclude l’ altra. Per questo lo scenario appare quanto mai grave, e per questo Giovanni Malagò ( Micciché non è ancora esecutivo) sta valutando con crescente attenzione la lettera inviatagli da Sky all’ inizio di marzo nella quale l’ emittente satellitare faceva sapere di essere certa che, con una nuova asta, stavolta non per piattaforma ma per esclusive, la Lega potrebbe comodamente arrivare a intascare un miliardo di euro. La risposta della Lega per il momento sarà comunque molto istituzionale, almeno stando a quanto si è stabilito ieri dopo la lettura della missiva. Qualcosa tipo: per noi il contratto è chiuso e quindi dovete pagare. Poi siamo a disposizione per qualunque chiarimento. Ma solo a bonifico ricevuto. © RIPRODUZIONE RISERVATA Una famiglia legata al Palermo Gaetano Miccichè, 68 anni, da ieri nuovo n.1 di Lega Serie A, è il fratello del vicepresidente del Palermo.
L'articolo Rassegna Stampa del 20/03/2018 proviene da Editoria.tv.