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Rassegna Stampa del 10/09/2017

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Indice Articoli

“Stiamo con Milena Gabanelli”

«La Repubblica» trasloca in Rai

Da Mantova lo sguardo sui conflitti del mondo

Caltagirone Editore l’ opa a sconto diventa un caso in Borsa

Intercettazioni, la nuova «Unità» svela il trucco

VIENI FUORI, CRETINO

L’ hacker rilancia: siete sotto osservazione

«Nel web tutto ha un prezzo»

“Stiamo con Milena Gabanelli”

Il Fatto Quotidiano
Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio
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Milena Gabanelli lavora da 35 anni per la Rai. Negli ultimi 20, fino a pochi mesi fa, ha ideato, animato e condotto Report, fiore all’ occhiello del videogiornalismo di inchiesta, ora affidato ai suoi migliori allievi. Poi le è stato affidato il portale digitale di informazione Rai e vi si è dedicata con la consueta passione e professionalità. Ma quel progetto è rimasto sulla carta, per le incomprensibili (o forse fin troppo comprensibili) resistenze dell’ azienda pagata con i nostri soldi, ma teleguidata dai partiti. Per non dover ammettere di aver cacciato anche lei, ultima di una lunga lista di proscrizione che va dall’ èra Berlusconi all’ èra Renzi, i vertici Rai le hanno fatto una proposta che, per dignità, doveva rifiutare: la condirezione di Rainews24, testata e sito semiclandestini con un pugno di collaboratori scelti da altri. E la Gabanelli, sempre per dignità, si è posta in aspettativa non retribuita: cioè – checchè ne dicano i minimizzatori dei partiti e della stampa al seguito – fuori dalla Rai. Noi pensiamo che qualunque emittente del mondo libero sarebbe orgogliosa di avere Milena Gabanelli tra le proprie file e di metterla in condizione di lavorare al meglio. Il suo nome è uno dei pochi motivi validi rimasti a giustificare il canone e la qualifica di “servizio pubblico” per quello che è sempre più un servizietto privato dei partiti. Negli ultimi anni la Rai ha fatto di tutto per perdere la Gabanelli e alla fine ci è riuscita. Missione compiuta, nel silenzio omertoso di destra, centro, sinistra e dei grandi giornali, che ora giocano a dipingerla come una donna capricciosa e umorale per non chiamare le cose con il loro nome. Siccome noi cittadini siamo i veri proprietari della Rai, vogliamo rompere questo muro di silenzio e di assuefazione, rivendicare il nostro diritto a un’ informazione pubblica libera e indipendente (soprattutto nell’ anno delle elezioni ) e smascherare il giochino di chi tenta di ridurre questo ennesimo scandalo a normale routine burocratica, contrattuale o caratteriale. Perciò lo diciamo forte e chiaro: noi stiamo con Milena Gabanelli e la rivogliamo subito in televisione. Con questo appello, “Il Fatto Quotidiano” lancia una raccolta firme a favore del ritorno in tv della giornalista Milena Gabanelli. Chi vuole sottoscriverlo può farlo da oggi sia sul sito del nostro giornale, ilfattoquotidiano.it, sia sulla piattaforma “Change.org”. Vi chiediamo di condividerlo sulle vostre pagine dei social network e di far girare la voce presso i vostri amici e conoscenti, perché diventi virale e raggiunga il maggior numero di persone che hanno a cuore la libertà di informazione.

«La Repubblica» trasloca in Rai

Libero

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ENRICO PAOLI Per il centenario della Grande Guerra, la Prima guerra mondiale per coloro che hanno poca confidenza con la Storia, la Rai si è limitata a macchiare i palinsesti con pillole di documentari e filmati. Quanto basta per auto assolversi. Ma per celebrare i cento anni dalla rivoluzione Russa, anzi la rivoluzione d’ Ottobre, Viale Mazzini ha pensato bene di fare le cose in grande, ricorrendo alle firme del quotidiano La Repubblica per spiegare agli italiani cosa è successo cento anni fa. Perché quella è tutt’ altra un’ altra storia. E così da martedì 19 settembre Ezio Mauro, ex direttore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari (vuoi vedere che nel programma c’ è pure lui…), su Rai Storia condurrà Cronache di una Rivoluzione. Si tratta di otto puntate, realizzata dal produttore creativo della «Stand by me» Simona Ercolani, ovvero la «regista» delle «Leopolde» di Matteo Renzi, nel corso delle quali Ezio Mauro dipanerà il racconto di «uno dei più significativi avvenimenti del ‘900» che «portarono alla fine dell’ impero russo e alla presa del potere da parte dei rivoluzionari». Tutti argomenti che il giornalista ha già affrontato quest’ estate con una serie di articoli pubblicati proprio sul quotidiano fondato da Scalfari. Di solito per rendere credibile tutto questo si affida il programma a qualcuno che abbia una certa autorevolezza, tipo uno storico, un esperto. No, in Rai, l’ unico riferimento intellettuale è Repubblica e, più in generale, il gruppo l’ Espresso. Perché se non basta l’ ammiraglia si pesca pure nel settimanale. Sarà un caso ma nei palinsesti della tv pubblica spiccano nomi come Concita De Gregorio, Corrado Augias, Tommaso Cerno, direttore de L’ Espresso, l’ onnipresente e onnisciente Marco Damilano, ai quali ora si aggiunge Ezio Mauro. Certo non tutte le esperienze sono state positive. Massimo Giannini, editorialista del quotidiano diretto da Mario Calabresi, ha ballato solo due stagioni alla guida di Ballarò, lasciatogli in dote da Giovanni Floris passato a La7. E come non ricordare l’ esperienza non proprio edificante di Francesco Merlo, firma di punta del giornale scalfariano, al fianco di Carlo Verdelli. Insieme avrebbero dovuto riformare il sistema dell’ informazione. Invece non hanno riformato nulla e sono passati da viale Mazzini come meteore. Costose ma pur sempre meteore. E anche in passato la liason fra Rai e Repubblica è sempre stata forte. Stefano Marroni, attuale vice direttore del Tg2, ha fatto quel percorso. Dal 1985 al 2002 è stato uno degli inviati di punta del politico di Scalfari. L’ ex marito di Bianca Berlinguer, grande professionista, ha lavorato anche a RaiTre per il programma Chi l’ ha visto? e al rilancio dei programmi di musica colta, come Sostiene Bollani. E siccome la Rai non è solo Tv, ma anche Radio il secondo canale dell’ etere ha deciso d’ ingaggiare Gino Castaldo, storico critico musicale del quotidiano romano, per affiancare Ema Stokholma alla conduzione di Back2Back. Insieme accompagneranno gli ascoltatori in un viaggio musicale tra nuove tendenze, grandi classici e racconti dal mondo dello spettacolo. E come lo sanno fare quelli di Repubblica… twitter@enricopaoli1 riproduzione riservata GIORGIO CARBONE Sipario su Venezia 2017. Un festival che ha fatto orrore. In senso buono e cattivo. Quello buono riguarda il film vincitore The Shape of Water di Guillermo Del Toro, gran maestro del film terrificante (è la prima volta che vince a un grosso festival un protagonista mostruoso). E in senso cattivo. Pochi film notevoli. Italiani deludenti. E verdetti discutibilissimi da parte delle belle oche della giuria. THE SHAPE OF WATER Ha vinto il Leone D’ Oro. Il film di Del Toro è persino commovente. Anche troppo. I fan del cinema terrorizzante che s’ apettavano un remake del vecchio Mostro della Laguna nera saranno delusi. Ma non le anime belle. Il film racconta chiaro che i veri mostri sono quelli che fanno gli esperimenti. FOXTROT Leone d’ Argento-Gran Premio della Giuria. È la prova del nove che l’ israeliano Samuel Moaz è un grosso tipo. Lo sapevamo già da quando fece Lebanon guerresco tutto chiuso in un carro armato. Foxtrot è la conferma. Non vorrei sbagliarmi, ma m’ è sembrato una gran brava persona. E un israeliano stufo della guerra. A quando un regista palestinese stufo? TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI Premiato per la sceneggiatura (del regista Martin Mc Donagh). Ma Tre Manifesti era tutto da premiare (film, regia, attori soprattutto). Ma le oche non hanno osato. L’ INSULTO La targa è per l’ attore. Kamel El Basha, attore teatrale palestinese che ha debuttato in cinema, ora, quasi sessantenne. Kamel è bravo, ma il film non era tra i nostri favoriti. Vuoi vedere che le oche han voluto fare un match pari tra Israele (Foxtrot) e Libano? HANNAH L’ unico italiano premiato. Per merito esclusivo di Charlotte Rampling, brava oggi come 50 anni fa. Ma in fatto di interpretazioni femminili «Venezia 74» ha offerto di meglio. Forse Annette Bening e socie han voluto omaggiare più che il film un mostro sacro (Charlotte) del cinema internazionale. SWEET COUNTRY Premio speciale. Meritato. Un western australiano stimolante come spettacolo e come significati. Anche se il regista Warwick Thornton non lo calcoli niente se lo vedi. NICO, 1988 L’ unica soddisfazione italiana italiana della Mostra. Susanna Nicchiarelli, al suo terzo film come regista, ha azzeccato il biopic, vincendo lail concorso «Orizzonti» (una sezione collaterale del festival di Venezia). La Nico del titolo è in realtà Christa Paffegen, cantante dei Velvet Underground e modella tedesca, musa di Andy Warhol. L’ ATTRICE CHE DOVEVA VINCERE Frances Mc Dormand mattratrice dei Tre Manifesti (lo dicevo io che in giuria c’ era qualcuno che le voleva male). L’ ATTORE CHE DOVEVA VINCERE Donald Sutherland al quale probailmente qualcuno ha fatto un brutto scherzo. Nel pomeriggio era tornato al Lido. Il che da sempre è segnale di premio annunciato. Scherzo (se c’ è) di cattivo gusto. Donald meritava veramente la coppa Volpi. Nel film di Virzì è portentoso. Ma Ella & John è stato ostentamente ignorato. Ingiustamente (mentre giustamente hanno glissato sul resto della squadra italiana). IL FILM CHE DOVEVA VINCERE Suburbicon diretto da George Clooney. Probabilmente non serberà un buon ricordo della Mostra 2017. Certamente è la sua miglior regia. Ma il messaggio principale, quello contro l’ America di Trump non è stato recepito. Probabilmente a George avevano detto che Venezia era pieno di antitrumpisti. Sopra, Ezio Mauro. Nei riquadri, Concita De Gregorio e Corrado Augias \ Sopra, Ezio Mauro. Nei riquadri, Concita De Gregorio e Corrado Augias \ Sopra, Ezio Mauro. Nei riquadri, Concita De Gregorio e Corrado Augias \

Da Mantova lo sguardo sui conflitti del mondo

Il Messaggero

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LA KERMESSE MANTOVA Il Festivaletteratura di Mantova, che si tiene dal 1997 sempre sul finire dell’ estate, si conferma un evento di rilievo nel panorama dell’ offerta cultura nazionale, soprattutto in ragione della consueta apertura al mondo. Dallo scorso mercoledì a oggi nelle piazze e nei luoghi cittadini più suggestivi, assecondando una logica policentrica funzionale, la rassegna ha accolto gli oltre duecento eventi in programma con oltre 40mila biglietti venduti nei soli primi tre giorni. «Festivaletteratura sottolinea Marzia Corraini, editore e storica organizzatrice è aperto assolutamente a qualsiasi tipo di stimolo, lo dimostra il programma, ma anche a qualsiasi tipo di tema, dai più letterari a quelli più impegnati sul fronte civile. E credo che fino a ora siano sempre stati trattati senza chiusure, ospitando anche le opinioni di tutti, pure su questioni burrascose. Credo che il pubblico del festival venga qui per incontrare chi direttamente racconta queste cose, per conoscerle meglio e farsi una propria opinione». L’ INTERAZIONE In città si è ripetuta la pacifica invasione di decine di migliaia di persone, un pubblico eterogeneo, diverse generazioni che, oltre all’ ascolto e alla parola scritta, hanno potuto interagire con autori provenienti da tutto il mondo. Fra gli ospiti internazionali della cinque giorni ricordiamo Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana che insieme a Michela Murgia ha attirato un pubblico vasto, attento e partecipe, lo statunitense George Saunders, la giallista Elizabeth George, il cinese Yu Hua, più volte candidato al Nobel e firma del New Yorker, la scrittrice inglese per ragazzi Frances Hardinge, insieme ad Arturo Pérez-Reverte, Richard Mason ed Elizabeth Strout. Decine gli incontri dedicati ai temi della guerra con un autore come l’ inglese Harry Parker, reduce inglese della campagna in Afghanistan, pubblicato in Italia da Sur (Anatomia di un soldato, il titolo) al rapporto Occidente Oriente, la questione dei profughi e le difficoltà dell’ Europa, l’ esito delle cosiddette primavere arabe e la sfida dei diritti di fronte alla progressiva erosione del welfare State, così come l’ abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra, l’ emergenza climatica. L’ Europa in una fase politica, sociale e culturale così doveva essere al centro dell’ agenda della rassegna e lo è stata con scrittori come Martin Pollack, Jan Brokken, Velibor oli. FOCUS SULL’ ASIA Una panoramica importante è stata fatta sul continente asiatico con gli interventi di Kim Thúy, scrittrice naturalizzata canadese fuggita dal Vietnam nella stagione dei boat people, Madeleine Thien, figlia di esuli cambogiani vicina lo scorso anno al Man Booker Prize; Tash Aw, giovane autore britannico di origini malesi ed Eka Kurniawan pubblicato da Marsilio. G.S. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Caltagirone Editore l’ opa a sconto diventa un caso in Borsa

La Stampa
GIANLUCA PAOLUCCI
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L’ ultimo prezzo di Borsa prima dell’ annuncio dell’ opa, l’ 8 giugno scorso, Caltagirone Editore valeva 0,84 euro. Il prezzo offerto dal gruppo Caltagirone per portarla via dalla Borsa è 1 euro per azione. Ma la società vale molto, molto di più. Così il titolo della società che controlla testate come Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino e altre, dopo aver galleggiato per anni nel listino di Piazza Affari è diventato il caso borsistico dell’ estate. Al punto che Caltagirone, che ha il 67%, è stato costretto a prorogare l’ offerta e alzare il prezzo a 1,22 euro per azione. L’ offerta, partita il 24 luglio scorso, doveva concludersi venerdì 8 settembre e andrà avanti invece fino al 18 settembre. Nel mezzo ci sono state polemiche, accuse, esposti alla Consob, qualcuno che se ne è approfittato, qualcuno che non si è capito cosa ha fatto e tanti acquisti su quel titolo fino alla primavera dimenticato, che è arrivato a quotare fino a 1,5 euro. A comprare fino a far esplodere il caso sono stati anche una serie di fondi attivisti. Come Amber, che è accreditato di un 5,5% ma che avrebbe continuato ad acquistare e avrebbe rastrellato una quota di poco inferiore al 10%. Il punto di partenza è però che quel titolo dovrebbe valere molto di più. Dentro a Caltagirone Editore, oltre ai giornali, ci sono anche un pacchetto di azioni Generali (circa 80 milioni), una marea di cassa (oltre 150 milioni) e pochi debiti. Solo quello che è immediatamente liquidabile (cassa e titoli Generali, meno i debiti) vale 216 milioni di euro, pari a 1,76 euro per azione. Ma nella società c’ è anche altro. La voce «immobili, impianti e macchinari» ad esempio è in bilancio ad un costo storico di 180 «attualizzato» a 42 milioni. Poi ci sono 47 milioni di crediti fiscali e le testate giornalistiche, valutate 250 milioni ma con una nota nella relazione degli amministratori che spiega come potrebbero valere anche di più. Secondo i dati dell’ ultimo bilancio, il patrimonio netto è di 472 milioni di euro, pari a 3,85 euro. Certo, lontano dai 18 euro della quotazione, nel luglio del 2000. Erano gli anni del boom della new economy e l’ editoria tirava. Ma è lontano anche dagli 1,22 euro dell’ opa. Ora, guardando la cosa dal lato di Caltagirone, va riconosciuto che il prezzo offerto è molto più alto dei prezzi di Borsa. Un anno fa toccava i minimi a 0,66 euro. Il nuovo prezzo rappresenta un premio del 50% rispetto all’ ultimo mese prima dell’ annuncio e poco meno del 60% rispetto alle medie dell’ ultimo anno. Ma evidentemente non basta, perché malgrado una frenata delle quotazioni negli ultimi giorni, il prezzo in Borsa resta più alto (1,29 venerdì). «Siamo ancora lontani», dice uno degli investitori che spinge per il rialzo dell’ offerta. Poi ci sono le domande: gli amministratori indipendenti che hanno giudicato «congrua» l’ offerta di 1 euro cosa diranno di un prezzo aumentato del 22%? E l’ ad della società, Albino Majore, che lunedì scorso ha venduto un piccolo pacchetto di titoli sul mercato a 1,48 euro, con una operazione perfettamente legittima ma con ben pochi precedenti per l’ ad di una società sotto opa da parte dell’ azionista di controllo, perché lo ha fatto? E da ultimo ci sono i precedenti, ovvero le opa dello stesso gruppo Caltagirone sulle controllate Vianini Industria e Vianini Lavori. Su quest’ ultima, dopo l’ opa a 6,8 euro, è arrivato un dividendo straordinario di 7,3 euro ai soci che non avevano aderito. In quell’ occasione gli advisor «erano la stessa Leonardo & Co e il professor Enrico Laghi, chiamati ora ad esprimersi dalla società e dai consiglieri indipendenti della stessa, sulla congruità dell’ Opa di 1 euro. Su Vianini Industria, delistata nel 2016, c’ è una causa intentata da alcuni ex soci ed è in corso un procedimento sanzionatorio da parte della Consob. Per avere successo e portare al delisting, Caltagirone dovrà raggiungere il 90% del capitale. Ma l’ obiettivo appare ancora lontano. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.

Intercettazioni, la nuova «Unità» svela il trucco

La Verità
FABIO AMENDOLARA
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Su alcuni punti fa retromarcia, ma la riforma che asfalta l’ inchiesta Consip e risolve i problemi a babbo Tiziano Renzi si farà. Dopo il polverone sollevato dalla bozzaccia di decreto legge, che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha inviato ad alcuni capi delle Procure, sentito dal quotidiano Repubblica il Guardasigilli ha aggiustato il tiro: «Non sarà questo il testo finale», destinato ad approdare in Consiglio dei ministri entro il 3 novembre. E lascia intendere che sui riassunti delle intercettazioni ci sarà una marcia indietro. Orlando però glissa totalmente sull’ impatto che le sue idee avranno sull’ indagine che coinvolge il Giglio magico. Punto fondamentale della riforma è quello che limita l’ uso dei virus Trojan, captatori informatici che permettono di spiare i cellulari. Ovvero lo strumento con cui a Napoli sono state raccolte le prove d’ accusa a carico di babbo Renzi. È la voce ufficiale del Pd, ossia Democratica, il giornale nato sulle ceneri del quotidiano l’ Unità, a far sapere come la pensa il partito di governo. E lo fa con un articolo di Annalisa Chirico, ex compagna di Chicco Testa e fondatrice del movimento garantista Fino a prova contraria. Quasi in coda all’ articolo, la giornalista arriva al caso Consip e alle «disinvolture», così le definisce, con cui avrebbe agito la Procura di Napoli per intercettare con i Trojan Alfredo Romeo, l’ imprenditore al centro dell’ inchiesta. «Da quella sorveglianza onnipervasiva, dai colloqui telefonici e ambientali di Romeo quotidianamente sotto osservazione», sostiene la Chirico, «si è innalzato il castello di accuse targato Consip». Quelle intercettazioni hanno portato all’ iscrizione nel registro degli indagati di babbo Renzi per traffico di influenze illecite. Ora il decreto Orlando prevede che i Trojan possano essere usati solo per i reati di mafia e terrorismo. Niente corruzione. Conclusione: il decreto Orlando, secondo la giornalista di Democratica, «consente di responsabilizzare pm e polizia giudiziaria affinché certi abusi, anche se non voluti, non possano ripetersi». I tempi sono cambiati. Nell’ era post Unità s’ inneggia al bavaglio, in barba all’ ex direttore Concita De Gregorio che dalle colonne del suo giornale, quando Silvio Berlusconi era al governo, alzava le barricate a difesa della pubblicazione delle intercettazioni. E se sui Trojan il Pd sembra determinato a non voler fare passi indietro, il divieto di citare frasi integrali è, invece, un punto che sicuramente potrà cambiare. È da rivedere anche l’ udienza stralcio. Il ministro Orlando lo dice a chiare lettere: «Se la si rende obbligatoria la procedura rallenta l’ inchiesta. Ma se non lo si fa, si attribuisce solo al giudice la delicata incombenza di decidere quali intercettazioni siano rilevanti e quali no». Ma a chi verrà affidata l’ integrità della futura cassaforte di tutte le intercettazioni? Con molta probabilità il cerino rimarrà in mano a chi guida le Procure. «Se diventerà legge ne guadagneremo tutti», chiosa Chirico su Democratica. E il Giglio magico ringrazia.

VIENI FUORI, CRETINO

Libero

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VITTORIO FELTRI Stronzo, vieni fuori. Togliti la maschera, Anonplus. Ti aspetto in redazione, viale Majno 42, Milano. Non è un indirizzo web, ma un luogo fisico. Quello non sei ancora riuscito a farlo saltare, magari perché i tuoi colleghi tradizionalisti sono più lenti, e tocca muoversi di persona, invece che star seduti sul burro come capita a te. Ti sfido. Non per un duello con la sciabola: ti sbudellerei troppo facilmente. Niente pistola. Neanche cazzotti. Solo parole, argomenti, ragioni, persino insulti. Togliti la maschera. Da uomini, a faccia a faccia. E se non ti va bene il posto, a te la scelta del convento dei carmelitani scalzi idoneo, o più probabilmente una moschea, va bene anche quella. Ti fa specie mostrare il tuo volto? Sotto la maschera di ferro, deve esserci una innocua faccia da coglione, per cui ti comprendo e, nel caso, ti autorizzo a indossare adeguatamente il burqa. Non mi illudo infatti che tu possa uscire dal tuo anonimato. E che rinunci al nickname. Voi cyber-terroristi siete infinitamente più miserabili dei kamikaze di Bin Laden e di Al Baghdadi, quelli ci lasciano la pelle portandosi via gente innocente. Non hanno il mio rispetto, ma la mia considerazione: se la giocano, lo diceva pure Oriana Fallaci. Invece tu spandi odio, da dietro la corazza dell’ invisibilità. Vi chiederete, che cosa c’ è di nuovo rispetto a ieri per indurmi a questa intemerata. Il vigliacchetto insiste. Questo terrorista dei miei stivali ora esibisce come trofeo le spoglie di liberoquotidiano.it, mostrando come da qualsiasi Paese del mondo il nostro sito sia inattingibile. Pubblica una specie di prospetto che sventola vantandosene coi suoi sodali plaudenti. Aveva scritto che non gliene frega un cazzo di me, ed io gliene sono francamente grato. Ma non sopporto che questo maniaco sessuale, che si altera i connotati con un preservativo, abbia rapinato e rapini i lettori che sono stati ospiti di casa nostra e sono gente della nostra famiglia. Infatti questo è Libero, nonostante io sia insopportabile anche a me stesso: questa gente mia non solo mi tollera ma riesce a volermi bene, e questo affetto è diventato una colpa tale da vedersi scippati e offesi. Vieni avanti, Anonplus. Un’ altra cosa mi fa schifo del tuo cappuccio atto a proteggere la tua identità: l’ aver scelto di usare una croce come maschera, anche se fanno credere sia un «più». Troppo pericoloso perfino per un hacker usare la barba di Maometto come marchio di viltà. Così hai scelto il simbolo dei cristiani che sono portati a porgere l’ altra guancia, per cui lasciano che si offenda Gesù Cristo mentre scattano in difesa di mullah, imam e minareti qualora si dubiti del loro pacifismo. A proposito. Mi si fa notare che non è detto Anonplus sia un codardo solo o invece copra un’ idra a cento teste tutte deficienti. Venite tutti, uno nessuno centomila per me siete la stessa fuffa. Esitate a presentarvi di persona? Va bene anche lo streaming. Un’ ora in diretta. Non abbiate paura della bua. Se no ci si rivede all’ inferno. P.S. Mi dicono che Anonplus abbia aperto un canale su internet – in gergo una chat – dove ospiterà chi vuole dialogare con lui (o con loro). Questo qua ci ha bruciato la casa, e ci offre di andare a discutere con la sua congrega nel covo di cui tiene le chiavi, tenendo al coperto faccia e nome. Come comincia il tuo appellativo in codice? Intendo le prime tre lettere. Ecco ficcatela lì la tua chat. riproduzione riservata.

L’ hacker rilancia: siete sotto osservazione

Libero

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Fosse capitato ai cosiddetti giornaloni, ci avrebbero aperto i tigì della sera. Tutti indignati a gridare alla violazione, alla censura. Invece, per Libero, che ha avuto il proprio sito oscurato per 24 ore, neanche un trafiletto sulla stampa che si vanta di non bucare mai una notizia. Diamo fastidio e lo sappiamo da un pezzo, ma stavolta oltre al pregiudizio che certi maestrini nutrono contro di noi, da tale AnonPlus, il collettivo di hacker informatici costola italiana di Anonymous, è stato compiuto un vero e proprio reato nei nostri confronti oltre che un danno per chi ci segue ogni giorno on line. Dai colleghi della stampa, però, neanche una riga. Neppure un boxino per registrare l’ accaduto. Idem dalle tv. Silenzio. Unica eccezione Il Tempo, quotidiano duramente attaccato come il nostro per un titolo che accosta la malaria agli immigrati. Il direttore Gian Marco Chiocci con coraggio, ieri, ha scritto un fondo, “I frutti marci dell’ odio”, in cui sbugiarda associazioni e blog di giornalisti, «il multiculturalismo al caviale» e le crociate ideologiche di chi si sente sempre e comunque superiore, ignora la verità e tuttavia si crede portatore del Verbo per cui chi la pensa in modo diverso è un nemico da abbattere, prima con la penna oggi, che imperversano i social, a suon di attacchi via web, spesso protetti da anonimato. In passato abbiamo assistito a girotondi, manifestazioni, cortei, campagne perfino con illustri giuristi in difesa della libertà di stampa. Paginate confezionate apposta per inculcarci l’ importanza di un’ informazione autonoma, senza condizionamenti, non asservita al potere politico, ma possibilmente più vicina a una parte che all’ altra. Questo giornale si chiama Libero non a caso, ce l’ ha nel dna la resistenza ad ogni imposizione, risponde ai propri lettori; eppure per chi ci ha oscurato il sito e per chi non ha detto nulla per condannare questo reato siamo noi ad essere dalla parte sbagliata. Ma chi lo stabilisce quale è quella giusta? Tra i parlamentari, di solito così solerti a inondare le agenzie con i loro comunicati, ci hanno espresso solidarietà ben pochi e tra questi spicca Umberto Bossi, presidente federale della Lega. «Sono vicino a Libero colpito da un attacco di pirateria informatica», ha dichiarato il fondatore del Carroccio. «La libertà di opinione va sempre difesa da ogni forma di aggressione, in qualsiasi modo si manifesti», ha aggiunto, «perché è uno dei principi ineludibili della democrazia». Poi l’ azzurra Elena Centemero, presidente della Commissione Equality and Non discrimination del Consiglio d’ Europa (cioè uguaglianza e non discriminazione). «La libertà di stampa è un bene assoluto», ha detto. «Per questo l’ attacco proditorio a liberoquotidiano.it colpisce non solo i giornalisti e i lettori di Libero, ma chiunque sia amante della libertà. Incredibile l’ indifferenza che i mass media hanno manifestato verso questo atto gravissimo. Per parte mia, solleverò il caso in Consiglio d’ Europa». Vicinanza anche dalla collega di partito Elvira Savino: «Solidarietà ai direttori di Libero, Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, per l’ attacco subìto. Senaldi nel video che ha postato ci mette la faccia e le sue idee, gli hacker», fa notare la deputata di Forza Italia, «sono invece quelli che si nascondono e il cui scopo è solo quello di tentare di oscurare le idee altrui». «Vogliono zittire Libero, ma non ci riusciranno», ha scritto Nuccio Altieri, deputato di Direzione Italia, «libertà di informazione e di opinione va difesa con i denti. Solidarietà alla redazione». Grazie. La Federazione nazionale della Stampa ha diramato una nota per dire che sì, è solidale con noi, però «resta il dissenso per qualsiasi violazione delle carte deontologiche, per ogni forma di intolleranza e per qualsiasi apologia del razzismo e del fascismo». Facevano prima a dire «però gli hacker hanno fatto bene». Noi intanto aspettiamo di incontrare de visu, come si fa tra persone in carne e ossa e non tra ologrammi, l’ anonimo signor AnonPlus che l’ altro giorno ha reso inaccessibile il sito. Siamo pronti ad affrontarlo e in un video il direttore responsabile lo ha detto chiaramente. Lui, l’ anonimo incappucciato con la croce in testa nel logo, fa finta di non capire. «Volete un confronto? Noi siamo qua», ha twittato. Ma in Rete non vale, troppo facile. Perché noi siamo noi, reali, e ci mostriamo, mentre dall’ altra parte potrebbe esserci chiunque. Un tale o un gruppo di pirati informatici che, su Twitter, ci sfida pure: «Libero_official siete sotto stretta osservazione. E non siete gli unici. Pretendiamo dignità e verità che un giornale deve dare». Un loro amico, poi, Andrea Draghetti, altro hacker del web, ieri cinguettava tutto contento: «Libero_official è down da 24 ore! Sarebbe curioso sapere a quanto ammontano i mancati introiti pubblicitari!!». E quelli di AnonPlus hanno risposto gaudenti: «Ottima osservazione». Per la combriccola dei pirati informatici il virus siamo noi, quindi è giusta «la web-vendetta degli attivisti contro #Libero per i titoli anti-immigrati», mentre Sharky, politicamente scorretto, si fa fotografare fiero con la prima di Libero e ai pirati che ce l’ hanno con i poteri forti chiede: «E quelli deboli? Ce ne date qualche esempio? Andate a studiare l’ italiano, hacker dei miei c…i». B. B. riproduzione riservata L’ ATTACCO Venerdì scorso il sito internet di «Libero» è stato oggetto di due attacchi informatici, che l’ hanno tenuto oscurato per gran parte della giornata. Il primo attacco è partito poco dopo la mezzanotte, il secondo si è verificato invece dopo le 15, dopo che, per un paio d’ ore il sito web era ritornato visibile. LA RIVENDICAZIONE A rivendicare il doppio attacco è stato il gruppo AnonPlus, un collettivo di hacker informatici che si definisce la filiale italiana del celebre gruppo internazionale Anonymous e che ha già messo nel nel mirino istituzioni e aziende private. Anonymous è da tempo una sorta di comunità di programmatori guerrieri che in nome della trasparenza istituzionale conducono una guerra senza esclusione di colpi contro governi e autorità internazionali. Il gruppo AnonPlus possiede anche un account Twitter dove ha contestato la linea tenuta dal nostro giornale sul tema dell’ immigrazione. L’ ESPERTO Secondo Giuliano Tavaroli, ex responsabile sicurezza di Pirelli e Telecom Italia e ora consulente per la sicurezza di importanti aziende private, non sempre dietro i gruppi hacker che dicono di agire per fini politici c’ è solo l’ ideologia. A volte conta anche il vantaggio economico.

«Nel web tutto ha un prezzo»

Libero

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SANDRO IACOMETTI Politica, business, ideologia. Nel nebuloso mondo degli hacker tutto si mescola e si confonde. Ma «niente si butta, un po’ come nel maiale», scherza Giuliano Tavaroli, ex brigadiere all’ Anticrimine di Milano, ex responsabile della sicurezza in Pirelli e Telecom e superesperto di intelligence. Sta dicendo che anche dietro l’ attacco informatico a Libero ci potrebbero essere interessi economici? «Non è detto. Esistono anche gruppi di attivisti che hanno fini esclusivamente politici o morali e utilizzano internet come forma di protesta…» …ma? «Ma, come dicevo, nel mondo digitale tutto ha un prezzo. A volte il vantaggio economico dell’ operazione è palese, come quando gli hacker chiedono un riscatto per restituire la funzionalità dei server. Oppure quando vengono violati i sistemi di una banca per sottrarre denaro». In altre occasioni? «Altre volte il guadagno è occulto. Esiste, ad esempio, un mercato dei dati informatici estremamente florido, con tariffe precise per ogni singola informazione. Molti eventi hanno conseguenze solo in un secondo momento. Se rubo 150 milioni di dati personali, questi possono essere utilizzati per campagne di malware o di ransomware (virus che possono danneggiare i software o bloccare i dispositivi, ndr.), per fare furti di identità digitale, per creare false credenziali». Ma quando non ci sono dati da trafugare? «Non sempre il pirata informatico va a caccia di dati. A volte si tratta semplicemente di testare la vulnerabilità di un sistema. Anche in questo caso il guadagno può essere molto elevato. I grandi gruppi internazionali del web pagano i cosiddetti bounty, laute ricompense che possono anche arrivare a 500mila dollari, agli hacker che riescono a trovare falle nei meccanismi anti-intrusione. Ma queste competenze sono molto ricercate anche dai governi per le operazioni di cyber war e dalle forze di polizia e di intelligence per le intercettazioni necessarie allo svolgimento delle indagini. Conoscenze di questo tipo valgono molto e alcuni attacchi possono anche avere scopi dimostrativi per pubblicizzare le proprie capacità». E nel caso di Libero? «Nel vostro caso non servono grandissime competenze. Si tratta di un denial service (negazione del servizio, ndr.) che si può ottenere facilmente attraverso un intasamento del sito web. In pratica se il server è predisposto per sopportare un flusso massimo di un milione di richieste da parte degli utenti, l’ hacker, attraverso una rete di computer di cui prende il controllo, le cosiddette macchine zombi, ne manda un miliardo e manda in tilt il sistema. Questi attacchi sono solitamente effettuati per motivi politici o per avere notorietà». Si tratta di organizzazioni o di singoli individui? «Difficile dirlo. Quando si parla di grandi attacchi, solitamente dietro c’ è un consistente gruppo di persone ben coordinate fra loro. Nelle operazioni più semplici può bastare anche qualche individuo». Ma non c’ è modo di contrastare questi fenomeni? «In Italia, purtroppo, siamo un po’ indietro rispetto agli altri Paesi. Investiamo poco non solo sull’ innovazione e sulla tecnologia, ma anche sulla sicurezza e sulla conoscenza. Un segnale positivo è arrivato dal decreto sulla cyber security varato dal governo Gentiloni la scorsa primavera che ha finalmente assegnato al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza un rolo centrale nel settore della sicurezza cybernetica». Non stiamo, ovviamente, parlando dell’ oscuramento di un sito… «Parliamo di questioni che possono mettere in gioco la sicurezza nazionale. Ci troviamo ormai in un mondo di giganti informatici che investono moltissimo nelle tecnologie di cyber war, penso alla Cina, alla Russia, alla superppotenza digitale Israele, alla Francia, alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti». E noi? «Noi abbiamo iniziato un percorso. Ma per ora abbiamo difficoltà anche a paragonarci a Paesi come la Siria e l’ Iran». twitter@sandroiacometti riproduzione riservata Giuliano Tavaroli Fotogramma.


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