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Sassoli: “Pubblicità, i Fake Data fanno male editori e big del web si uniscano per fermarli”
Per chi suona la playlist la Sfida dello streaming si combatte in borsa
Rai Pubblicità il voto blocca la successione a Piscopo
Sassoli: “Pubblicità, i Fake Data fanno male editori e big del web si uniscano per fermarli”
Affari & Finanza
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IL PIL CRESCE IN MODO INSUFFICIENTE. PER IL PRESIDENTE DELL’ UPA ALL’ ITALIA SERVONO TRE COSE: “PIÙ INFRASTRUTTURE, NUOVE REGOLE CHE VALGANO ANCHE PER LE TECH COMPANY E ATTENZIONE DA PARTE DEI GOVERNI”. IL MERCATO HA BISOGNO DI PIÙ TRASPARENZA Stefano Carli «S arà ancora un anno di crescita minima: stimiamo che alla fine di questo 2018 il totale degli investimenti pubblicitari in Italia sarà cresciuto appena di un 1%. Ed è un dato preoccupante perché l’ economia mondiale è in una fase di crescita, lo stesso Pil italiano è stato di recente rivisto al rialzo, le imprese italiane sono in buona salute. Ma il Paese è fermo. E a testimoniarlo sono i consumi: al 4 di marzo, proprio mentre si votava, le vendite della grande distribuzione hanno evidenziato un calo, da inizio anno, del 2,82%. Un rallentamento così non si verificava dall’ inizio delle grande crisi». Lorenzo Sassoli de Bianchi lancia l’ allarme Paese: il presidente dell’ Upa, l’ associazione degli investitori pubblicitari, che raccoglie dai giganti mondiali del largo consumo ai piccoli marchi nazionali è preoccupato. Anche del fatto che il Paese si ritrovi con un governo difficile da comporre proprio mentre ci sono grandi decisioni da prendere. «Quando c’ è da gestire passaggi epocali come quelli che stiamo vivendo, anzi, più che altro un vero e proprio cambio di epoca, la routine dell’ ordinaria amministrazione non può bastare». D’ accordo, i consumi calano, ma il Pil cresce: non potrebbe essere solo una crisi di fiducia dei consumatori? «No, non lo credo. Perché il Pil cresce solo grazie alle esportazioni. Alle aziende che vendono all’ estero. La globalizzazione, l’ internazionalizzazione hanno dato una forte spinta alle aziende italiane più dinamiche. Ma quando hai a disposizione come mercato il mondo intero puoi anche disinteressarti dell’ Italia. O, detto meglio: una media impresa italiana, o anche piccola, che fa export, si comporta come una multinazionale. Quello che deve investire in comunicazione lo punta sui mercati più dinamici perché lì l’ investimento rende di più. E se l’ Italia non è in quel novero, le conseguenze sono evidenti: il fatturato pubblicitario, alla lunga, cala». E’ la mancanza di un governo al momento sbagliato, quindi? «Non solo. E’ piuttosto uno stato di prolungata mancanza di risposte da parte delle istituzioni che non sembrano essersi accorte dei cambiamenti drammatici in atto. A livello politico, e non solo italiano, in due anni abbiamo avuto Brexit, Trump e i 5 Stelle. Le pare poco? Nel mondo dell’ economia, dei media e dei consumi, in pochissimi anni abbiamo avuto la tecnologia uscita dai pc e entrata negli smartphone, la digitalizzazione di massa e ora l’ intelligenza artificiale. La stessa internet è cambiata: stiamo passando dal web-archivio, in cui in Rete si ammassano dati, al “web oracolare”, in cui quei dati vengono elaborati in modo tale da poter in qualche modo “predire” il nostro futuro. Una specie di informazione predittiva. Il cambiamento è immenso. Tutto questo va gestito, guidato. Serve un approccio consapevole e sistemico». E le istituzioni latitano? «Purtroppo sì. Un esempio? La banda ultralarga: siamo al 74esimo posto nel mondo e al 28esimo in Europa. Lo diciamo da anni ma senza risultati. Un altro esempio, la sconfitta sull’ Agenzia Ue del farmaco». Ma lì almeno la città ha lavorato molto. «Milano sì, ma il governo no: queste sono partite che deve seguire direttamente il premier, non affidarla a un sottosegretario. Sono cose che a Bruxelles si notano. Vede, le guerre commerciali ci sono sempre state, nel breve periodo avranno effetti ma la globalizzazione è più forte. Per dire: i tedeschi troveranno comunque un modo per vendere le loro auto negli Usa. Questa è la differenza con noi». Non ci basta l’ ombrello europeo? «Su molti casi sì. Per esempio: a maggio entrerà in vigore la Gdpr, la General Data Protection: le nuove norme sulla protezione dei dati personale. L’ e-commerce, altro aspetto per cui siamo in fondo alla classifica europea, ha dimostrato che servono regole che diano trasparenza a questo grande mercato che viaggia sul web e che per funzionare ha bisogno di garantire sicurezza ai dati che lo alimentano. Serve sicurezza per i consumatori, per le aziende, per i marchi. L’ uso fraudolento dei nostri dati personali, la collocazione dei marchi delle aziende in contesti inappropriati rischia di bruciare valore costruito in anni. Pure qui siamo davanti a un altro passaggio epocale. Dobbiamo passare dai Big Data agli Smart Data». Che cosa significa? «Che gli utenti, i consumatori, non devono più esser solo contati, quantitativamente, ma contattati, qualitativamente». Quindi il problema non è solo delle fake news ma anche i fake Like o i fake Followers? «Il problema sono i Fake Data. Per combatterli serve innovazione e trasparenza, responsabilità e nuove regole, professionalità. Noi abbiamo promosso e realizzato, con la Fieg, gli editori, e con gli altri protagonisti del nostro mondo, un Libro Bianco sulla Comunicazione Digitale. Una via per elaborare un punto di vista comune e condiviso su temi chiave quali la misurazione della visibilità e dell’ efficacia della pubblicità, la trasparenza di spazi e flussi finanziari, la tutela dei dati,il contrasto delle frodi pubblicitarie legate all’ uso delle tecnologie. E’ stato un lavoro molto completo. Ce lo stanno richiedendo anche dall’ estero, lo abbiamo appena tradotto in inglese. Segno che abbiamo intercettato un’ esigenza comune di tutto il mercato». E come reagiscono i protagonisti: dagli investitori agli editori fino alle web company? «Gli editori hanno imparato molto dalla “traversata nel deserto” della rivoluzione digitale. Si stanno trasferendo in quel mondo, stanno imparando a gestire il cartaceo accanto al digitale. Sono sulla strada giusta quando investono nella professionalità dell’ informazione, che è un fattore chiave in questo sforzo verso la trasparenza e la responsabilità. Ed è importante che stiamo lavorando tutti assieme perché la strada da fare è ancora molta e i cambiamenti da affrontare non pochi. E’ di questi giorni la notizia che Apple ha acquisito un distributore online di periodici ( Texture è una piattaforma digitale per la distribuzione di testate tradizionali, definita “la Netflix delle riviste” e creata da editori come Condé Nast Nast e Hearst, ndr ). E’ un ulteriore avvicinamento da parte degli Ott al mondo dell’ informazione, dopo che Amazon ha acquisito il Washington Post. Si andrà verso aggregazioni, ma non verso il depotenziamento dell’ informazione». E le web company, che ancora faticano a rendere noti i loro dati sul mercato pubblicitario? «Abbiamo tavoli aperti di confronto con sia con Google che con Facebook. Ma ci sono difficoltà oggettive da parte loro, direttive che vengono dagli headquarter oltre Atlantico. Ma stanno comprendendo anche loro l’ esigenza di traspaprenza. E ci stanno lavorando». © RIPRODUZIONE RISERVATA Il presidente dell’ Upa Lorenzo Sassoli de Bianchi.
Per chi suona la playlist la Sfida dello streaming si combatte in borsa
L’Economia del Corriere della Sera
MARIA TERESA COMETTO
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Riuscirà Spotify, il Davide della musica in streaming, a tener testa ai Golia, ovvero ai giganti dell’ hi tech Apple, Google (ora Alphabet) e Amazon? Dipenderà anche dal suo debutto a Wall Street, previsto entro marzo o al massimo all’ inizio di aprile, con una modalità inusuale: senza l’ emissione di nuove azioni per raccogliere capitali freschi, ma solo con la quotazione diretta delle azioni già esistenti. Si vedrà subito quindi se il mercato valuta la società svedese tanto quanto gli investitori privati -22,6 miliardi di dollari secondo l’ ultima transazione – o se è scettico sul suo modello di business. Un modello fin dalle origini tutto incentrato sull’ offerta della musica in streaming e on demand , lanciato da Spotify nel 2008 quando iTunes, il negozio online di Apple, dominava il mondo della musica digitale, ma solo con la vendita di singole canzoni o album da scaricare. L’ unico altro importante operatore a quell’ epoca era Pandora, definita però più precisamente come una radio Internet, con cui un utente può personalizzare i propri canali ma non ascoltare brani scelti da lui. Il precedente di Pandora come matricola alla Borsa di New York non è incoraggiante: oggi le sue azioni costano 5 dollari, meno di un terzo dei 16 del prezzo dell’ Ipo del 15 giugno 2011. Il motivo è che Pandora ha troppo pochi utenti paganti (solo 5,5 milioni), e gli introiti pubblicitari che dovrebbero finanziare il servizio gratuito non sono abbastanza a fronte della spesa per le royalty richieste dalle case discografiche. Spotify, fondata in Svezia nel 2006 fa Daniel Ek, che oggi ne è l’ amministratore delegato, e da Martin Lorentz – che con il sistema delle azioni privilegiate manterranno l’ 80,4% dei diritti di voto sulla società – deve affrontare un problema simile, proprio mentre la guerra sulla musica in streaming si intensifica. Nelle prossime settimane infatti è atteso il lancio di Remix, un nuovo prodotto di YouTube (che appartiene a Google), che di fatto è il più grande servizio di musica in streaming al mondo, perché 1,3 miliardi di persone usano la sua piattaforma per ascoltare musica gratis. Remix, secondo le indiscrezioni trapelate, sarà un mix fra Google play music (audio streaming on demand ) e YouTube red (video senza pubblicità), che introdotti sul mercato rispettivamente nel 2011 e 2016 non hanno finora riscosso un grande successo. Spotify oggi ha la base di abbonati paganti più ampia al mondo: 71 milioni contro i 38 di Apple music e i 16 di Amazon, mentre Google non dichiara i suoi. Ma deve far fronte all’ incalzare dei rivali, mentre l’ 80% dei suoi ricavi se ne va in royalty e i conti restano in profondo rosso: 1,5 miliardi le perdite nette 2017, il doppio dell’ anno precedente, a fonte di un fatturato di 5 miliardi. Oltretutto una recente sentenza negli Stati Uniti ha dato ragione agli autori dei brani, aumentando le loro royalty da streaming di quasi il 50% nei prossimi cinque anni, il maggior rialzo mai accordato finora. La scommessa di Spotify è convincere i suoi altri 90 milioni di utenti – quelli che ascoltano la musica gratis, con i messaggi pubblicitari a intervallare le playlist- ad abbonarsi e pagare. Allo stesso tempo non può rincarare il prezzo di 9,99 euro (o dollari) al mese, che è lo stesso proposto da Apple e Google, e anzi incassa per ogni abbonato meno della rivale diretta, Apple, la quale trattiene il 30% dei proventi delle app come Spotify usate attraverso il suo App store. Apple ha anche un vantaggio «monopolista», perché sugli iPhone e su tutti gli altri suoi apparecchi è installata di rigore la propria app. Ecco perché in America Apple music, lanciata nel giugno 2015, starebbe crescendo a un ritmo superiore di Spotify (più 5% di utenti paganti al mese contro il 2%, secondo stime di mercato) e presto dovrebbe superare il numero di abbonati della società svedese. È in forte crescita anche il servizio di musica in streaming di Amazon, lanciato poco più di un anno fa: costa solo 7,99 euro o dollari al mese per chi sottoscrive Prime – il pacchetto che comprende dalle consegne gratis a domicilio della merce comprata sul portale alla visione gratuita di un’ ampia gamma di film e telefilm – e la cifra scende a 3,99 euro per chi ascolta musica tramite Echo, l’ altoparlante intelligente della stessa casa. L’ esplosione della guerra sulla musica in streaming ha avuto come effetto positivo una ripresa dell’ industria discografica dopo quindici anni di declino. Nel 2016 (ultimi dati disponibili) il suo fatturato globale è cresciuto del 5,9% a 15,7 miliardi di dollari proprio grazie al boom, della musica in streaming, cresciuta del 60%. Le case discografiche sostengono che la crescita sarebbe ancor maggiore se non fosse per le piattaforme gratuite come YouTube, che secondo loro non pagano abbastanza i musicisti. Sono quindi determinate a chiedere più royalty. E qui sta il nodo. YouTube, Apple e Amazon possono permettersi di pagare di più per i diritti agli autori e mantenere in perdita i loro servizi in streaming, perché la musica non è il loro core business, ma solo uno strumento per vendere altri prodotti e fidelizzare la clientela. Spotify, invece, deve chiedersi se e come diversificare la sua offerta, magari con la vendita di biglietti e il marketing di concerti musicali. Negli scorsi giorni, intanto, la app svedese ha dovuto bloccare gli account pirata che usufruivano gratis dei suoi servizi. E una volta sotto i riflettori di Wall Street, il «Davide» Ek dovrà convincere gli investitori che la sua sfida a Golia non è velleitaria.
Rai Pubblicità il voto blocca la successione a Piscopo
Affari & Finanza
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Stefano Carli Risultato elettorale paralizzante a Viale Mazzini. Si attendeva l’ esito del voto per nominare il nuovo ad di Rai Pubblicità al posto di Fabrizio Piscopo, uscito prima di Natale. Si sussurra di un identikit di candidato ideale in stile Patto del Nazareno, ossia renziano ma gradito ad Arcore, che avrebbe dovuto ritirar sù i prezzi degli spot sulle reti Rai che, tagliati da Piscopo con una politica di forti sconti, hanno creato non pochi risentimenti dalle parti di Publitalia. Ma visto il risultato dei due “partiti di riferimento”, nomi e candidature sarebbero spariti rapidamente. Rai Pubblicità resta affidata ad interim ad Antonio Marano, che ne era ed è tuttora il presidente. Perfetto, si direbbe: Marano è in quota Lega. Peccato che sia però un “maroniano” e non un “salviniano”. Tutto fermo, allora. E forse qualcuno, non a Roma, potrebbe pensare che non sia un gran male. Una Rai Pubblicità acefala non potrà fare più danni di prima. © RIPRODUZIONE RISERVATA Antonio Marano.
L’ altra metà del giornalismo
La Repubblica
ANNA LOMBARDI
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Intervista di NEW YORK C’ è anche un giudice della Corte Suprema americana nella lunga lista di persone accusate di molestie: l’ ultraconservatore afroamericano Clarence Thomas. Una storia vecchia di vent’ anni: che proprio per questo merita di essere ritirata fuori». E lei, Jill Abramson, 63 anni, l’ ex direttrice del New York Times il cui licenziamento nel 2014 sollevò aspre polemiche per il trattamento riservato alle donne in ruoli di comando, lo ha scritto a chiare lettere sulla copertina del settimanale New York: #HimToo, anche lui. Al caso Thomas nel 1993 aveva dedicato un libro intitolato Strange Justice, strana giustizia, con la collega Jane Mayer. Oggi Abramson insegna giornalismo ai trenta migliori studenti del corso di Harvard, racconta l’ America attraverso una rubrica sul Guardian e ha appena finito di scrivere un libro: sull’ impatto dei media negli ultimi dieci anni. Nel 1991 le accuse di molestie rivolte da Anita Hill al giudice Thomas spaccarono l’ America. Perché ripescare oggi quella storia? «Hollywood, Wall Street, il comitato olimpico: le storie delle pessime abitudini degli uomini di potere sono ovunque. Il coraggio delle donne del #MeToo ha cambiato la sensibilità. All’ epoca Anita Hill non fu creduta: oggi, stimata professoressa di legge, è chiamata a guidare la commissione che indaga sulle molestie a Hollywood». Un riconoscimento tardivo? «Quando 25 anni fa scrissi con Jane Mayer il libro sul suo caso, ero convinta che avesse detto il vero. Ora ci sono nuove prove – compresa una donna che sull’ onda del #MeToo ha raccontato su Facebook le molestie subite da Thomas anni prima – che dimostrano che il giudice fu uno spergiuro» Spera nell’ impeachment? «Non con questa maggioranza al Senato. Ma le scelte di Thomas hanno spesso fatto pendere l’ Alta Corte verso decisioni reazionarie. Responsabilità del giornalismo è tener desta l’ attenzione: anche su un caso vecchio di vent’ anni, che ha però ancora conseguenze sulla realtà». Le cose sono davvero cambiate? «C’ è più attenzione, ma molte donne temono ancora le conseguenze delle loro denunce. La mia generazione, quella che doveva cambiare il mondo, mi ha deluso» Cosa intende? «Ovunque avanzano populismi trainati proprio dalla paura del cambiamento: che sia lo straniero, le nuove tecnologie o la nuova indipendenza femminile. È questo che spinge verso poteri reazionari». La funzione del giornalismo resta efficace anche nell’ era delle fake news? «Il giornalismo di qualità è l’ unica cosa che può ancora inchiodare il potere alle sue responsabilità. La verità è il miglior disinfettante contro gli abusi, di qualunque tipo. La democrazia dipende da questo. Non è un caso che Trump rifiuti le responsabilità che la stampa libera impone e attacca i giornalisti chiamandoli per nome. È riprovevole». Eppure lei scrive sul Guardian che il presidente sta perdendo consensi, soprattutto fra le donne bianche della working class che furono lo zoccolo duro del suo elettorato. «Lo dice un sondaggio dell’ Atlantic: in certi Stati considerati fedelissimi, il sostegno delle donne della working class è in calo perfino di 20 punti. Sono Stati dove alcolismo e abusi domestici sono una vera piaga: ovvio che a queste donne certi atteggiamenti di Trump e di chi lo circonda, penso al segretario Rob Porter, licenziato perché picchiava la moglie, non piacciano. In questo senso credo che le lavoratrici bianche del Midwest potranno fare di più delle attrici in nero del #MeToo». Adesso sta scrivendo un nuovo libro sul giornalismo. «Ho studiato le trasformazioni digitali dell’ ultimo decennio attraverso quattro organizzazioni: il New York Times, il Washington Post, Buzzfeed e Vice. Com’ è cambiato il modo di fare giornalismo e i modelli di business e come l’ avvento di narrazioni sempre più partigiane hanno costretto a serrare le fila». I giornali hanno ancora un futuro? «Sono ottimista. I giornali, anche quelli di carta, sopravviveranno: a patto di svolgere un lavoro di qualità. Qui in America i media impegnati nella ricerca della verità stanno facendo un lavoro incredibile ma il cambiamento è difficile, tanto più con colossi digitali che divorano spazi pubblicitari. A pagare saranno soprattutto i giornali locali». Lei ha fatto la storia come prima direttrice donna del New York Times «Penso di aver fatto un buon lavoro. Venivo dalla gavetta, ero stata caporedattore per otto anni. Ho puntato sul giornalismo investigativo affrontando temi difficili». È stata anche uno dei direttori che è durato meno. Tempo fa scrivendo di Hillary Clinton disse che verso le donne in posizioni di potere si applica un doppio standard. È accaduto anche a lei? «Più in alto arrivano le donne, specie in istituzioni di potere, più il loro gradimento cala: lo dicono molti studi. Tratti della personalità che negli uomini sono considerati elementi di leadership, nelle donne vengono criticati. Ma nel caso del mio licenziamento credo che il doppio standard sia stato solo un fattore. Dissero che non piaceva il mio stile di gestione: non ho mai capito cosa volesse dire, ma penso alludessero al fatto che litigavo col lato affaristico del giornale. Ma ci penso poco: la mia vita è andata avanti». Ma lei, che ha perfino la T del Times tatuata sulla schiena, come vede oggi il New York Times? «Resto una grande fan. E comunque non fa parte della mia etica discutere il lavoro di chi mi ha sostituito. Hanno fin troppi critici in questo momento». Qual è la qualità principale di un giornalista? «La capacità d’ ascolto. Non lo facciamo mai abbastanza. E qualcosa su cui mi misuro continuamente». © RIPRODUZIONE RISERVATA Le molestie del potente giudice Thomas, un cold case riaperto, il #MeToo, l’ informazione ai tempi delle fake news Parla la prima donna ad aver diretto il “New York Times” I populismi sono trainati dalla paura del cambiamento: che sia lo straniero o l’ indipendenza femminile I media impegnati nella ricerca della verità combattono con colossi digitali che divorano spazi pubblicitari CONTRASTO L’ immagine Jill Abramson (New York, 1954) è una giornalista e scrittrice ex direttrice del New York Times.
L'articolo Rassegna Stampa del 19/03/2018 proviene da Editoria.tv.