Indice Articoli
L’ Unità chiude oggi, ma secondo Macaluso la salverà Costanzo
Un nuovo stop per «l’ Unità» I giornalisti: uccisa dall’ incuria
La crisi dei media non giova alla democrazia
Class Cnbc, la hit parade della pubblicità in tv
chessidice in viale dell’ editoria
Raccolta Rai, trainano i tre canali
Google, stop ad annunci fastidiosi
Il Luchetta a Bbc News e Huffington Post
Pensionati più ricchi La quattordicesima vale fino a 655 euro
L’ Unità chiude oggi, ma secondo Macaluso la salverà Costanzo
Il Fatto Quotidiano
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L’ Unità interrompe definitivamente le pubblicazioni. L’ annuncio lo danno gli stessi lavoratori in un editoriale sul giornale di oggi (che può essere letto solo online: da giorni lo stampatore ha fermato le rotative a causa dei mancati pagamenti). “Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore – si legge – calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare”. La scelta di “interrompere volontariamente la pubblicazione” è stata comunicata dall’ ad Guido Stefanelli con una lettera spedita alle 22.49 del primo giugno. I redattori accusano anche il Pd, “un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia” e che poi “ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compreso il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi (), senza prendere una posizione pubblica”. Intanto l’ ex direttore Emanuele Macaluso su Facebook ha lanciato un’ indiscrezione clamorosa (che ancora non trova riscontri tra i lavoratori del giornale): gli editori prossimi al fallimento – i costruttori Pessina – avrebbero contattato Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi per entrare in società e salvare il quotidiano.
Un nuovo stop per «l’ Unità» I giornalisti: uccisa dall’ incuria
Corriere della Sera
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l’ Unità è stata «uccisa giorno dopo giorno dall’ incuria di questi ultimi due anni». Così l’ assemblea dei redattori saluta i lettori con un editoriale che sarà pubblicato oggi, ultimo giorno di pubblicazione. E poi chiamano in causa «gli editori, la Piesse, Eyu, che fa capo al Partito democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà».
Da oggi smettiamo di lavorare per il fisco italianoGli editori dell’«Unità» smettono di stampare il giornale di Gramsci
La Verità
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Da oggi smettiamo di lavorare per il fisco italianoL’ ufficio studi della Cgia di Mestre lo chiama il «giorno della liberazione fiscale». Oggi è la prima giornata del 2017 in cui lavoriamo per noi stessi. Ci sono voluti 153 giorni per scrollarci di dosso la morsa di tasse e contributi. «Lavorare 5 mesi su 12 per lo Stato ci dà l’ idea di quanto eccessivo sia il nostro fisco», commenta la Cgia.Gli editori dell’«Unità»smettono di stampare il giornale di Gramsci Gli editori dell’ Unità hanno annunciato che sospenderanno la pubblicazione del giornale. Il quotidiano era già disponibile solo online da alcuni giorni a causa dei debiti con gli stampatori. I giornalisti hanno attaccato dicendo: «In questa storia sono in diversi a dover rispondere. Gli editori, la Piesse (di Pessina e Stefanelli), Eyu (che fa capo al Pd), e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi».
«Così si calpesta una storia»
Il Manifesto
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II Una decisione grave, arrivata dopo giorni di assenza del giornale dalle edicole perché lo stampatore ha fermato le rotative per la mancata riscossione dei crediti maturati. Se si è arrivati fino a questo punto non è stato per un improvviso fatto esterno(…). Nel silenzio più totale da parte dell’ amministratore delegato abbiamo tuttavia continuato a svolgere il nostro lavoro confezionando un giornale che nessuno ha potuto acquistare in edicola, destinato soltanto agli abbonati che per alcuni giorni neanche riuscivano a scaricarlo nella sua versione online. Nel silenzio più assoluto da parte di un’ azienda che non ha neanche ritenuto di dover comunicare che non avrebbe pagato gli stipendi. E che oggi dà notizia di una ristrutturazione annunciata da mesi ma mai avviata davvero. In questi mesi l’ azienda, la stessa che in due anni non ha presentato un minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi, come se a pagare il conto della mancata gestione aziendale dovessero essere i lavoratori e le lavoratrici. Tutto questo è avvenuto in un giornale che si chiama l’ Unità, che ha fatto della difesa dei lavoratori il suo tratto distintivo, e di cui ancora oggi il Partito democratico è socio al 20% attraverso la fondazione Eyu. Non siamo cioè di fronte a una società composta di soci privati tout court: siamo di fronte ad un’ impresa editoriale che ha al suo interno un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia. Un Pd che ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compre so il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro, senza prendere una forte posizione pubblica. Ci sono storie ed imprese editoriali che possono iniziare con la migliore delle intenzioni e poi, malgrado ogni sforzo, scontrarsi con una competizione su un mercato difficile e in forte crisi, e dunque prendere atto di non avercela fatta ma garantendo sempre, fino all’ ultimo momento, il rispetto dei diritti dei propri dipendenti, delle relazioni sindacali, della professionalità di tutti. Questa storia, la nostra, invece, è stata scritta in un altro modo. Nessun progetto, nessun piano industriale, relazioni sindacali calpestate, dignità professionali umiliate, tanto da arrivare nell’ incredibi le situazione di dover confezionare un quotidiano che non va in edicola. Anche in questa giornata siamo qui, al lavoro, per un giornale diverso: il più doloroso, il più triste. Perché l’ Unità finisce oggi, con questo numero, visto che la redazione sarà in sciopero fino al giorno dell’ incontro in Fn si con l’ editore. Fino a quando non ci diranno cosa intendono fare del futuro di questo giornale, con quali risorse, con quale progetto industriale ed editoriale e in quali tempi. Non ci fidiamo più, troppe promesse disattese, troppi strappi a qualunque civile e normale dialettica tra azienda, sindacato e lavoratori. Quello che chiediamo con forza a tutti i soggetti in campo è di avere almeno il rispetto che meritano i lavoratori e le lavoratrici di questo giornale. Il rispetto per l’ Unità, fondata da Antonio Gramsci e uccisa giorno dopo giorno dall’ incuria di questi ultimi due anni. In questa storia sono in diversi a dover rispondere di quanto accaduto. Gli editori di maggio ranza, la Piesse di Massimo Pessina e Guido Stefanelli, Eyu, che fa capo al Partito Democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà nei momenti più duri della lotta quando per otto giorni di seguito la redazione è scesa in sciopero ad oltranza. Un silenzio che ha ferito tutti coloro che in questo giornale hanno lavorato accettando condizioni spesso al limite dell’ accettabile. Ci chiediamo se anche di fronte a questa decisione dell’ editore proseguirà la scelta del silenzio. Ai nostri lettori diciamo che noi ce l’ abbiamo messa tutta. Fino all’ ultimo momento. Malgrado tutto, malgrado le scelte e le inerzie dei colpevoli. Anche noi odiamo gli indifferenti, e in questa storia siamo gli unici a non esserlo stati. Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore. L’ assemblea delle redattrici e dei redattori de l’ Unità.
La crisi dei media non giova alla democrazia
Il Fatto Quotidiano
Giovanni Valentini
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“La sfida dei media, in Italia, è quella di trasformarsi per sopravvivere all’ onda digitale e prosperare in un nuovo mondo centrato sulla rete” (da “Il crepuscolo dei media” di Vittorio Meloni – Laterza, 2017 – pag. 115) Se il crepuscolo è quell’ intervallo che intercorre fra il tramonto e la notte, non è detto ancora che il futuro dell’ editoria come industria dell’ informazione, cartacea o digitale, sia irrimediabilmente segnato. E al tempo della post-verità, delle fake news o bufale che dir si voglia, questa è una buona notizia. Dopo il crepuscolo e dopo la notte, anche all’ orizzonte mediatico può spuntare l’ alba di un nuovo giorno: dipende innanzitutto da noi, operatori dell’ informazione, editori e giornalisti; ma anche da voi, lettori, telespettatori e radioascoltatori. L’ incoraggiamento a guardare avanti, oltre i confini di una crisi strutturale che ha sconvolto il panorama editoriale in Italia e in tutto il mondo, proviene dalla lettura del libro Il crepuscolo dei media di Vittorio Meloni, citato all’ inizio di questa rubrica. Un saggio agile e rigoroso sull’ impatto che le nuove tecnologie della comunicazione, in particolare Internet e i social media, hanno avuto e continueranno inesorabilmente ad avere. Da comunicatore di professione, all’ interno di grandi aziende che operano in vari campi, l’ autore fornisce innanzitutto un’ abbondante messe di dati impietosi sul crollo generalizzato dei quotidiani, con qualche rara eccezione come nel caso di questa testata. Ma, senza risparmiare critiche né agli editori né ai giornalisti, Meloni chiama in causa anche i destinatari dell’ informazione, coinvolgendoli in una riflessione collettiva che riguarda un “bene comune” come questo, asse portante di una democrazia. Il fatto è che la crisi economica, oltre a deprimere le diffusioni e le “audience”, ha devastato la raccolta pubblicitaria con una caduta verticale dei ricavi. Aggiungiamo pure che al contempo l’ avvento di Internet ha indotto la smaterializzazione delle notizie e di conseguenza la svalutazione del prodotto e del lavoro giornalistico. È stato uno tsunami che s’ è abbattuto su giornali, tv e radio, determinando tagli ai costi e in particolare alle cosiddette “risorse umane”. Di fronte a un tale cataclisma, l’ industria editoriale s’ è come rassegnata a subire e contare i danni, limitandosi a ridurre drasticamente le voci di spesa: a cominciare proprio dai giornalisti, con il rischio di impoverire le redazioni e mortificare di conseguenza giornali e telegiornali. Gli editori hanno risparmiato così sull’ acqua da dare alle piante, ma alla fine le piante hanno perso le foglie e si stanno seccando. E forse questo atteggiamento deriva proprio dalla circostanza che ormai si tratta per la maggior parte di “editori impuri”, imprenditori o finanzieri attenti più agli affari da realizzare attraverso il controllo dei media che agli obiettivi e agli interessi editoriali. Non a caso Meloni segnala nel suo saggio che “il declino dei quotidiani ha molte cause, ma tra queste possiamo annoverare senz’ altro una crescente perdita di credibilità”. Cioè di affidabilità e di autorevolezza. Da qui, la conclusione in cui l’ autore evoca le assemblee che nell’ antica Atene si svolgevano sulla Pnice, la collina sotto l’ Acropoli: “Il futuro dell’ informazione sta a cavallo di due mondi: tradizione, reinterpretata in chiave digitale, e nuova Pnice dei social. Le news, da una parte, possono ancora utilizzare i veicoli, digitalizzati, del giornalismo tradizionale e, oggi, la loro crescente visibilità sui social. Dall’ altra, possono essere generate e distribuite accedendo direttamente alla vastissima platea social”.
LA RAI CHE NON FU
Il Foglio
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Non invecchiare con la generazione che hai allevato”. Così recitava il motto sfoggiato da Campo Dall’ Orto al suo arrivo in Rai, nell’ estate del 2015, poco meno di due anni fa. L’ anno in cui la Rai sarebbe diventata pop. Un motto che sapeva di rischio, avventura, futuro, discontinuità. Eravamo tutti su di giri per lo sbarco del modello “Mtv” a viale Mazzini, il vento di Milano -Londra -New York che soffia impetuoso sulle sonnolenze romane, un manager masterizzato a Publitalia, osannato alla Leopolda, distante anni luce dalle nomenclature del partito della Rai. Perché il futuro a volte arriva così, all’ improvviso. Poi il futuro è passato e non ce ne siamo neanche accorti. Niente piano news, media company, digitalizzazione, sperimentazione sui nuovi linguaggi. Addio sfide lanciate a Google e Netflix. Addio radicale, emtivvìstica “discon tinuità”. Addio Rai pop. “Torniamo all’ antico, sarà un progresso”, come recita un celebre adagio verdiano che dovrebbero incidere nell’ atrio di tutti gli uffici statali, accanto al ritratto di Mattarella. “Questa Rai non ha una visione, non è un servizio pubblico di cui possiamo andare orgogliosi perché abbiamo polemiche continue”, diceva il ministro Alfano qualche mese fa. Il suo, precisava, era “un giudizio da contribuente che paga per vedere scene che non sono da servizio pubblico”. Ma quali sono le scene da servizio pubblico? Da Gubitosi a Campo Dall’ Orto, passando per il piano Verdelli, sembra che non sia servizio pubblico riformare il piano dell’ in formazione, ridurre le redazioni, snellire le sedi regionali, la vera, insopprimibile zavorra della Rai, portare i giornalisti da 1.400 a 1.100 tramite prepensionamenti e altri scivoli, provare così ad abbassare l’ età media degli strutturati Rai (una delle più alte nel mondo delle aziende televisive). Un’ innovazione impraticabile, secondo molti, a cominciare da Carlo Freccero che bocciò il piano Verdelli dicendo che “gli mancava l’ esperienza sul campo”. Forse bisognerebbe partire dal fatto che voler ridurre il numero di giornalisti della Rai è più o meno come chiedere ai tassisti di sposare la causa di Uber. Non è da lì che si passa, non ora. Prima di “liberare la Rai dalla politica”, qualsiasi cosa voglia dire, sarebbe già molto provare e rivedere la logica delle vecchie lottizzazioni. Nel frattempo, ci siamo già dimenticati dell’ agenda Campo Dall’ Orto ma ci ricordiamo della surreale vicenda Perego, dei pruriti di Magalli, dei vaccini di “Report”, di un Sanremo rilanciato con Totti e Maria De Filippi, dei pastrocchi di “Ballarò”, “Politics”, della piattaforma digitale da affidare a Milena Gabanelli, delle polemiche sul tetto -stipendi, dei fuori onda di Insinna. Tutte cose che però raccontano di un malessere più profondo, quello di una televisione generalista, Rai o Mediaset, di cui ci accorgiamo solo per le polemiche, le ingerenze politiche e partitiche, gli incidenti, la povertà di idee degli autori e dei format. Eppure Campo Dall’ Orto ci ha provato. Un nuovo claim che riposizionava il vecchio “Di tutto, di più” – ottimo per le offerte nelle bancherelle – in “Per te, per tutti”, uno slogan studiato per aderire al modello di società digitale con dentro quantomeno la volontà di immaginare nuovi target (“il fatto che la società sia fondata più sull’ individuo”, diceva CDO, “non vuol dire che non siamo più animali socia li, anzi il servizio pubblico ha in questo senso il vantaggio di far raccogliere le persone intorno a noi”). E’ arri vata finalmente una grafica coordinata per tutte le reti Rai, un design visivo riconoscibile e uniforme con dentro l’ eco della Mtv dei primi anni duemila. E’ stata messa in piedi una line up innovativa e avviata una modernizzazione dei contenuti, con un ricambio del palinsesto del 32 per cento, assumendosi così alti rischi di fallimento, come nel caso eclatante di “Politics”, un errore che ha messo in crisi gran parte dei buoni propositi di CDO, ma si sono anche creati nuovi spazi. E’ probabilmente la Rai 2 di Ilaria Dallatana il canale che ha funzionato meglio. “Il collegio” è stato uno dei migliori programmi della stagione, un reality di ultima generazio ne, un format d’ importazione calato in modo efficace nel contesto italiano. “Un buon punto di partenza”, diceva Aldo Grasso, per far proprio “il compito che il servizio pubblico ha dato a Rai 2, ovvero riavvicinare alla Rai gli spettatori più giovani”. Un compito non facile nel momento in cui anche Snapchat punta ad avere una sua televisione. Meno efficace “Meglio tardi che mai”, il rehab giapponese con Claudio Lippi, Edoardo Vianello, Lando Buzzanca e un formidabile Adriano Panatta, messi dentro una versione “Cocoon” di “Pechino Express”, con momenti esilaranti alternati a stalli beckettiani. Sul piano della fiction, “La porta rossa” è stato un tentativo più o meno riuscito, ma pur sempre un tentativo di muoversi dentro un genere come il thriller fantastico distante anni luce dal canone italiano, tra “Ghost”, “Il sesto senso”, “Hereafter” riletti da Carlo Lucarelli & Co. Anche “Rocco Schiavone” può essere un piccolo passo per la nostra fiction ma un grande balzo in avanti per la rete. Così Campo Dall’ Orto si trincera dietro i numeri (che gli danno ragione), punta l’ indice contro le paludi della politica e abbandona la Rai indicandoci il punto archimedico, il senso e la missione ultima della televisione di Stato. E qui crolla tutto. “Questo è servizio pubblico, questa è la Rai che merita canone”, dice commentando la serata televisiva in ricordo di Falcone e Borsellino, costata più del doppio della cifra messa a bilancio (da ottocentomila euro a un milione e sette), salutata da tutti come un successo stratosferico, anzi di più una ritrovata identità. Perché? Confrontando le idee di servizio pubblico, qualcosa non torna. Nel 2015 era servizio pubblico “accompagnare le persone in un nuovo mondo provando non a diffondere un normale e ormai straconosciuto alfabeto ma anticipando nuova forma di alfabetizzazione” (copyright Campo Dall’ Orto). Due anni dopo, è l’ antimafia di Pif, Fazio e Saviano. E vai con don Ciotti che inveisce contro “il crimine economico”, spiega l’ importanza del “bene comune”, tuona contro una “peste chiamata corruzione” puntandoci l’ indice dal pulpito dell’ albero di Falcone. Vai con i palloncini bianchi che salgono in cielo, il commissario Montalbano, Fabio Fazio che si muove nello studio ricostruito del Dottor Falcone. Vai con la messa laica e i salmi cantati da Vittoria Puccini e Isabella Ragonese, vai con Carmen Consoli che canta sul balcone in quota “primo maggio”, “Povera patria” fatta da Fiorella Mannoia, Ottavia Piccolo nell’ aula bunker di Palermo dentro una versione brechtiana di “Un giorno in pretura”, vai con Placido che fa il picciotto, Beppe Fiorello che fa tutta la scorta, Favino che diventa il figlio di Borsellino. La serata in ricordo di Capaci e via D’ Amelio è stato l’ abbraccio, anzi la trattativa tra la tv di Fabio Fazio, Rai Cinema e il film italiano “d’ inte resse culturale”, uniti in matrimonio con rito civile da Roberto Saviano. Sono queste le scene da servizio pubblico che mettono tutti d’ accordo. Vogliamo l’ impegno civile perché con l’ impegno civile si può fare brutta televisione, senza ritmo, senza idee, come se non ci fosse un domani. Così, con l’ ingrediente più semplice: il ricatto del contenuto. Perché se fai brutta televisione con la lista delle fidanzate dell’ est si chiude il programma. Ma se la fai sulla mafia, non è mai brutta televisione, è televisione civile, e sulla televisione civile, inutile dirlo, crollano tutti. Siamo sicuri che Falcone e Borsellino raccontati come una messa cantata siano il miglior servizio pubblico che si possa fare? A noi suona più che altro come una ritirata. Un modo per occultare e differire le sfide di una Rai sempre più intercambiabile con Alitalia, se non fosse per il canone in bolletta. Sfide che erano e restano an cora quelle messe sul piatto da Campo Dall’ Orto. Però in Rai funziona così. Ognuno ha la sua idea di servizio pubblico. Ognuno la cambia in base alle oscillazioni del partito della Rai. “La Rai è la mia azienda, la mia vita, ci lavoro da trentatré anni e conosco tutti, ma oggi non è messa nelle condizioni di lavorare”, dice Fabio Fazio facendo diventare il proprio contratto l’ emblema, la cartina di tornasole per ricostruire il significato del servizio pubblico che sta tutto in un tweet: “In una tv che cambia, bisogna assumersi responsabilità e nuovi rischi. D’ ora in poi, ovunque sarà, vorrei essere produttore di me stesso”. La Rai c’ est moi. Via tutti, quindi. Una fuga in massa dall’ azienda, da Alberto Angela a Diego Bianchi, con Vespa, Carlo Conti e Giletti in forse. Ma incate nare il dibattito sul servizio pubblico attorno al tema del tetto -stipendi significa fare il gioco del populismo e spianare la strada a una Rai a cinque stelle, con un cda in mano a Travaglio, Antonio Ricci direttore di Rai 1, Peter Gomez a Rai 3 con carta bianca per Sabina Guzzanti. Un servizio pubblico con format di democrazia diretta e fiction in salsa antikasta, “Il commissario Di Battista”, “Un anno in pretura”, “Buttiamo le chiavi”, “Un medico antivaccini in famiglia”, Fedez e Jax presentano il Festival di Sanremo, dirige l’ orchestra Moni Ovadia. Ma qualunque cosa accada avremo sempre Roberto Saviano, la coscienza civile della nostra televisione. Savia no che unisce Rai e Mediaset, Falcone e Borsellino, l’ antimafia e “Amici” di Maria De Filippi, Saviano nella commissione di vigilanza, Saviano all’ Agcom, mentre chiude la prima stagione della sua serie televisiva su Gheddafi, “un avventuriero del deserto che diventa un tiranno spietato e selvaggio, un tiranno rockettaro”, come spiega illustrando il progetto pronto a partire per Palomar. In attesa di un Patto del Nazareno capace di sventare la costruzione di un mondo distopico non troppo irreale, bisognerebbe smettere di accanirci solo sull’ esistente, fermarsi qualche istante e provare a immaginare come dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare il servizio pubblico tra dieci, quindici anni, quando sarà impossibile spiegare a una nuova generazione di spettatori che “Uno Mattina” si fa col canone e “Mattino Cinque” con gli introiti della pubblicità. Vogliamo una Rai leggera, digitale, con un profilo da editore pubblico che genera contenuti destinati a varie piattaforme e dispositivi? Oppure ci auguriamo che la televisione resti per sempre quell’ elettrodomestico da vedere seduti sul divano anche se i millennials sanno a stento come è fatta? Fino a quando potremo opporci per non smantellare o almeno ripensare i grandi studi di produzione, alcuni già ampiamente inutilizzabili? Le sedi regionali sono un valore aggiunto, come può esserlo la stampa locale nel mondo dei giornali, o funzionano in modo vecchio e assomigliano più che altro alle “Val D’ Aosta News” di cui sbraitava Flavio Insinna? Non c’ è molta voglia di affrontare questi temi anche perché al momento gli ascolti tengono. Ma il destino del servizio pubblico e quello della tv generalista sono indissolubilmente intrecciati all’ anagrafe degli spettatori. La prima mossa da compiere è di carattere culturale. Liberare il dibattito sul servizio pubblico dall’ alternativa secca tra lo schieramento dei difensori a oltranza e quello dei contestatori, entrambi “poco inclini a considerare l’ ampiezza e la complessità delle questioni che entrano in gioco quando si vuole ripensare il destino del servizio pubblico” (come scrive Massimo Scaglioni nel suo ultimo libro, “Il Servizio pubblico, morte o rinascita della Rai?”). La seconda, smettere di pensare che la Rai possa liberarsi della politica e al contrario inchiodare la politica alle proprie responsabilità: la costruzione di un servizio pubblico che catalizzi il meglio del sistema dell’ audiovisivo italiano senza rinchiudersi nel mercato domestico. Avremmo voluto parlare delle novità della Rai nell’ èra di Matteo Renzi, ma ci vorrà un bel po’ di tempo prima che si ricreino le condizioni per trascinare la Rai dentro l’ innovazio ne o almeno provarci sul serio. Ma pensare di tenere fuori la politica dalla Rai è una pretesa assurda, ben più irrealistica dei piani di rilancio presentati da Verdelli e Campo Dall’ Orto. La Rai è politica. E’ stata pensata, allevata, organizzata e coccolata dalla politica. La televisione di stato, in uno stato storicamente invaso, risucchiato e occupato dalla politica, non poteva che crescere e svilupparsi all’ ombra dei partiti. Che almeno la politica faccia il possibile per guidarla verso l’ innovazione occupandosi dei contrappesi e delle regole del gioco, più che dei contenuti e delle lottizzazioni, prima di gettare il servizio pubblico in pasto al populismo feroce della democrazia diretta.
Class Cnbc, la hit parade della pubblicità in tv
Italia Oggi
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Sono di Lacoste, Poste Italiane, Fanta, Vecchio Amaro del Capo e Acqua Vitasnella gli spot che concorrono questa settimana alla hit parade delle migliori campagne pubblicitarie elaborata nel corso della trasmissione Marketing Media and Money, il programma di Class Cnbc (Sky 507) dedicato al mondo del marketing, della pubblicità e della comunicazione, in onda ogni martedì sera alle 21 (in replica mercoledì alle 23.30) e condotto da Andrea Cabrini e Silvia Sgaravatti. A rischiare il podio dei flop, invece, Bonduelle, Idealista, Pallini, F.lli Orsero e Roadhouse. Le classifiche sono elaborate in base ai giudizi di una giuria composta da studenti della laurea specialistica in marketing management dell’ Università Bocconi che spiegano ai telespettatori i motivi delle loro scelte.
chessidice in viale dell’ editoria
Italia Oggi
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Unità, sospese tutte le pubblicazioni. «Riteniamo che questa sia la scelta più giusta da fare in attesa di portare a compimento le procedure di ristrutturazione aziendale», ha dichiarato l’ a.d. Guido Stefanelli così come riportato oggi nell’ editoriale del quotidiano firmato dalla redazione, che finora ha lavorato alla versione in pdf del giornale. Da oggi, invece, i giornalisti sono nuovamente in sciopero a oltranza. Tintin sbarca su iBooks. Tintin non è solo un fumetto: per i lettori di lingua francese è quasi un eroe nazionale tanto che nelle ex colonie francesi, al riparo dagli obblighi del copyright, ne nascono ancora nuove versioni attualizzate, per esempio con il reporter belga ironicamente insieme a Nicolas Sarkozy e Carla Bruni. Adesso, Tintin debutta su iBooks l’ applicazione Apple per la lettura tramite iPad, iPhone e iPod (la pubblicità, nella foto). Prima avventura disponibile è Tintin au pays des Soviets (Tintin nel paese dei Sovietici), la prima realizzata dal suo disegnatore Hergé e per la prima volta restaurata a colori. Breitbart News, nuovi guai per Bannon. L’ amministrazione Trump potrebbe avere violato le regole federali sull’ etica, avendo dato a Steven Bannon, capo stratega della Casa Bianca, la possibilità di comunicare con i redattori di Breitbart News. Lo ha reso noto il New York Times, spiegando che del quotidiano Bannon è stato fondatore e guida fino alla campagna elettorale di Donald Trump. Spectacles, in vendita in Italia. Gli occhiali da sole di Snapchat con videocamera incorporata possono registrare brevi video, fino a 30 secondi e condividerli via Snapchat. I mercati europei coinvolti sono Italia, Francia, Gran Bretagna Germania e Spagna. Costo: 149,99 euro.
Raccolta Rai, trainano i tre canali
Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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Nel gruppo Rai c’ è da nominare il nuovo direttore generale, dopo le dimissioni di Antonio Campo Dall’ Orto, e da risolvere la grana sui compensi alle star televisive, soggette o meno ai limiti di 240 mila euro annui imposti dalla nuova legge sull’ editoria. Qualcuno vorrebbe agganciare tali compensi agli introiti pubblicitari che le suddette star sarebbero capaci di assicurare a Viale Mazzini. Introiti che sono evidenziati in maniera dettagliata nel bilancio consolidato 2016 del gruppo Rai. Nello scorso esercizio il broadcaster pubblico ha incassato 698,2 milioni di euro di pubblicità, in crescita del 6% sul 2015. Rappresentano, tuttavia, il 24,8% del totale ricavi Rai, colosso editoriale che vive soprattutto di canone (1,909 miliardi di euro, pari al 65,7% del totale). Comunque, quanto a ricavi da advertising, il 2016 è andato piuttosto bene, godendo anche di 57 milioni di euro straordinari di pubblicità, grazie agli Europei di calcio e alle Olimpiadi, e parzialmente soffrendo, invece, per la decisione di togliere, dal maggio 2016, la pubblicità dai canali Rai YoYo, Rai 5 e Rai Storia, che invece nel periodo maggio-dicembre 2015 avevano assicurato 11 milioni di euro di ricavi. A trainare i risultati 2016 di Rai Pubblicità sono ovviamente i tre principali canali Rai (Rai Uno, Rai Due, Rai Tre) che da soli hanno incassato 591,4 milioni in spot (+7,5% sul 2015), mentre gli altri 11 canali semigeneralisti valgono appena 65,8 milioni di euro di raccolta complessiva (-3,5% sul 2015, anche a causa della decisione di abolire gli spot da Rai YoYo, Rai 5 e Rai Storia). Bene la divisione radiofonica della Rai (i tre canali storici, cui sommare Isoradio e cinque canali sul web) che, sull’ onda di un periodo favorevole per il mezzo radio nel suo complesso, riesce a crescere del 7,5% nel 2016, incassando quasi 30 milioni di euro di pubblicità. Il cinema, invece, è ormai un mezzo in via di estinzione quanto a raccolta di pubblicità: e nel 2016 il circuito di sale gestito dalla Rai crolla del 32% e si attesta ad appena 3,8 milioni di euro. Pure il web, nonostante i grandi numeri di audience di Rai.it e il notevole successo di Rai Play, rimane una voce quasi inesistente: 8,5 milioni di euro di raccolta nel 2016, con, certo, una crescita di quasi il 20% sul 2015 ma un peso pressoché impercettibile, pari all’ 1,2%, sul totale dei ricavi pubblicitari Rai. Il problema della Rai, secondo molti analisti, non è comunque legato ai compensi delle star che conducono i programmi (si parla di qualche decina di persone), o al fatto di agganciare gli stipendi alla pubblicità (quando il programma va bene) o al canone di servizio pubblico (quando il programma è un flop), ma è invece il costo del personale nel suo complesso: nel 2016, su 2,809 miliardi di ricavi, la Rai ha pagato 1,031 miliardi di costi per il personale (+5,5% sul 2015). Ci sono 13.230 dipendenti, di cui una pletora di graduati (343 dirigenti, 1.355 funzionari e quadri, 1.826 giornalisti) nella gran parte dei casi con stipendi oltre i 100 mila euro annui. Nel 2016 la grande crescita del canone (1,909 miliardi di euro, +16,6% sul 2015) con la riscossione in bolletta elettrica ha sistemato i conti, chiusi con un modesto utile di 18,1 milioni di euro. Ma se, come spiega lo stesso bilancio consolidato Rai, nel 2017 le regole imporranno una riduzione di canone pari a 150 milioni di euro, non sarà semplicissimo arrivare al pareggio di bilancio, così come invece previsto dagli stessi amministratori di Viale Mazzini. © Riproduzione riservata.
Google, stop ad annunci fastidiosi
Italia Oggi
ANDREA SECCHI
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Google introdurrà nel suo browser Chrome una funzione per bloccare le pubblicità fastidiose all’ inizio del prossimo anno. Nel frattempo, però, sta chiamando a raccolta gli editori per indicare loro come è possibile comunque mostrare inserzioni nei propri siti senza che tutta la pubblicità sia fermata dal navigatore. Quello di Chrome non sarà un ad blocker tradizionale che in generale blocca tutte le inserzioni presenti su una pagina web, quanto un filtro che permette il passaggio a formati non intrusivi e non fastidiosi per l’ utente. «Le persone incontrano annunci fastidiosi e invadenti sul web», ha spiegato in un blog post Sridhar Ramaswamy, senior vice president ads & commerce di Google, «come quelli che sparano musica inaspettatamente o ti costringono ad attendere 10 secondi prima di poter vedere i contenuti della pagina. Queste esperienze frustranti possono condurre alcune persone a bloccare tutti gli annunci, portando grosse perdite a giornalisti, sviluppatori web che dipendono dagli annunci per finanziare la loro creazione di contenuti». Insomma, ci saranno pubblicità che Chrome lascerà passare e altre non rispettose delle regole che saranno bloccate. Gli editori potranno valutare le proprie inserzioni attraverso uno strumento di Google, l’ ad experience report, in grado di analizzare il sito. Alla base però ci sono gli standard stabiliti dalla Coalition for Better Ads, una coalizione che riunisce fra gli altri lo stesso Google, Facebook, News Corp., Washington Post e che come affiliati ha anche Iab Italia e l’ Upa. In particolare la Coalition, attraverso sondaggi fra gli utenti, ha identificato i formati che più infastidiscono e portano all’ adozione degli ad blocker. La mossa di Google avrà un impatto importante sul mondo della pubblicità online. Il browser Chrome, infatti, ha la quota di mercato maggiore: lo utilizza oltre il 54% degli utenti a livello mondiale e in Italia il 56%. Se si considera l’ utilizzo sul solo desktop la quota sale a oltre il 60%. È chiaro che il filtro inserito da Google sarà in grado di bloccare le pubblicità ritenute fastidiose per la gran parte degli utenti. Il post di Ramaswamy si intitola «Costruendo un web migliore per tutti». Ma Google non è proprio disinteressato: dalla pubblicità online gli deriva l’ 89% dei ricavi, 90 miliardi di dollari lo scorso anno. Con la nuova iniziativa, inoltre, da giocatore diventa anche arbitro. È normale così che qualcuno abbia già storto il naso, sebbene gli standard accettabili siano scelti da una coalizione in cui compaiono anche altri attori. Per contro alcuni vantaggi sono innegabili. Di fronte alla minaccia di crescita degli ad blocker tradizionali che possono mettere a rischio molta parte dei ricavi pubblicitari, il filtro di Chrome permette di mantenere la principale fonte di introiti della maggior parte dei siti web. Anche Iab Italia ha sottolineato più volte che un percorso virtuoso verso annunci non invasivi avrebbe aiutato a contrastare la diffusione dei blocker. È vero che gli editori potranno perdere qualche inserzione di valore, ma non correranno il rischio di vederle bloccate tutte, anche se in Italia il fenomeno ad block non sta crescendo ed è fermo a una penetrazione del 13% secondo comScore contro un 26% internazionale. Google offrirà anche un altro strumento agli editori, Funding choices, che permette di raccogliere denaro dagli utenti che decideranno di bloccare tutte le pubblicità. Esperienze simili, però, fino a oggi non hanno portato grandi risultati. © Riproduzione riservata.
Netflix punta sul 4K
Milano Finanza
JULIA BOORSTIN – CNBC
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Nessun progetto di espansione nello sport, grande attenzione e fiducia in tecnologie come 4K e Hdr e una sana competizione con Amazon, che fa davvero paura. Perché solo la focalizzazione, secondo Reed Hastings, ceo di Netlifx, permetterà alla società di esprimere tutto il suo valore. Domanda: L’ accelerazione di Amazon e Hulu sui contenuti originali sta avendo un impatto sulle nuove uscite? Per quest’ anno avevate indicato 6 miliardi di dollari di investimento, alla luce di una simile concorrenza rivedrete qualcosa? Risposta: Amazon, Hulu e player internazionali come Sky e Gleam stanno investendo in contenuti originali, al pari di noi. La gente vuole l’ on demand: vuole poter decidere quando e come guardare i programmi preferiti. Da un lato la concorrenza ci tocca, ma dall’ altro sta portando maggior popolarità alla fruizione su internet. Più cresce la base utenti, più intendiamo far crescere il budget dei contenuti. Questa è la nuova era della televisione. D. Qual è l’ effetto sull’ industria del cinema? Il weekend del Memorial Day è stato il peggiore al box office degli ultimi 18 anni. Colpa di Netflix? R. È internet, non esclusivamente Netflix. O forse non c’ erano grandi uscite in cartellone. D. Secondo una ricerca, Wall Street potrebbe avervi sottostimato sul lungo periodo. Che ne dice? R. Esclusa la visita annuale a Cnbc, non passo molto tempo in questo mondo. Sono focalizzato a offrire la migliore esperienza video possibile. Questo determinerà la crescita: gli show, lo streaming, l’ interfaccia. D. Con sempre più consumatori che lasciano i canali via cavo dovrete ricalibrare le aspettative di lungo periodo nelle sottoscrizioni? R. In pochi hanno scelto di tagliare i cavi. Su una popolazione di circa 50 milioni di persone, appena 2-3 milioni sono interessati dal fenomeno. Non è la sovrapposizione a stimolare il cord cutting, bensì la politica di prezzo. Il fenomeno segue un tasso annuo del 2-3%, come gli indici di ascolto negli ultimi trent’ anni. D. Siete vicini alla saturazione negli Stati Uniti? R. Assolutamente se manteniamo identico il prodotto, ma stiamo rendendo lo streaming incredibile con HD, 4K e HDR. Con un nuovo tv l’ esperienza supera il cinema. Così posponiamo costantemente la saturazione. D. Il miglioramento del prodotto porterà a un aumento dei prezzi come in passato? R. Il prezzo base di 7,99 dollari è identico da 8 anni. Abbiamo rivisto l’ offerta l’ HD e le fasce superiori, ma il piano base è invariato da anni e include tutti i contenuti e visualizzazioni illimitate. D. Qual è la volatilità nelle modalità di fruizione ora che il servizio è disponibile anche offline? R. La visualizzazione offline è perfetta per i voli aerei. Lo spostamento al mobile è stato notevole negli ultimi dieci anni. Tuttavia, due terzi delle visualizzazioni restano sui televisori, mediante Xbox o PlayStation, o direttamente smart tv. D. Che effetto ha avuto il 4K sui volumi? R. Se paghi 1.000 dollari per una nuova televisione, la userai. Con l’ HDR immagini e colori hanno un’ intensità incredibile. Il 4K trasforma l’ esperienza home video: è uno dei grandi driver, come il mobile. D. Il prossimo passo potrebbero essere notizie e sport? R. Nessun progetto simile. Sono segmenti complicati e abbiamo ancora molto margine di crescita in film, serie tv e standup comedy. D. Amazon Prime Video ha acquisito i diritti per 10 partite della prossima stagione della Nfl. Paura? R. Fa veramente paura. Come fanno a seguire bene così tanti settori? È come se stessero tentando di riscrivere le leggi del business. Continueremo a osservarli con ammirazione, visto che contribuiscono allo sviluppo del settore con l’ investimento nel contenuto. D. Farete leva sulla base utenti? La registrazione delle carte di credito è una risorsa di grande valore, e non vi manca. Introdurreste servizi al di là del contenuto? R. Il duello con Amazon sarebbe una battaglia persa. Dobbiamo essere un player di nicchia: noi siamo Starbucks e loro Walmart. Dunque, dobbiamo avere un brand forte e ben posizionato. L’ estensione della loro attività è incredibile. Noi intendiamo focalizzarci sull’ essere l’ incarnazione dell’ entertainment. D. Lo scorso gennaio siete approdati in 130 nuovi mercati. Forse troppo in una volta? La lingua è stata una barriera in mercati come Corea o India? R. Forse, ma è stato divertente. Naturalmente è più complicato per una società statunitense entrare in mercati con una lingua diversa: abbiamo ancora molto da imparare. Abbiamo fatto molto bene in America Latina e in Europa e, certamente, in Nord America. Lo spazio di crescita in Asia è molto, come la strada che abbiamo davanti. D. E in Cina? R. Totalmente fuori discussione per qualche anno ancora. D. Il trend è produrre in loco o cercare di ammortizzare e proporre lo stesso prodotto in diversi Paesi e lingue? E per quanto riguarda il budget? R. Certamente prodotti ad alto budget: aumentando la distribuzione possiamo permetterci un intrattenimento spettacolare. Nell’ arco di un paio di mesi uscirà Dark, una serie tedesca di fantascienza, che avrà molto seguito a livello globale. In sintesi, stiamo producendo all’ interno e all’ esterno del sistema Hollywood. (riproduzione riservata) traduzione di Giorgia Crespi.
Il Luchetta a Bbc News e Huffington Post
La Repubblica
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L’ Huffington Post si è aggiudicato il Premio giornalistico Marco Luchetta, con uno scatto di Khalil Ashawi. L’ immagine ( foto sopra), premiata nella sezione fotografia, ritrae il dramma della guerra attraverso l’ immagine di una giovane sfollata siriana. Gli altri vincitori sono Lyse Doucet di Bbc per le tv news, Valerio Cataldi di Rai Tg2 Dossier nella sezione reportage, Laura Silvia Battaglia di Left Magazine e Tom Parry del Daily Mirror per le sezioni stampa italiana e internazionale.
Pensionati più ricchi La quattordicesima vale fino a 655 euro
Il Giornale
Antonio Signorini
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Antonio Signorini Roma Estate un po’ più ricca per 3,4 milioni di pensionati. È in arrivo la quattordicesima in versione rafforzata prevista dalla ultima legge di Bilancio. L’ assegno esiste dal 2008, ma l’ ultima «finanziaria» lo ha rafforzato a chi ne aveva già diritto e poi lo ha allargato, includendo circa 1,2 milioni nuovi beneficiari. Misura controversa. Il presidente dell’ Inps Tito Boeri l’ aveva criticata aspramente perché scarica i costi sulle generazioni future. Ieri l’ economista è tornato all’ attacco. La platea di pensionati che riceveranno la quattordicesima «è destinata a essere più ampia rispetto a quella prevista inizialmente: avremo un incremento soprattutto per quel che riguarda gli ex dipendenti pubblici», che saranno «i grandi beneficiari della quattordicesima. Attualmente sono circa 8.000 e con le nuove norme inserite nell’ ultima legge di Bilancio saliranno a 125.000. Parliamo di un incremento del 1.500%». In sostanza, l’ allargamento della platea deciso dal governo Renzi, si concentra su rendite tipiche dell’ ex dipendente pubblico. Nel dettaglio, la quattordicesima spetta a chi ha una o più pensioni Inps o delle gestioni autonome, separata e del fondo clero. Hanno diritto ad ottenerla i pensionati a partire da 64 anni. Hanno diritto anche i titolari di pensioni di invalidità (non quelle civili) e le reversibilità. Esclusi i pensionati Inpgi, l’ istituto di previdenza dei giornalisti. Fino all’ anno scorso l’ assegno extra spettava ai pensionati con un reddito complessivo fino a una volta e mezzo il trattamento minimo. Quindi chi ha avuto nel 2016 redditi fino a 9.786,86. Per questi la legge di stabilità ha previsto un incremento del 30%. Dal prossimo mese chi ha un reddito superiore a 1,5 volte il minimo e fino 2 volte (quindi 13.049,14 euro) avrà diritto per la prima volta alla quattordicesima. Per i pensionati subito dopo la soglia più alta è prevista una compensazione per evitare che siano penalizzati rispetto a chi si trova subito sotto. L’ importo varia. Più alto per le rendite basse e viceversa. Gli importi forniti a suo tempo dall’ Inps variano tra 437 euro e 655 per coloro per i redditi più bassi, e tra 336 e 504 euro per coloro che hanno redditi fino a due volte il minimo. La misura è considerata una sorta di compensazione per i pensionati ai quali Renzi aveva promesso gli 80 euro. I rischi connessi all’ erogazione dell’ assegno sono simili. L’ importo sarà erogato subito, ma poi ci saranno verifiche sul reddito effettivo del 20016. Possibile quindi che si verifichino situazioni in cui il pensionato sarà costretto a restituire parte dell’ assegno. Di quattordicesima si è occupata anche Bankitalia. Nell’ ultimo rapporto – ha rilevato ieri Il Sole24ore – si rileva come una parte importante della somma stanziata dal governo (in tutto 800 milioni di euro) andrà alle fasce di reddito più alte. Circa 240 milioni, il 30% dello stanziamento andrà pensionati con assegni relativamente elevati, mentre circa 480 milioni andranno ai redditi più bassi. Il problema è che i limiti sono calcolati sulle pensioni contributive e non tengono conto del redditi familiare. In generale, il governo Renzi si aspettava che il pacchetto di misure sociali contenute nella ultima legge di Bilancio (oltre alla quattordicesime, le detrazioni e la no tax area) avessero un impatto sul reddito delle famiglie di un miliardo di euro. Il governo Gentiloni è poi tornato sulla previdenza con il decreto che regola l’ Ape social, l’ anticipo pensionistico senza oneri. Misure gradite ad alcuni, ma che fanno lievitare il capitolo di spesa più consistente del bilancio pubblico.