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Rassegna Stampa del 12/10/2018

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Indice Articoli

LA LIBERTA’ DI STAMPA BATTERA’ LE DIRETTE SOCIAL

Cairo: Della Valle sale nel capitale Rcs? «Bene, crede in noi»

Forbici sui fondi all’ editoria. E condono di manica larga

Ogni lezioncina in tv del professor Cottarelli costa 6.500 euro alla Rai

Media sempre più digitali al tempo della «star della porta accanto»

`Def: stop al pareggio di bilancio Aiuti a Roma, le condizioni Bce

Due italiane nella Top25 della tv mondiale

Mediaset rompe gli indugi sul digitale La piattaforma Premium andrà a Sky

Tocca ai giornali: «Via tutti i fondi»

Mediaset sorride ai conti 2018

Radio Player Italia, c’ è anche Rtl 102.5

Rai, calma piatta dopo l’ investitura di Foa ma le nomine di tg e reti non ci sono ancora

Chessidice in viale dell’ Editoria

Streaming, Warner affila le armi

Dalla Rai all’ Antitrust Lo stallo sulle nomine

Classifiche e trend dei quotidiani più diffusi e più venduti in edicola: Ads agosto 2018

15esimo rapporto Censis sulla comunicazione

LA LIBERTA’ DI STAMPA BATTERA’ LE DIRETTE SOCIAL

Corriere della Sera
Pietro Mancini
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Caro Aldo, nella accesa polemica tra alcuni giornali e M5S, è paradossale che, a causa di una battuta infelice, Luigi Di Maio sia stato presentato come un infame «tiranno liberticida». E che Matteo Renzi abbia difeso i giornalisti, dimenticando di avere evocato, da premier, un presunto complotto mediatico-giudiziario contro la sua famiglia. La libertà di stampa non è in pericolo. Ma se i contributi all’ editoria cesseranno e i lettori non andranno alle edicole, non pochi giornali chiuderanno. Gli osservatori dei giornali autorevoli, come il Corriere, continueranno a rivolgere critiche, legittime, ai potenti; gli altri continueranno a bocciare il presunto asfissiante potere di Salvini e Di Maio e ad auspicarne la caduta. Caro Pietro, Di Maio non ha avuto «una battuta infelice». I Cinque Stelle hanno fin dall’ inizio additato i giornali come nemici. Hanno aderito a uno schema che non è certo stato inventato da loro, ma è connaturato alla rete. Lo descrisse per primo oltre dieci anni fa Laurent Joffrin, il direttore di Libération. Nel mondo digitale, i giornali sono collocati nella fascia alta, la stessa della politica: quella della rappresentazione e quindi della menzogna. Agli antipodi c’ è la fascia bassa, quella della realtà, e della rete, dove si dicono le cose come stanno. Ovviamente, precisava Joffrin, si tratta di uno schema falso; ma questo non significa che molta gente non ci creda. Grillo e Di Maio non sono gli unici politici ad additare i giornali come nemici del popolo. Lo stesso fanno Trump negli Stati Uniti ed Erdogan in Turchia. Erdogan passa volentieri dalle parole ai fatti, mettendo i giornalisti scomodi in galera, cosa che Trump per fortuna non può fare. Ma ci sono altri modi, forse anche più efficaci, per delegittimare le voci critiche. Intendiamoci: anche i giornali hanno le loro responsabilità. Troppe volte si è data l’ impressione che giornalismo e politica fossero due varianti dello stesso mestiere, con uno scambio di ruoli e di posti che non ha certo giovato alla credibilità dei commentatori. Ma, così come non si è ancora inventato un sistema migliore della democrazia rappresentativa, allo stesso modo pensare di sostituire la libertà di stampa con le dirette Facebook si rivelerà un’ illusione.

Cairo: Della Valle sale nel capitale Rcs? «Bene, crede in noi»

Corriere della Sera

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«Mi fa molto piacere che Diego Della Valle salga nel capitale di Rcs. Crede nella società: lui è anche consigliere, vede che stiamo operando bene e, quindi, ritiene che sia interessante come investimento». Così l’ editore (con il 60%), presidente e amministratore delegato di Rcs Mediagroup, Urbano Cairo ha commentato con Radiocor l’ arrotondamento dello 0,3% al 7,624% del patron di Tod’ s nel capitale del gruppo del Corrieredella Sera del quale è il secondo azionista. Cairo ha preso parte ieri all’ inaugu-razione a Trento della prima edizione del Festival dello Sport.

Forbici sui fondi all’ editoria. E condono di manica larga

Il Fatto Quotidiano
Carlo Di Foggia
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La Nota di aggiornamento al Def passa l’ esame delle Camere. Montecitorio e Palazzo Madama hanno approvato ieri lo scostamento degli obiettivi di deficit e la risoluzione di maggioranza. Il testo impegna il governo ad approvare i punti del programma, dalla riforma della Fornero alla pensione e al Reddito di cittadinanza (partiranno ad aprile); ma contiene anche altri cavalli di battaglia, come “la banca pubblica degli investimenti” e soprattutto “il graduale azzeramento dal 2019 del fondo per l’ Editoria”, seppure “assicurando il pluralismo dell’ informazione e la libertà di espressione”. È il vecchio pallino del Movimento 5 Stelle. La mossa ha scatenato ieri le proteste delle opposizioni. A essere azzerata sarà la quota del fondo a carico del dipartimento per l’ Editoria, che nel 2017 è stata di 114 milioni. Restano fuori i 67 milioni per radio e tv locali, finanziati dall’ extra-gettito del canone Rai in bolletta assegnati dal ministero per lo Sviluppo. Il sottosegretario all’ Editoria, Vito Crimi, ha spiegato al Fatto di voler modificare il meccanismo di assegnazione, che oggi “garantisce il 30% dei fondi a 3-4 giornali”. L’ obiettivo finale è di sostituire i fondi pubblici con un meccanismo che dirotti sulla carta stampata parte della pubblicità che va sulle tv inserendo dei tetti agli spot televisivi. L’ idea fa tremare Forza Italia: Mediaset perderebbe centinaia di milioni visto che ora, con ascolti medi del 30-35% si prende il 60% delle risorse. Non tutti i fondi potranno però essere eliminati. Dei 114 milioni, 27 sono per le convenzioni Rai. Nel 2016 il contributo pubblico ai soli giornali è stato di 52 milioni, altrettanto nel 2017. Cifre lontane dai fasti di un tempo (nel 2010 si arrivava a 150 milioni). La riforma del governo Renzi nel 2016 ha cancellato il contributo ai giornali “organi di partito o di sindacati”, continuano invece a riceverlo imprese editrici cooperative e quelle che pubblicano quotidiani e periodici all’ estero, gli enti non profit che editano testate e le pubblicazioni delle minoranze linguistiche (quest’ ultime tutelate da diverse norme). Se si somma tutto si arriva a 70 milioni. Tra i maggiori beneficiari ci sono (dati 2016): Avvenire (6 milioni); Libero (5,2); Italia Oggi (4,8); Il Manifesto (3); Il quotidiano del Sud (2,8) e Il Foglio (0,8 milioni). Sarà poi varato il decreto che impone di finanziare il Fondo con un contributo dello 0,1% sui ricavi dei concessionari pubblicitari, compresi i centri media (il governo Gentiloni se l’ era scordato, per la gioia degli editori). “Così si colpiscono i piccoli, è un attacco alla democrazia”, ha spiegato il senatore forzista Renato Schifani. Stessa linea del Pd, che bolla il progetto come “illiberale”. Da tempo tra i beneficiari non compaiono più i grandi giornali nazionali, ma non mancano le distorsioni visto che molte cooperative affittano la testata a editori più grossi. Dopo il via libera al Def, lunedì dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri anche la manovra insieme al decreto sulla “pace fiscale”. L’ ultima bozza disegna un condono di vasta portata. Viene rinnovata la rottamazione (si paga l’ imposta ma non sanzioni e interessi) per le cartelle dal 2000 al 2017, anche quelle sull’ Iva sulle importazioni, estesa pure agli atti di accertamento e ai processi verbali di constatazione. Si potranno poi chiudere le liti tributarie senza sanzioni e interessi; lo sconto salirà al 50% se l’ Agenzia delle Entrate ha perso in primo grado; al 20% se ha perso nel secondo. La novità più forte, però, è che le vecchie cartelle (fino al 2010) sotto i mille euro saranno addirittura semplicemente cancellate (chi ha già versato non riavrà indietro i soldi). Idea che non piace affatto ai 5Stelle, come l’ ipotesi (che compare nella bozza) di permettere a chi ha dichiarato un reddito fasullo di mettersi in regola con un’ integrazione, pagando un’ aliquota minima (si ipotizza il 15% con un tetto a 200 mila euro). “Il Def è una sfida. Fallirà? Ci giudicherete da quello”, ha spiegato il ministro degli Affari europei Paolo Savona alla Camera, nell’ inedita veste di sostituto di Giovanni Tria, volato a Bali per gli incontri di Fmi e Banca mondiale.

Ogni lezioncina in tv del professor Cottarelli costa 6.500 euro alla Rai

Il Giornale
Paolo Bracalini
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Da mister spending review a quasi premier, fino a presenzialista tv a gettone. La vita da pensionato (d’ oro) di Carlo Cottarelli è diventata piena di impegni, sicuramente più divertente della precedente da funzionario del Fmi. Quando c’ è da spiegare lo stato dei conti pubblici italiani o smontare le misure economiche del governo l’ ospite da chiamare è lui. Nel giro di pochi mesi è passato da Palazzo Chigi (premier incaricato, ma giusto qualche giorno) agli studi di Fabio Fazio in Rai, come presenza fissa ad ogni puntata, la versione dotta della Littizzetto. Il senatore Maurizio Gasparri si è intestardito e ha martellato la Rai per sapere se la partecipazione dell’ economista cremonese al programma di Fazio fosse gratuita. Gli ha risposto prima Cottarelli che la Rai, dicendo che da Fazio non ci va gratis, ma che il compenso non viene versato a lui direttamente ma all’ Università Cattolica di Milano, ateneo nel quale Cottarelli guida l’ Osservatorio sui Conti Pubblici italiani. Quindi la Rai paga per averlo ospite, ma quanto? Stavolta è stata Viale Mazzini a rispondere: 6.500 euro a puntata. Funziona così. Nel contratto di appalto tra Rai e Officina, la società (al 50 di proprietà di Fazio) che produce il programma è previsto un budget per il compenso degli ospiti. Quindi la Rai paga Fazio per pagare l’ ospitata di Cottarelli, il cui corrispettivo viene però pagato all’ Università Cattolica dove lavora Cottarelli. Fatto sta che un’ azienda pubblica, di quelle che proprio lui aveva sotto la lente da «Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica», spende soldi pubblici per averlo ospite, seppure indirettamente. Infatti Gasparri non si dà pace: «L’ uomo della spending review, arrivato per tagliare la spesa, è finito ora nei gorghi delle spese Rai, indirettamente o direttamente. Cottarelli stava per diventare presidente del Consiglio ed è, quindi, oramai quasi un politico. Farebbe, quindi, bene ad andare gratis in televisione, come tutti noi». Tra l’ altro, come ha notato il deputato (ed ex conduttore tv) M5s Gianluigi Paragone, l’ ex «mr. Tagli» collabora con uno dei programmi finiti più spesso nel mirino per i notevoli costi a carico della tv di Stato (oltre 18 milioni di euro l’ anno, di cui 2,2 solo per il compenso di Fazio). Una star tv, ormai, anche se non è vero che Cottarelli si sia affidato ad una agenzia per gestirne le partecipazioni a programmi tv («Smentisco le voci che mi attribuiscono il dottor Caschetto come agente» ha twittato). È vero invece che Cottarelli, grande sostenitore del rigore sui criteri per il pensionamento, ha il privilegio di essere andato in pensione già a 59 anni (gli organismi internazionali, compresi quelli che danno lezioni di austerità, hanno regole previdenziali ultraprivilegiate per i loro dipendenti). Non un baby pensionato ma quasi. E con un assegno di lusso: 220mila euro l’ anno versato dal Fmi, che però al netto delle tasse italiane «si riduce a 118.500 euro», come rivelò a Il Tempo, spiegando di non aver approfittato della tassazione Usa più favorevole come avrebbe invece potuto. Fino al 2014 poi è stato commissario del governo italiano a 258mila euro l’ anno, prima che Renzi non lo invitasse a sloggiare. Stipendio che si sommava alla pensione d’ oro. Fino alla nuova carriera da economista televisivo, in prima serata, anche se per interposto compenso. Avesse potuto gestire i conti pubblici, da premier, come ha gestito i propri, saremmo a cavallo.

Media sempre più digitali al tempo della «star della porta accanto»

Il Manifesto
vincenzo vita
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È stato presentato ieri a Roma, nella sede della biblioteca del senato, il 15° rapporto del Censis sullo stato della comunicazione, intitolato «I media digitali e la fine dello star system». Introduzione del direttore generale Massimiliano Valeri e discussione con Gian Paolo Taglia via (Rai), Gina Nieri (Mediaset), Massimo Porfiri (Tv2000), Massimo Angelini (Wind Tre), Fabrizio Paschina (Intesa Sanpaolo) e Francesco Rutelli (Anica). Le conclusioni, ovviamente, del presidente Giuseppe De Rita, sempre brillante nel disegnare sintesi brevi ma efficaci, ora «non siamo un popolo di lettori, bensì di navigatori», dove ben si spiega il trionfo della rete e dei social. Bravo, anche se un po’ piccato per i memorabili affreschi «concorrenti» di Bauman, dalla «società liquida» in poi. Lo slogan dice molto e desta inquietudine: nel 2007 i quotidiani erano letti dal 67% degli italiani, percentuale ridotta nel 2018 al 37,4% (benché si registri un +1,6% nell’ ultimo anno); i fruitori dei libri (uno almeno all’ anno) sono scesi nello stesso periodo dal 59,4% al 42% e il calo per gli uni e per gli altri non è affatto compensato dall’ online; mentre la spesa per smartphone nel decennio è aumentata del 221,6% per un valore di circa 6,2 miliardi di euro negli ultimo mesi, e gli utenti che usano i social sono arrivati al 72,5% (oltre il 90% tra gli under 30). Si è passati dal digital al press divide? Del resto, trai desideri privati risaltano proprio i cellulari e i tatuaggi. La sbornia internettista, vale a dire la navigazione nella superficie della rete che è il 3/5 del tutto, riguarda pure l’ utilizzo dei nuovi strumenti nell’ agire politico, se è vero che il 47% delle persone giudica utile il ricorso massivo a Facebook, a Twitter o a Istagram da parte di esponenti delle istituzioni. Ci sono quasi altrettanti elettori dubbiosi o contrari. Tuttavia, è indispensabile che ci si renda conto che le prossime campagne elettorali avranno la competizione qualitativa nei e sui social. Chissà che le autorità competenti non si sveglino. Intendiamoci. Nelle diete mediatiche la televisione mantie ne un primato, ancorché ormai relativo. La tv digitale terrestre e la sorella satellitare si attestano, rispettivamente, all’ 89,9% e al 41,2%, ma entrambe cedono il 2,3% del pubblico solo nell’ ultimo anno. Continuano a crescere, invece, la diffusione televisiva via internet (30,1% della platea, +3,3%) e la mobile tv ((l’ 1% nel 2007 al 25,9%, +3,8% nel periodo recente). Il video on demand è la vera novità, perché si colloca al confine, con un successo del 30% tra i giovani. Il palinsesto tradizionale, più che la televisione in sé, è in una vera parabola discendente, visto che il consumo si intreccia e si allarga con un rapporto personalizzato con le fonti emittenti. E’ il contenuto, non il mezzo, a tornare centrale. Qui sta la vera rivoluzione digitale, che non riguarda solo le tecniche, bensì i modelli sociali e culturali. E la radio, ingiustamente considerata l’ anello debole del sistema, è sempre all’ avanguardia nei processi di ibridazione: meno radio classica, però spiccato utilizzo del Web. Insomma, è il fenomeno generale della disintermediazione: era «biomediatica», «reificazione» di se stessi (torna la Scuola di Francoforte?), reputazione «liquida» sono parole e concetti utili a descrivere il cambiamento. Il Censis, però, vuole osare e stupire. Il titolo del rapporto evoca la fine dello star system. «Uno vale un divo», si afferma. Ognuno vuole e forse può, stando ai talent e agli X -Factor, diventare famoso. Gli -le influencer (vedi Chiara Ferragni) soppiantano il vecchio immaginario? La star è nella porta accanto? Mah, Fanny Ardant rimane in un altro girone.

`Def: stop al pareggio di bilancio Aiuti a Roma, le condizioni Bce

Il Mattino
Andrea Bassi
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LA GIORNATA ROMA Nessun cronoprogramma per le misure. Nessun impegno temporale per risanare i conti. Più che rinviato, il pareggio di bilancio per il momento è congelato. E a stretto giro la Banca Centrale Europea che non potrà soccorrere l’ Italia a meno che non entri in un piano di salvataggio. Che significa accettare la cura da cavallo in genere richiesta a chi entra in crisi finanziaria. «Le regole Ue», hanno spiegato fonti citate da Reuters, «consentono alla Bce di aiutare un Paese soltanto nel quadro di un programma di salvataggio europeo» e che «aggirare tali norme minerebbe la credibilità della stessa Bce». Un avvertimento a Roma. Solo due giorni fa, parlando con la Stampa estera, il ministro delle Politiche Comunitarie, Paolo Savona, si era detto convinto che Mario Draghi sarebbe intervenuto in caso di necessità per stabilizzare l’ Italia. Anche se il Quantitative easing, l’ acquisto di titoli di Stato dei Paesi europei, terminerà a fine anno, Draghi ha sempre a disposizione il programma «Outright monetary transaction», ossia l’ acquisto illimitato per i Paesi in crisi che mettono a rischio la stabilità dell’ euro. Ma, come ha ricordato ieri la Bce, questo programma può essere attivato soltanto in cambio di riforme. L’ Italia ha invece imboccato una strada contraria. Ieri con due votazioni distinte sia alla Camera che al Senato, la maggioranza ha autorizzato il governo a non rispettare gli impegni presi con l’ Europa. Un voto accompagnato da due risoluzioni nelle quali sono ribaditi gli impegni di programma inseriti dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle nel contratto di governo. L’ ELENCO La giornata è convulsa. La maggioranza ha lavorato tutta la notte a limare i contenuti dei documenti approvati ieri a Montecitorio (331 voti favorevoli) e a Palazzo Madama (161 voti favorevoli). E non senza tensioni. I risultato è un equilibrismo estremo. I Cinque Stelle ottengono che venga inserita la cancellazione graduale dei fondi per l’ editoria a partire dal 2019. La Lega viene premiata con una corsia preferenziale per l’ autonomia di Veneto e Lombardia. Ma dentro le risoluzioni c’ è, come detto, tanto. C’ è, ovviamente, la conferma che si andrà avanti sui due capisaldi del programma gialloverde: il Reddito di cittadinanza dei grillini e la riforma della legge Fornero del Carroccio. Nessuna delle due misure, altra complicata intesa, partirà prima dell’ altra. Scatteranno solo ad aprile, a un mese esatto dalle consultazioni europee. Come fece Matteo Renzi nel 2014 con gli 80 euro. Il governo di centrosinistra, allora, fu premiato nelle urne con il 41%, ma fu anche l’ inizio della fine. Come detto l’ elenco degli impegni chiesti dai due partiti al governo è lungo: c’ è la cedolare secca sui negozi (subito applaudita da Confedilizia); c’ è il contrasto alle «culle vuote»; c’ è la flat tax al 15 per cento per le partite Iva e i professionisti e il taglio dell’ Ires per le imprese che investono e assumono; ci sono le cabine di regia sul taglio delle spese e quella sugli investimenti; c’ è la semplificazione burocratica; c’ è l’ implementazione «in tempi rapidi» della Banca degli investimenti di cui dovrebero farsi carico la Cassa Depositi e Prestiti e la Banca d’ Italia; c’ è la riqualificazione ambientale della città di Taranto; c’ è persino la riforma dei Tar e della Giustizia amministrativa e un generico «disegno di legge delega recante disposizioni per la riforma di alcuni istituti del Codice civile». Fin qui i contenuti. Ma a segnare la giornata sono state anche le polemiche politiche. Il ministro dell’ Economia, Giovanni Tria, non si è fatto vedere. A difendere la Nota di aggiornamento del Def si è presentata in aula il vice ministro Laura Castelli che, a un certo punto, ha lasciato il timone al ministro delle Politiche Comunitarie. Il Pd è insorto, chiedendo se il vero ministro dell’ Economia non fosse a questo punto lui. Savona ha fatto spallucce e ha ribattuto colpo su colpo le critiche delle opposizioni. Dell’ Upb, l’ Ufficio di bilancio che ha bocciato il Def, dice di non riuscire a pronunciare il nome perché lui era uno dei candidati a guidarlo ed è stato bocciato. Chiede da bere e, riferendosi probabilmente al presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker, dice: «Io vado ad acqua». LE REAZIONI Intanto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte twitta: «Via libera alla risoluzione di maggioranza sul Def. Il Parlamento sovrano si è espresso. Confermata la bontà delle misure economiche del governo. Ora avanti con fiducia sulla manovra, consapevoli di aver intrapreso la giusta direzione per rilanciare la crescita». Il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio dice che lunedì il cdm approverà la manovra. Una manovra che «Conte difenderà in Europa». Tagliando ancora una volta fuori il ministro dell’ Economia.

Due italiane nella Top25 della tv mondiale

Il Sole 24 Ore

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Ci sono due donne italiane nell’ Olimpo mondiale dell’ industria televisiva e dell’ intrattenimento. Una è Marina Berlusconi, la presidente di Fininvest e della casa editrice Mondadori; l’ altra è Eleonora Andreatta, la direttrice di Rai Fiction. Le due manager sono state inserite nella classifica delle 25 donne più potenti del settore della tv e dell’ entertainment; la classifica è l’ annuale graduatoria che viene stilata dal magazine Hollywoood Reporter e premia le donne manager influenti e innovatrici del mondo dei media e che “stanno cambiando a livello globale il modo di guardare la tv”. La più grande sfida per il futuro, ha dichiarato Marina alla rivista, è quella «di rimanere competitivi in un mercato che sta radicalmente cambiando». Il commento di Andreatta è che «il pubblico sia molto più disposto a essere sfidato e e stimolato di quanto si pensava una volta». Nella Top25 delle donne più potenti compaiono, tra le altre, Rebecca Campbell(la presidente di Walt Disney EMEA), Delphine Ernotte Cunci (presidente e Ceo di France Televisions) e alcune delle più importanti manager di aziende come Apple, Netflix e Amazon. (R.Fi.)

Mediaset rompe gli indugi sul digitale La piattaforma Premium andrà a Sky

Il Sole 24 Ore
Andrea Biondi
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Il giorno X dovrebbe essere l’ 1 novembre. Non ha intenzione di perdere tempo Mediaset nella vendita della “piattaforma” Premium a Sky. Tutto frutto dell’ accordo del 30 marzo che, fra le varie cose, prevede lo sbarco di Sky sul digitale terrestre, ospite proprio sulla piattaforma di casa Mediaset; l’ aumento della library per la pay tv di Murdoch con i canali di cinema e serie Premium che hanno in pancia le esclusive Warner (fino a dicembre 2020) e Universal (scadenza a fine 2018, ma rinnovo in discussione); l’ approdo di tutti i canali free-to-air del gruppo di Cologno sul l’ offerta satellitare di Sky dal 1° gennaio 2019 e, questione che sta arrivando al dunque, la vendita della “piattaforma”. Ad avere il pallino, in questo caso, è Mediaset: se il gruppo guidato da Pier Silvio Berlusconi decide di vendere ciò che ha già inserito nel veicolo societario R2, controllato al 100%, Sky deve comprare. La finestra per esercitare l’ opzione put è compresa fra l’ 1 e il 30 novembre. Mediaset, a quanto risulta al Sole 24 Ore, avrebbe deciso di provvedere subito. Anche perché la trafila non è da poco e l’ esito finale, tutto sommato, non si può dare per scontato al 100 per cento. Questo perché con l’ esercizio della put scatterà la notifica all’ Antitrust. L’ Autorità ha seguito la vicenda, richiedendo informazioni in almeno due momenti: in occasione dell’ annuncio dell’ accordo e poi in estate. Del resto, quello cui hanno lavorato e stanno lavorando Mazzoni Regoli Cariello Pagni, Cleary Gottlieb e Baker McKenzie per Sky Italia, con Chiomenti ed Ejc – Roberti per Mediaset, è un accordo complesso. Qualitativamente, è di certo un’ intesa win-win se si considera che Sky ha aumentato la sua offerta di contenuti per i clienti e ha potuto avviare la sua attività pay sul digitale terrestre mentre Mediaset porta i suoi canali sulla piattaforma Sky e cede una struttura di costo legata a un’ attività, la pay tv, sulla quale ha deciso di non insistere concentrandosi sulla tv in chiaro. Attenzione però: non è Premium che sarà venduta a Sky, ma l’ infrastruttura su cui poggia il tutto. Si parla di un insieme in cui rientrano circa 130 contratti di lavoro subordinato; il contratto con Nagravision che è la società che fornisce a Premium software e hardware per il criptaggio del segnale televisivo utile all’ attività pay; smart card; cam; decoder. Insomma, la parte “operation” comprensiva di gestione del billing, del customer care, del marketing, della parte tecnologica. Se comunque il risultato va a essere un depotenziamento della parte pay per Mediaset, è altrettanto vero che Premium rimarrà come editore dei canali. E in fondo la cosa a Cologno ora non dispiace visto che, secondo indiscrezioni di mercato, il parco abbonati sarebbe rimasto sopra il milione, senza le fughe di massa immaginate vista l’ assenza del calcio (anche se un po’, in streaming e per gli abbonati che hanno connessione web, c’ è in virtù dell’ intesa con Dazn). L’ operazione “R2”, stando alle dichiarazioni di fine aprile del Cfo Mediaset, Marco Giordani, dovrebbe avere un impatto positivo sull’ Ebit del Biscione per una cifra fra i 60 e i 70 milioni l’ anno. Tecnicamente si assisterà a un reverse outsourcing agreement. In sostanza: ora c’ è un accordo in base al quale Mediaset ospita sulla propria piattaforma Dtt l’ offerta digitale terrestre di Sky; a operazione conclusa, sarà Sky a ospitare Mediaset. Tutto possibile però, sempre per gli accordi di marzo, solo se l’ Antitrust darà l’ ok incondizionato. In caso contrario Sky ha la clausola che permette di recedere e tutto tornerebbe come adesso, ma con una Mediaset che potrebbe a sua volta esercitare, con congruo preavviso, il recesso dell’ agreement che porta Sky sulla sua piattaforma. Precisazione d’ obbligo: non ci sarà sospensiva del contratto in attesa dell’ Antitrust; il contratto si esegue comunque e in caso di esito negativo sarà risolto. Dopo il closing Antitrust ha 30 giorni di calendario per dare l’ ok (con o senza condizioni) o aprire una fase 2 che può durare fino a 45 giorni di calendario. È previsto anche il parere non vincolante di Agcom, in 30 giorni.

Tocca ai giornali: «Via tutti i fondi»

Il Tempo
Valerio Maccari
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Il governo si prepara a cancellare il sostegno all’ informazione. Dopo gli strali lanciati contro la stampa dal vicepremier Luigi Di Maio – che accusa l’ informazione di un’ operazione «di discredito del governo che continua senza sosta» – la maggioranza passa dalle parole ai fatti. E nella risoluzione alla Nota d’ aggiornamento del DEF, approvata al Senato con 161 sl e 109 no e alla Camera con 331 sl e 191 no, infila il «graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo quota del Dipartimento informazione editoria». Si procede dunque ad uccidere il Fondo, istituito nel 2016 per assicurare soprattutto la sopravvivenza dei giornali minori. A sostituirlo, per ora, solo un auspicio :nel testo si legge, infatti, che si dovrà provvedere al graduale azzeramento «assicurando il pluralismo dell’ informazione e la libertà di espressione». Tra le altre novità, di estendere la cedolare secca agli affitti dei locali commerciali, a partire dai cosiddetti esercizi di vicinato. Poi si conferma il taglio dell’ aliquota Ires l’ imposta sui redditi di 9 punti percentuali, dall’ attuale 24% al 15%, sugli utili reinvestiti in acquisto di macchinari e attrezzature innovative e nuove assunzioni. E l’ impegno chiesto al governo dalla maggioranza M5s-Lega nella risoluzione sulla nota di aggiornamento al Def depositata nell’ Aula del Senato. Rispunta pure la spending review. Ma senza cifre : la maggioranza M5s-Lega impegna il governo a creare «una cabina di regia unica presso il Mef in coordinamento con la Presidenza del Consiglio dei ministri, che procederà a una rapida e concreta attuazione del processo di revisione, razionalizzazione e riduzione della spesa». Nessun riferimento, invece, ai tempi di attuazione della riforma della legge Fornero, con l’ introduzione di “quota 100”, e per l’ introduzione delle pensioni e del reddito di cittadinanza. Ma è possibile – ammette Claudio Borghi, presidente leghista della commissione Bilancio della Camera – che i due, provvedimenti, con la reintroduzione delle finestre per l’ uscita dal lavoro, partano solo dopo il primo trimestre 2019. Novità più corpose, invece, emergono dalla bozza del decreto Fisco, che sarà collegato alla manovra :sanzioni me no pesanti per i ritardi nell’ emissione della nuova fatturazione elettronica, proroga di 12 mesi per la mobilità in deroga nelle aree di crisi, cancellazione della soglia minima di 100 lavoratori per usufruire della Cig straordinaria. Poi l’ assegnazione di quindici milioni di euro per il porto di Genova e dieci per l’ autotrasporto. E, dulcis in fundo, l’ estensione del condono ai mini debiti fiscali: l’ ipotesi allo studio è di procedere allo stralcio totale, cioè cancellazione del debito delle mini -cartelle sotto i mille euro più “vecchie”, quelle tra il 2000 e il 2010. Un intervento – spiega la maggioranza che consentirebbe di liberare il “magazzino” della ex Equitalia di un quarto dei crediti non riscossi, cancellando il 25% delle cartelle. «Questo aiuterà anche la pulizia del magazzino delle cartelle spiega il sottosegretario all’ Economia Massimo Biton ci, della Lega, ai microfoni di Agorà su Rai 3- che è arrivato a 850 miliardi, si incrementa di 50 miliardi l’ anno. Gli uffici non riescono più a lavorare».

Mediaset sorride ai conti 2018

Italia Oggi
CLAUDIO PLAZZOTTA
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I conti del gruppo Mediaset, che nel 2017 hanno chiuso con 90,5 milioni di euro di utili, si preparano a ricevere una bella iniezione di effetti positivi per la fine del 2018, soprattutto dalle attività italiane, che invece nel 2017 erano terminate con un triste rosso di 9,9 milioni. In questo esercizio, infatti, ci sono i 510 milioni di euro di plusvalenze che Mediaset incasserà dopo l’ opa su EiTowers. Cui sommare i 30-35 milioni di euro di benefici dall’ intesa Mediaset Premium-Sky, che, come spiegato dal cfo Marco Giordani, diventeranno 60-70 milioni nel corso del 2019. Dal Mondiale di calcio in Russia, evento che, in genere, si traduce in perdite per il broadcaster televisivo che lo trasmette, a Cologno Monzese sono invece riusciti a spremere una decina di milioni di utili. E pure il fronte radiofonico, con una redditività 2018 del 20% sul fatturato di 70 milioni, non vedrà quest’ anno le rettifiche negative di valore, pari a 26,5 milioni, che avevano affossato i conti di Radio Mediaset nel 2017. Ci sono inoltre i due nuovi canali free Venti e Focus con una share complessiva dell’ 1,5% che porterà un incremento del fatturato pubblicitario. Risultati che porteranno il gruppo a tornare a distribuire il dividendo. In attesa dell’ udienza del prossimo 23 ottobre, relativa alla causa civile da 3 miliardi di euro di danni intentata da Mediaset contro Vivendi, la raccolta pubblicitaria, fonte di gran lunga principale per i ricavi del Biscione, marcia a un ritmo del +4% nei primi otto mesi dell’ anno. E non c’ è preoccupazione per l’ andamento degli ascolti di Canale 5, particolarmente negativo nella media complessiva di settembre. I vertici del gruppo televisivo guidato dal vicepresidente e a.d. Pier Silvio Berlusconi, infatti, dopo lo sforzo per l’ acquisizione dei diritti tv esclusivi dei Mondiali di calcio (pagati 78 milioni di euro), hanno preferito fare slittare di qualche settimana la partenza a regime dei palinsesti di Canale 5. Recuperando, tra fine settembre e inizio ottobre, buona parte del gap accumulato nei confronti di Rai Uno. Tanto per dare qualche numero, nella settimana 9-15 settembre Rai Uno era al 17,5% di share nelle 24 ore e al 22,5% in prima serata, rispetto a un Canale 5 fermo al 13,2% nelle 24 ore e all’ 11,3% in prima serata. Un netto distacco che poi si è ridotto già nella settimana 23-29 settembre: Rai Uno al 16,3% nelle 24 ore e al 18,4% in prima serata, con Canale 5 che risale al 16,1% nelle 24 ore e al 15,3% in prima serata, performance poi confermate da entrambe le ammiraglie nella settimana 30 settembre-7 ottobre. Il complesso di reti Mediaset, nella prima settimana di ottobre, ha raggiunto quota 33,6% di share nelle 24 ore, uguagliando la media dello stesso periodo 2017 nonostante l’ assenza dei match di Serie A di calcio su Premium e della Champions League di calcio sia su Premium sia in chiaro su Canale 5. Contenuti calcistici che da soli, lo scorso anno, avevano portato alle reti del Biscione un punto percentuale di ascolto medio in più. Va, tuttavia, considerato che nel 2018 di Mediaset ci sono anche gli ascolti di 20, di Focus e quelli aggiuntivi portati da Canale 5 dal 5 settembre tornato sulla piattaforma Sky, che invece nel 2017 non c’ erano.

Radio Player Italia, c’ è anche Rtl 102.5

Italia Oggi

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Le emittenti radiofoniche italiane sono pronte a riunirsi in Radio Player Italia, associazione per aggregare le principali stazioni nazionali e locali che vogliono stare al passo con le nuove modalità di ascolto via web. Automobili connesse a internet oppure abitazioni in cui si ascolta la musica attraverso smart speaker, una sorta di altoparlanti capaci d’ interagire via wifi con tutti gli elettrodomestici di casa, sono solo due esempi delle nuove abitudini online dei radioascoltatori. Prepararsi a queste evoluzioni significa per il mezzo radio non solo monitorare i trend di mercato ma porre anche degli argini a una possibile invasione online da parte di colossi come Google, Spotify, Apple o Amazon che proprio in rete sono nati. Finora la radio si è confermata un mezzo di comunicazione vivace, sia dal punto di vista degli ascolti sia da quello delle inserzioni pubblicitarie. Adesso, però, il cammino si fa tutt’ altro che facile considerando la concorrenza dei big della rete. Radio Player Italia si potrà concretamente tradurre in un’ applicazione che aggreghi le singole stazioni. Una delle stazioni fm più determinate a sostenere la nuova piattaforma è la Rai ma dietro di lei ci sono, tra le altre, anche Rds e Rtl 102.5. «Credo che l’ implementazione di Radio Player Italia, nell’ insieme di un’ offerta radiofonica moderna e al passo con i tempi, possa essere una novità molto utile e di prospettiva», ha confermato Lorenzo Suraci, editore di Rtl 102.5. «Radio Player Italia, al pari di altre iniziative nel campo del digitale, è considerata da Rtl 102.5 importante, per consentire al mezzo radio di prepararsi ad affrontare le nuove forme di concorrenza, che già intravvediamo. Negli anni la radio ha mostrato una straordinaria capacità di adattamento al mutare dei gusti del pubblico e saprà certamente raccogliere e vincere la sfida dei colossi digital, anche attraverso iniziative mirate, come Radio Player Italia che potrà certamente contare sul nostro supporto».

Rai, calma piatta dopo l’ investitura di Foa ma le nomine di tg e reti non ci sono ancora

Italia Oggi

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La Rai non ha convocato nessun consiglio di amministrazione per questa settimana. Né risultano comunicazioni per la prossima. Quindi, dopo le polemiche e il dibattito per la scelta del presidente Marcello Foa, torna la calma in Viale Mazzini, almeno all’ apparenza. Eppure da definire ci sono ancora le nomine di telegiornali e reti, senza dimenticare l’ ordinaria amministrazione della tv pubblica. A pesare, secondo indiscrezioni di stampa, è il mancato accordo nel governo giallo-verde, peraltro impegnato in questi giorni sulla manovra e il Def. «Manca ancora qualche pezzo», spiega un esponente di rilievo della maggioranza che ha spinto Foa verso la poltrona di presidente. La trattativa è tutta nell’ interlocuzione tra Movimento pentastellato e Lega. Sempre secondo i rumors circolati recentemente, Beppe Grillo ha espresso la chiara determinazione a fare in modo che in Rai arrivi «aria fresca» con la scelta di uomini lontani da intrecci tra politica e azienda. La madre di tutte le partite resta quella per la direzione del Tg1. Ruolo per il quale la Lega aveva pensato a Gennaro Sangiuliano, con Alberto Matano destinato alla vice direzione del telegiornale dell’ ammiraglia Rai. Ma per la stessa poltrona si sono rincorse voci di un arrivo in Rai di Andrea Bonini, volto noto di Sky, per quattro anni corrispondente dagli Stati Uniti, autore nel 2010 di una delle prima interviste a Beppe Grillo (quando a dirigere il tg di Sky era Emilio Carelli, ora senatore Cinquestelle). Tutta da capire anche la non scontata conferma alla guida della TgR, che sarebbe però sostenuta dalla Lega, di Alessandro Casarin, al momento all’ interim dopo l’ addio di Morgante, andato a dirigere Tv2000. Per Rainews il candidato più quotato sembra Luciano Ghelfi ma potrebbe anche essere scelto per la guida del Tg2. Sull’ arrivo di professionalità dall’ esterno si sono espressi Usigrai e opposizione ma è sotto accusa anche lo stallo di queste settimane. «Non capisco, non vedo attività, il consiglio non si riunisce e ci sono diverse cose che devono essere esaminate, sono preoccupata», dice la consigliera di amministrazione Rita Borioni, vicina al Pd. «Sono passati quindici giorni dalla nomina del presidente ma siamo ancora in attesa di capire dove stiamo andando, in quale direzione. Anzi, direi, siamo in trepida attesa di vedere cosa succede». In base alla nuova legge di governance della Rai, il cda è tenuto a esprimere un parere non vincolante sulle nomine (tutte comunque proposte ai consiglieri dall’ a.d. Fabrizio Salini) che riguardano le reti e un parere vincolante, se espresso dai due terzi del cda, per quanto riguarda le testate. Intanto martedì prossimo, c’ è in programma l’ audizione in commissione di Vigilanza del ministro dell’ economia Giovanni Tria. È fissata, come prevede la legge, anche un’ audizione dell’ a.d. Salini ma il Pd ha chiesto che avvenga prima di eventuali nomine decise dal cda, anche se quest’ ultimo non è ancora in agenda. Ad ogni modo se M5s e Lega dovessero giungere a un accordo già il giorno dopo l’ audizione di Tria in Vigilanza la parola potrebbe passare al cda.

Chessidice in viale dell’ Editoria

Italia Oggi

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Censis: a radio, tv e giornali il primato della credibilità. Secondo il 15esimo rapporto sulla comunicazione del Censis, la radio ottiene il primato della credibilità tra i media: il 69,7% degli italiani la considera molto o abbastanza affidabile. La televisione è considerata affidabile dal 69,1% e anche la stampa viene considerata credibile da una quota maggioritaria di italiani: il 64,3%. Nella parte inferiore della graduatoria si collocano invece i siti web d’ informazione: solo il 42,8% degli italiani li considera pienamente credibili. In questo caso si rileva una polarizzazione tra giovani e anziani: tra i primi il giudizio negativo è espresso dal 45,8%, tra i secondi è ai massimi livelli (79,1%). Ultimi in classifica si collocano i social network, ritenuti non del tutto affidabili dal 66,4% degli italiani. Marina Berlusconi tra le 25 donne più influenti della tv mondiale. Il magazine americano The Hollywood Reporter colloca Marina Berlusconi tra le 25 donne più potenti al mondo nel settore della tv e dell’ entertainment. Quella che è considerata la bibbia di Hollywood, ha pubblicato la versione 2018 della sua annuale lista che premia le donne manager più influenti e più innovatrici del mondo dei media e che «stanno cambiando a livello globale il modo di guardare la tv». Il presidente di Fininvest e Mondadori, già presente in precedenti edizioni, ha dichiarato alla rivista americana che la più grande sfida per il futuro è quella «di rimanere competitivi in un mercato che sta radicalmente cambiando». Nella lista insieme a Marina Berlusconi ci sono, tra le altre, il presidente di Walt Disney Emea Rebecca Campbell, il presidente e ceo di France Televisions Delphine Ernotte Cunci, alcune delle più importanti manager di aziende come Apple, Netflix e Amazon, e un’ altra italiana, la direttrice di Rai Fiction Eleonora Andreatta. Panorama, no dei giornalisti alla vendita. La redazione del newsmagazine edito da Mondadori ha votato ieri all’ unanimità contro la cessione della testata alla casa editrice della Verità, quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Già ieri, quindi, i giornalisti hanno proclamato lo sciopero. La posizione contraria alla vendita arriva dopo la comunicazione delle condizioni richieste dall’ acquirente per finalizzare l’ operazione, in particolare la riduzione complessiva del 45% delle retribuzioni, considerando anche l’ azzeramento dei gradi redazionali o il pagamento forfetizzato previsto per gli straordinari. Peraltro, secondo i giornalisti, non sono state date garanzie occupazionali per il futuro. Nel caso di mancata vendita, il rischio paventato è la chiusura del settimanale. Tod’ s, Michele Lupi nuovo men’ s collections visionary. È un ruolo innovativo quello creato in Tod’ s per Michele Lupi, già direttore di testate come GQ, Rolling Stone, Icon e Icon Design. Il giornalista dal prossimo 1 dicembre entrerà a far parte del team del Gruppo Tod’ s con l’ obiettivo di arricchire la squadra che si sta formando in vista delle sfide future che rientrano nel progetto Tod’ s Factory, nel quale Lupi sarà coinvolto. Il nuovo DLUI. Il magazine maschile allegato a D ha una nuova formula grafica da domani in edicola con Repubblica e poi da solo per un mese. A partire dalla copertina: una sola foto invece delle precedenti 4. Quella del primo nuovo DLUI è dedicata ad Alex Honnold, climber mitico per tutti gli arrampicatori. Potenziate le storie, le interviste e i reportage dall’ Italia e dal mondo, molti dei quali prodotti in esclusiva per DLUI. Novità anche per il tipo di carta: non patinata, più ruvida, di maggior spessore e consistenza. Apple, il servizio di video streaming gratis per chi usa suoi dispositivi. Apple consentirà agli utenti dei propri dispositivi di guardare gratuitamente il servizio di video in streaming della società di Cupertino. Chi possiede un iPhone, un iPad o un’ Apple Tv troverà il servizio «Tv» preinstallato, secondo quanto riferisce Cnbc citando fonti anonime. L’ offerta potrebbe poi trasformarsi in un servizio a pagamento, simile a Netflix. Real Time sbarca su Instagram Tv. Real Time sbarca sulla nuova piattaforma social Instragram Tv per la promozione del ritorno di Cortesie per gli ospiti sul canale, dal Lunedì al Venerdì alle 20:10. Dieci episodi, della durata di circa 8 minuti, prodotti esclusivamente per la piattaforma e fruibili da smartphone nell’ inedito formato verticale 9:16, che vedranno contenuti extra girati ad hoc con i protagonisti dello show intrecciarsi e alternarsi ad alcune parti di puntata originale. Oggi la seconda giornata di Internet Festival a Pisa. Da Google ai Radiohead, dalle fake news all’ intelligenza artificiale ai nuovi diritti in rete. Sono alcuni dei temi che saranno protagonisti oggi della seconda giornata di Internet Festival, l’ evento dedicato all’ innovazione digitale, in programma a Pisa fino a domenica. La parola chiave di questa edizione è #intelligenza, declinata in decine di eventi ospitati in varie location in città. Avvenire compie 50 anni, presentato il francobollo dedicato. Il ministero dello sviluppo economico ha autorizzato l’ emissione di un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica «Le eccellenze del sistema produttivo ed economico» dedicato ad Avvenire, il quotidiano di ispirazione cattolica che quest’ anno celebra il 50° anniversario della fondazione.

Streaming, Warner affila le armi

Italia Oggi
MARCO A. CAPISANI
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Inizia a essere un campo di battaglia affollato quello della tv in streaming on demand. L’ anno prossimo debutterà la nuova piattaforma Warner, dopo l’ acquisizione a giugno degli storici studios Time Warner da parte di At&t per 85,4 miliardi di dollari (pari a 73,7 miliardi di euro). Lo ha confermato ufficialmente John Stankey, a.d. di Warner Media, ben sapendo che nel 2019 arriverà anche la nuova offerta Disney, cavalcando la fusione con 21st Century Fox. Ma «Disney non ha un servizio premium a pagamento come il nostro, che include Hbo per esempio», ha chiarito subito Stankey, preferendo concentrare subito l’ attenzione su Netflix e Amazon per una «competizione diretta». Il nuovo servizio targato Warner costerà più di 15 dollari al mese (quasi 13 euro). Entro la fine dell’ anno prossimo, quindi, Warner Media medita di riunire Hbo e le serie tv, i film della Warner bros assieme a sport, documentari e cartoni animati (del gruppo fa parte anche Dc Comics). Non è scontato che nel raggruppamento entri anche il canale all news Cnn; viceversa dal gruppo americano hanno fatto sapere che non rinnoveranno un quarto dei contratti di licenza firmati con editori terzi, in modo da riportare a casa alcuni titoli di appeal verso il grande pubblico. Tra questi ultimi c’ è la serie tv Friends, oggi su Netflix. Ma, a proposito di produzioni famose, Warner ha anche i diritti su Game of Thrones, Harry Potter e Wonder Woman. Hbo è di sicuro la gemma più importante del tesoretto media di At&t (con i suoi 5 milioni di iscritti) ma «non sarà il magazzino in cui riunire tutti i contenuti di cui disponiamo», ha proseguito Stankey. «Il suo posizionamento rimane. La sua funzione sarà quelle di attirare nuovi clienti». Quello su cui sembrano puntare nel nuovo gruppo At&t è offrire al pubblico tutta la libreria di produzioni in un solo abbonamento. Di conseguenza, resta da definire che fine faranno servizi on demand già esistenti come quello di Dc Comics. Per portare sul mercato una proposta solida, però, «abbiamo bisogno ogni giorno di ore (di programmazione, ndr)», ha spronato i suoi il manager. «Non è questione di numero di ore alla settimana, ma al giorno, se vogliamo competere con device che, dalle mani degli stessi utenti, catturano la loro attenzione ogni 15 minuti». E anche se At&t ha molti contenuti a disposizione, l’ osservazione non è banale ricordando che Netflix, considerata la piattaforma più importante nel settore, deve sostenere le spese per produrre titoli orginali (circa 8 miliardi di dollari, pari a 6,9 miliardi di euro) e prevede un risultato operativo per la prima volta in contrazione, nella seconda parte di quest’ anno (vedere ItaliaOggi del 18/7/2018). Nella fattispecie della nuova Warner, però, l’ amministratore delegato di At&t Randall Stephenson ha dichiarato che si aspetta un aumento della redditività di alcune divisioni, a seguito dell’ acquisizione della società media (che in dote ha portato pure debiti per 180 miliardi di dollari, ossia 155,4 mld di euro). Obiettivo: dare filo da torcere alla concorrenza, sicuramente, ma anche uno schiaffo morale al presidente Donald Trump che tanto ha avversato l’ operazione At&t+Time Warner, fin da quando era solo un candidato alla Casa Bianca.

Dalla Rai all’ Antitrust Lo stallo sulle nomine

La Stampa

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Sembrava tutto così semplice all’ inizio. Poi, mese dopo mese, complici le prime emergenze dal crollo del ponte di Genova alla Legge di stabilità, ma anche le tante divergenze nella spartizione delle poltrone, il governo giallo-verde ha rallentato la corsa sulla nomine dei vertici di aziende partecipate e Authorities. Alla Rai dopo la tribolata nomina di Marcello Foa alla presidenza è ancora stallo, e così pure alla Consob dopo le dimissioni forzate di Mario Nava (lo scorso 13 settembre), all’ Antitrust e pure al vertice del Gestore del servizio elettrico. Non solo, lo stallo governativo riguarderebbe pure il cambio (ventilato da più parti in queste settimane) dei vertici dell’ intelligence italiana. Tutto fermo nonostante nelle ultime ore il presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia riunito a Palazzo Chigi il Comitato interministeriale per la Sicurezza.

Classifiche e trend dei quotidiani più diffusi e più venduti in edicola: Ads agosto 2018

Prima Comunicazione

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15esimo rapporto Censis sulla comunicazione

Prima Comunicazione

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Cresce la diffusione della Rete e il numero degli utenti social, mentre la tv tradizionale, pur risentendo dell’ attacco dei servizi streaming, resta il media più amato in Italia. Sono questi alcuni dei principali trend di consumo fotografati dal 15esimo Rapporto sulla comunicazione del Censis, che dal 2001 monitora i consumi dei media analizzando i cambiamenti nella dieta mediatica degli italiano e la loro ricaduta sulla vita del Paese. Intitolato ‘i media digitali e la fine dello star system’, l’ analisi è stata presentata questa mattina a Roma dal direttore generale del Censis Massimiliano Valerii in un dibattito a cui hanno partecipato Gina Nieri di Mediaset, Gian Paolo Tagliavia della Rai, Massimo Porfiri di Tv2000, Massimo Angelini di Wind Tre, Fabrizio Paschina di Intesa Sanpaolo, Francesco Rutelli di Anica e il presidente del Censis Giuseppe De Rita. Dai dati emerge che l’ uso di internet e degli smartphone interessa rispettivamente il 78,4% e il 73,8% degli italiani, e nel 2018 il primo ha registrato una crescita del 3,2%, il secondo dell 4,2%. In crescita anche gli utenti dei social network, che salgono al 72,5% della popolazione, con più della metà degli italiani che sceglie Facebook (56%) e YouTube (51,8%). Tra gli altri social un notevole balzo in avanti lo registra Instagram, che raggiunge il 26,7% di utenti con 55,2% di giovani; al contrario declina Twitter, che scende al 12,3%. La televisione tradizionale però resta ancora oggi il media più amato. L’ 89,9% di italiani vedono la tv digitale terrestre e il 41,2% la tv satellitare, ma c’ è un cambiamento: perdono entrambe il 2,3% di spettatori. Quelle che crescono invece in maniera molto significativa, specie tra i giovani, sono le televisioni che si prestano al palinsesto fai da te e cioè le web-tv e le smart-tv che raccolgono il 30% dell’ utenza, e la mobile tv che conta 25,9% di spettatori. Altro segnale forte delle trasformazioni in atto è la crescita degli abbonati alle piattaforme on demand di video streaming – da Netflix ad Infinity a Tim Vision – che in un anno sono passati dall’ 11% al 18% con punte del 29% tra i giovani under 30. La radio invece si presenta come un mezzo all’ avanguardia nell’ ibridazione tra i media. Se i radioascoltatori rappresentano il 79,3% degli italiani a testimoniare la popolarità del mezzo, la radio tradizionale perde il 2,9% dell’ utenza cresce invece l’ ascolto delle trasmissioni radiofoniche via pc (il 17% degli italiani) o via mobile (il 21% e +1,6% sul 2017). Lo sviluppo impetuoso dei media digitali si accompagna ad un discorso diametralmente opposto che riguarda la carta stampata e l’ ampliamento del press divide: il 56% degli italiani non contempla abitualmente nella sua dieta mediatica i mezzi cartacei, libri giornalisti riviste periodici di carta. Crisi anche del libro e dei lettori: solo il 42% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’ anno e gli e-book si fermano all’ 8,5%. Una tendenza che paradossalmente si accompagna ad un aumento dei livelli di istruzione per una maggiore incidenza di laureati. Quest’ ultimo Rapporto appare particolarmente significativo perché mostra in piena evidenza la rivoluzione indotta in tutta la filiera dei media e non solo dai processi di disintermediazione digitale e della digital life tanto che si arriva a parlare di ‘mutazione antropologica’. “La novità del Rapporto è che segna un salto d’ epoca – commenta Massimiliano Valerii – non soltanto perché i media digitali continuano a battere nuovi record: otto italiani su dieci utilizzano internet, sette su dieci hanno lo smartphone connesso in rete ed altrettanti utilizzano i social network. L’ effetto finale di tutto questo grande processo di disintermediazione digitale è la fine dello star system per come l’ avevamo conosciuto”. Nell’ era biomediatica, si legge nel documento, la metà degli italiani ritiene che chiunque può diventare un divo, un terzo considera che per essere una celebrità bisogna essere attivi sui social network un quarto dice che i divi del passato non esistono più. Solo uno su dieci si riferisce ai divi come dei miti a cui ispirarsi per la propria vita. “E’ entrato in crisi quel congegno sociale di proiezione e imitazione, che il divismo invece aveva molto segnato nella seconda metà del novecento, in quell’ epoca in cui l’ Italia cresceva, aveva un’ agenda sociale molto compatta e condivisa e in cui il divismo giocava un ruolo anche dal punto di vista sociale”, ha aggiunto Valerii a proposito delle implicazioni figlie della smitizzazione del divismo. Oggi “siamo tutti divi, il che vuol dire che in realtà nessuno lo è più e questo blocca quel meccanismo sociale di proiezione e di tipo aspirazionale”. “Non lo diciamo con nostalgia perché non bisogna mai rispetto ai cambiamenti reclinare la testa all’ indietro , ma questo è un aspetto importante in termine di impatto dei cambiamenti delle diete mediatiche degli italiani sul corpo sociale”. Nella fotografia del Censis si evidenzia anche la forte cesura generazionale nei consumi mediatici. Tra di under 30 la quota di utenti di Internet supera il 90% mentre si ferma al 42,5% tra gli over 65 Come pure l’ 86% dei giovanissimi usa lo smartphone contro il 35% degli anziani, E se più della metà dei giovani si informa sul web lo fa appena un quinto della tribù dei capelli grigi. E l’ informazione? Se i telegiornali sono ancora la principale fonte di notizie per gli italiani il Rapporto fotografa il crollo dei lettori dei quotidiani. Se nel 2007 il 67% degli italiani non rinunciava alla lettura del quotidiano la percentuale è scesa al 37,4% nel 2018 ( anno in cui peraltro si registra un +1,6% di utenza). Un calo che non è stato compensato dalle testate on line dei quotidiani seguiti dal 26,3% degli italiani mentre crescono molto gli aggregatori di notizie e i portali generici di informazione (46%). Ma anche da questo punto di vista il 2018 segna una novità: l’ informazione on line attraverso i social e soprattutto via Facebook – cresciuta negli ultimi anni al punto tale che il social di Zuckerberg è diventato il secondo mezzo di informazione dopo i telegiornali – registra invece una battuta d’ arresto. Ha pesato probabilmente il dibattito sulle fakenews e lo scandalo di Cambridge Analitica che devono aver fatto sì, si legge nel Rapporto, che in generale l’ informazione on line, quella non professionale e autorevole dei giornalisti, abbia perso di credibilità. C’ è quindi un ritorno alle forme di informazioni autorevoli e professionali ed è la prima volta che si registra questa svolta. Eppure l’ uso politico dei social network viene visto con favore da quasi la metà degli italiani (47,1%) per il fatto che cittadini e politici possono parlarsi bypassando i tradizionali mediatori. Il 29,2% degli italiani è invece contrario perché si favorirebbe il populismo mentre per il 23,7% si fa solo gossip e le notizie importanti si trovano solo sui giornali e in tv. “C’ è una crescita di consapevolezza degli italiani – commenta il direttore generale Censis – che non rinnegano i meccanismi di disintermediazione digitale e ne è una conferma che la metà della italiani giudica preziosa o comunque utile l’ uso dei social in politica. Allo stesso tempo è però cresciuta la consapevolezza nei termini di affidabilità dei media che vengono consultati per informarsi per cui i giornali radio, i telegiornali, le all news, la carta stampata hanno più credibilità nell’ opinione degli italiani rispetto alle altre fonti che si possono trovare sul web”. Tra gli interventi alla presentazione, anche quello di Fabrizio Paschina, direttore comunicazione e immagine di Intesa Sanpaolo. A dimostrazione di come il report, oltre a delineare la situazione media nel paese, abbia valore anche per i brand, nell’ aiutarli a capire come relazionarsi con i diversi pubblici, Paschina ha detto: “In Intesa Sanpaolo, misuriamo costantemente la nostra reputazione e sappiamo che, se aumentiamo anche solo di un punto il grado di familiarità con il brand, la reputazione della banca cresce di 4.4 punti. Ciò significa che chi ci conosce bene, ci apprezza maggiormente e si rende portavoce dei nostri valori e delle nostre iniziative. Per le marche non esistono rendite di posizione. Per mantenere alto il livello di fiducia nell’ azienda, uno degli asset più importanti per ogni azienda, ma fondamentale per una banca, occorre innovare e comunicare facendo conoscere con continuità le proprie attività. La fiducia è alla base della reputazione: entrambe si costruiscono giorno per giorno studiando i target e coltivando con loro un dialogo aperto e costruttivo con contenuti di qualità tagliati per i diversi pubblici”.

L'articolo Rassegna Stampa del 12/10/2018 proviene da Editoria.tv.


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