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Rassegna Stampa del 25/06/2018

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In Sicilia sul web si è rotto il duopolio Ciancio-Ardizzone

Troppe lauree senza futuro

Informazione e digitale: si può cambiare

Web, personale a peso d’ oro

SALVIAMO INTERNET? INTANTO I COLOSSI FANNO LA LORO CORSA

L’ assalto dei social alla tv

Un occhio scova le prove contro le truffe sulla Rete

In Sicilia sul web si è rotto il duopolio Ciancio-Ardizzone

Il Fatto Quotidiano
Saul Caia
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Pochi avrebbero scommesso dieci anni fa che la Sicilia avrebbe avuto un pluralismo nell’ informazione. Il duopolio formato dai quotidiani La Sicilia, dell’ editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, e da Il giornale di Sicilia, della famiglia palermitana Ardizzone, che ha controllato il settore si è definitivamente interrotto. Il lettore dell’ isola che per informarsi acquistava uno dei due quotidiani (più la Gazzetta del Sud nella parte nord orientale), con le parentesi de L’ Ora di Palermo e I Siciliani di Pippo Fava, oggi può contare su diversi giornali web. Il primo caso è stato LiveSicilia, con le sue redazioni a Palermo diretta da Accursio Sabella e a Catania da Antonio Condorelli. I cronisti, quasi tutti under40, seguono le trame della politica, i processi giudiziari e gli equilibri della mafia. Altro giornale molto seguito è MeridioNews, una giovane redazione under35 diretta da Claudia Campese, che con approfondimenti, dossier e inchieste racconta tutti i giorni i lati oscuri dell’ isola. L’ ultimo reduce della vecchia scuola di Pippo Fava rimasto alle pendici dell’ Etna, è il sognatore Riccardo Orioles, faro della nuova generazione de I Siciliani Giovani. Ma il cambiamento è stato lento, e sono servite battaglie e denunce per aprire uno spiraglio nel duopolio. Basti pensare che quando nel 1997 la Repubblica decise di aprire una redazione nell’ isola, la città di Catania ne rimase immune. Questo perché Ciancio strinse un accordo con i vertici del gruppo editoriale romano, concedendo di stampare le pagine locali del quotidiano nei suoi stabilimenti, senza però distribuirli nella città etnea. La forza del gruppo editoriale di Ciancio, allargato anche nella televisione, radio e pubblicità, è uno degli elementi usati dalla Procura etnea nel processo a suo carico per concorso esterno in associazione mafioso, perché l’ editore avrebbe favorito o rallentato l’ uscita di alcune notizie, che avrebbero fatto comodo ad ambienti mafiosi. Da citare anche SiracusaNews, fondata dieci anni fa dal trentasettenne Giangiacomo Farina; Siracusa Oggi affiancata dalle frequenze radio di Fm Italia; nell’ agrigentino Franco Castaldo dirige Grandangolo; Giacomo Di Girolamo guida Trapani24; BlogSicilia; il network Today; e Paolo Borrometi, oggi sotto scorta per minacce di mafia, dirige La Spia. Eppure se il pluralismo ha portato nuova linfa all’ informazione isolana, resta il problema dell’ equo compenso. Tanti, forse troppi, giornalisti – pubblicisti e professionisti – pagati a pezzo, molti dei quali freelance con partita iva, senza rimborsi per le trasferte, che per un singolo articolo possono ricevere da un minimo di due euro a un massimo di dieci. In una giornata potrà andare bene per fare colazione e per un pasto veloce. I più fortunati hanno un contratto part time, sui 400-500 euro mensili, oppure un full time, tra gli 800-1000 euro. Una condizione che rende il cronista sempre più vulnerabile, costretto a dover contare solo sulla sua passione.

Troppe lauree senza futuro

Italia Oggi Sette
MARINO LONGONI MLONGONI@CLASS.IT
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I dati statistici sull’ occupazione vanno sempre presi con le pinze, perché dipendono dai criteri che vengono utilizzati per definire chi rientra nelle categorie di occupato/disoccupato, a volte molto lontani dal senso comune. Dalla ricerca compiuta dall’ Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro (che sarà presentata al Festival del lavoro che si apre a Milano il 28 giugno) emerge però in modo chiaro la difficile situazione che stanno vivendo i giovani italiani, sui quali si sono scaricati in modo violento gli effetti della crisi economica degli ultimi dieci anni. Alcuni dati impressionano in modo particolare: tra i laureati nella classe di età tra 20 e 34 anni (circa 1,2 milioni) che hanno un’ occupazione, ben il 28% (348 mila) risulta sovraistruito, cioè occupa una posizione professionale che in realtà non richiede la laurea. Stiamo parlando di circa il 30% dei giovani laureati, costretto ad accettare un lavoro inferiore alle proprie aspettative, con punte di sovraqualificazione anche sopra al 50% per chi proviene dalle facoltà di lingue e scienze sociali, mentre per i laureati in medicina, ingegneria, statistica e farmacia il fenomeno è più contenuto e non raggiunge il 20%. La crisi economica ha poi aggravato notevolmente un secondo aspetto, quello della sotto occupazione: tra chi ha meno di 34 anni si è infatti passati da un’ incidenza di part-time involontario pari al 48,3% del 2008 al 74,8% del 2017. Nello stesso periodo, mentre il numero dei giovani con contratto a tempo determinato è rimasto sostanzialmente invariato, quelli con contratto a tempo indeterminato sono scesi da 4.200.000 a 2.700.000. Una categoria in via di estinzione. Era inevitabile che una crisi violenta come quella attraversata dal Paese negli ultimi dieci anni si ripercuotesse soprattutto sui giovani, ma la drammaticità di questi dati segnala anche il sostanziale fallimento delle politiche per il lavoro attuate dagli ultimi governi, dal Jobs act alle numerose misure agevolative a favore proprio delle fasce giovanili, che possono aver avuto un effetto tampone in casi particolari, ma non hanno saputo incidere sulla struttura del mercato del lavoro. Forse varrebbe la pena di prendere atto che il lavoro non si può creare ex lege. Probabilmente sono più utili azioni volte a far combaciare la domanda e l’ offerta di lavoro, azioni in parte già avviate da qualche anno con gli istituti tecnici superiori che stanno dando ottima prova di sé, raggiungendo tassi di occupazione di diplomati che sforano l’ 80% ma con una dimensione ancora molto limitata (sono solo 96 in tutto). Si tratta di un percorso post superiori, ispirato al modello tedesco, parallelo alle università che punta a creare tecnici di alta formazione. L’ obiettivo è di limitare il fenomeno di imprese che non riescono a trovare personale qualificato, mentre un esercito di giovani si impegna in studi, il liceo resta la prima scelta alle superiori per non parlare poi di alcune facoltà universitarie, che hanno poco o nulla da offrire in termini di possibilità di impiego. Clamorosa per esempio anche la contraddizione della fioritura delle scuole di giornalismo mentre gli istituti professionali registrano da anni un lento declino. È evidente che in ampie fasce della popolazione vi è una scarsa conoscenza delle dinamiche reali del mondo del lavoro. E forse sarebbe il caso di puntare di più in questa direzione, con corsi di orientamento per studenti e genitori, meglio strutturati e diffusi a tappeto. Paradossale invece che, da una parte il M5s abbia elevato la disintermediazione e l’ utilizzo delle Rete a paradigma di una nuova società (nella quale non ci saranno più agenzie di viaggio, giornali, partiti politici, sindacati), mentre dall’ altra nel programma del governo del cambiamento si prevede di investire 2 miliardi di euro (mica noccioline) per rilanciare l’ intermediazione dei vecchi uffici di collocamento, che finora hanno fatto di tutto meno che trovare un lavoro a chi non ce l’ ha. © Riproduzione riservata.

Informazione e digitale: si può cambiare

L’Economia del Corriere della Sera (ed. Mezzogiorno)
di Alfonso Marino e Paolo Pariso
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Informazione, libera espressione, media, sono molteplici le vicende che hanno nuovamente acceso i fari sulle problematiche del fare inchiesta, intervistare. La posizione dell’ Italia nella classifica mondiale stilata in termini di libertà di informazione è migliorata, sale di 25 posizioni, passando dal 77esimo al 52esimo posto. Distanziamo le maglie nere dell’ informazione, dove il diritto all’ informazione è del tutto inesistente e le grandi potenze mondiali dove l’ informazione è sempre più un monopolio. Ovvero realizzare quel delicato equilibro tra diritti individuali e collettivi è possibile ma difficile da realizzare. Eppure anche nel nostro Paese assistiamo alla forte pressione che viene esercitata sui rappresentanti dei media, quando si ricevono intimidazioni fisiche e verbali, pressioni politiche, economiche, criminali, il trattamento illecito di dati personali utilizzando strumenti informatici. A livello sostanziale, questo balzo in avanti non deve assopire la necessità di sviluppare la libertà di parola per garantire la diffusione di idee e pensiero. Alcuni argomenti e relative informazioni rappresentano come nel caso di Daphne Caruana Galizia e Jan Kuciak barbari attentati oppure la rinuncia alla propria libertà come nel caso di una serie di giornalisti del nostro Paese. Cambia il settore per il forte impatto delle tecnologie digitali, impone una riqualificazione di tutta la filiera della distribuzione e vendita, al netto della riorganizzazione che tutto il settore vive da molti anni anche sul versante economico finanziario delle proprietà aziendali. Un lavoro che conserva ancora fascino e passione, attrae giovani anche se modificato nel profondo. Solo la responsabilità di chi scrive, firma, si espone, è ferma. La stampa quotidiana e nazionale, nasce tra il 1859 e il 1896, il settore è cambiato, il lavoro, le proprietà sono cambiate, ma la firma è da sempre pubblica, visibile, la responsabilità verso l’ azienda e il lettore è data dalla firma. La firma, chi scrive, si dedica, ricerca, rende pubblico. Un lavoro complesso ma fondamentale per la crescita culturale di ogni Paese.

Web, personale a peso d’ oro

Italia Oggi Sette
SIMONA D’ ALESSIO
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Dipendenti «preziosi» (in grado di generare «dinamismo economico») in alcune fra le piattaforme tecnologiche più conosciute del Pianeta: nel periodo fra il 2012 e il 2014, infatti, ha registrato numeri ragguardevoli il «valore aggiunto» per lavoratore per il motore di ricerca Google (che, nel tempo, ha decisamente ampliato il suo raggio d’ azione sul web) e per il social network Facebook (con cifre rispettivamente pari a «208.943 e 304.971 euro per addetto nel 2014»). Invece, per quel che concerne il colosso delle vendite online Amazon e le varie «app» attive nel comparto dell’ intermediazione immobiliare, ci sono stati numeri «notevolmente inferiori» (anche perché, nel caso di Amazon, la differenza «è guidata pressoché interamente dalla sua maggiore intensità occupazionale»). È uno dei dati messi in luce dal rapporto realizzato dall’ Inapp (l’ Istituto nazionale per l’ analisi delle politiche pubbliche, che ha sostituito l’ Isfol, l’ Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori), dedicato all’ analisi dell’ andamento economico e occupazionale delle grandi aziende che sviluppano il proprio giro d’ affari offrendo servizi e contenuti a chi vi si collega attraverso il computer, o lo smartphone. Come è possibile osservare dal grafico nella pagina, analoga situazione per le società prese in esame è possibile riscontrarla esaminando le cifre relative ai ricavi ottenuti per dipendente: valori aggiunti, così come utili per lavoratore «negativi» sono osservabili per Just-Eat (all’ opera sul versante della consegna dei pasti a domicilio, ordinati via web, confezionati nei ristoranti e trasportati dai ciclo fattorini) nell’ anno 2012 nonché per Subito.it («app» attiva nel campo della compravendita di beni e nell’ intermediazione di immobili) nel 2014. Il dossier dell’ Inapp, poi, si è focalizzato pure sullo studio delle imposte e degli oneri sociali pagati dalle piattaforme digitali: in cima alla classifica, ancora una volta, Google e Facebook, mentre soglie «sensibilmente più basse» riguardano le piattaforme di intermediazione immobiliare e Just-Eat; a seguire, si legge, quelle «attive nei settori della pubblicità (Google, Facebook) e del «retail» (Amazon) si sono caratterizzate per una crescita impetuosa (nel periodo 2012-2016)», che ha abbracciato sia i ricavi, sia i salari per dipendente, nonché il valore aggiunto e, «in misura minore, degli utili». Ogni piattaforma analizzata, poi, ha mostrato di avere «una intensità occupazionale particolarmente bassa (in particolar, modo se comparata alle dimensioni e alla dinamica dei ricavi) con punte minime come quella di Facebook»: nel 2016, infatti, «a fronte di ricavi pari a 426.355 euro per dipendente, la piattaforma che gestisce il più noto social network ha dichiarato soltanto 22 lavoratori». Quel che affiora, a giudizio del presidente dell’ Inapp Stefano Sacchi è «un problema di distribuzione dei guadagni delle piattaforme, che da un lato non si trasformano in occupazione e, dall’ altro, non alimentano la capacità redistributiva dello stato attraverso le tasse».

SALVIAMO INTERNET? INTANTO I COLOSSI FANNO LA LORO CORSA

Corriere della Sera
MARTINA PENNISI
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L’ accorato (e sacrosanto) appello arriva durante la discussione sulla Direttiva europea sul copyright. Lo firmano alcuni dei genitori della Rete, da Tim Berners-Lee a Vint Cerf, puntando il dito contro l’ articolo 13, secondo il quale le piattaforme devono assumersi la responsabilità dei contenuti caricati dagli utenti e non solo quella del materiale segnalato dai detentori dei diritti. Un cambiamento non banale, soprattutto per le startup, «sia se si pensa a un filtro preventivo sia a un successivo intervento automatizzato», sottolinea l’ avvocato Guido Scorza. «Una minaccia per la Rete», secondo i suoi padri e difensori, fra i quali c’ è il docente italiano Stefano Zanero, che si domanda: «Ci sarà un database unico per i contenuti protetti da copyright? Chi lo gestirà?». Ci chiediamo noi: cos’ è e cosa sta diventando l’ Internet da tutelare? Per gli italiani, e non solo, è per quasi il 70 per cento del tempo WhatsApp, Facebook, YouTube, Google e Instagram (fonte: ComScore). Tutte app del duopolio Google – Facebook, che sta già usando la tecnologia per rimuovere pirateria, terrorismo o fake news e vuole capitalizzare l’ attenzione dei suoi miliardi di (web)spettatori in un contesto sempre meno anarchico. Giovedì l’ ad di Instagram, Kevin Systrom, è stato chiaro: nel mirino c’ è la tv. Per rimpiazzarla i colossi non puntano certo (solo) sui video degli utenti. Ad esempio, Apple si è accordata con Oprah Winfrey, Facebook prepara i tg e Amazon trasmette la Premier League. E quando non si parla di intrattenimento tradizionale ma di creator – così i rivali di YouTube chiamano gli youtuber – ci si avvia verso uno sforzo (economico) per assicurarsi i più talentuosi. Controlli serrati, dunque, e produzioni ad hoc. Anche senza l’ articolo 13, ma in un perimetro specifico e limitato. Senza dimenticare il resto di Internet.

L’ assalto dei social alla tv

Il Messaggero

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IL FENOMENO Tenetevi il miliardo. Nel giorno in cui Instagram ha annunciato di aver superato la soglia simbolica del miliardo di utenti, ha deciso di rilanciare dando il via a una nuova rivoluzione: Instagram Tv. Si tratta di una sorta di canale televisivo nato per sfidare YouTube e i media tradizionali, già sotto attacco dei servizi streaming come Netflix e Amazon Prime Video. Igtv è pensata per pubblicare filmati ben più lunghi del solo minuto consentito fino a questo momento. Da pochi giorni infatti, è possibile caricare sul social video di massimo un’ ora che iniziano appena l’ applicazione viene accesa, proprio come una tv. I DISPOSITIVI I contenuti vengono riprodotti solo a schermo intero – a differenza del concorrente YouTube – e soprattuto in 9:16, cioè in verticale. Un’ accortezza che sancisce il definitivo predominio dei dispositivi mobili sui computer fissi prima e sulle tv poi, e forse un giorno anche sul cinema. A capo della transizione c’ è proprio il social acquistato da Mark Zuckerberg nel 2012. Inizialmente pensata come piattaforma dedicata solo alle foto, ha iniziato la sua scalata al miliardo di utenti consentendogli di pubblicare video da 60 secondi. Un vero e proprio boom: in 24 ore i filmati caricati erano già1,5 milioni.Poi sono arrivate le dirette e le Stories – con buona pace di Snapchat, il social che aveva ideato il format – aprendo nuove possibilità, soprattutto pubblicitarie. Instagram Tv è il guanto di sfida lanciato da Zuckerberg a YouTube e agli eterni rivali di Google. La pubblicazione di video più lunghi su Igtv legittimerà la presenza di mini-spot da circa mezzo minuto dalla resa elevatissima in termini di monetizzazione pubblicitaria. Basti pensare che secondo eMarketer, la spesa totale per gli annunci video online solo negli Usa vale circa 18 miliardi di dollari e si stima aumenterà fino a 27 miliardi nel 2021. Infatti più che liberare la «creatività», come dichiarato dal cofondatore di Instagram Kevin Systrom nel corso della presentazione tenuta a San Francisco mercoledì scorso, si punta a intercettare la cosiddetta Generazione YouTube, quella composta dagli adolescenti dai 13 ai 17 anni. Nativi digitali e social addicted, vivono lontani dai televisori oppure li accendono solo per riprodurre video o giocare ai videogame. È su di loro che Instagram e gli altri social puntano davvero, perché più permeabili ai messaggi pubblicitari e più presenti online. «Gli utenti, soprattutto giovani, destinano gran parte della loro attenzione a questa forma di contenuti. Fruibili in ogni momento, in mobilità e con la possibilità di interagire con i creatori», spiega Vincenzo Cosenza, esperto di social media. Tendenza confermata da una recente indagine di GlobalWebIndex: ogni giorno in media il tempo speso guardando contenuti sui social supera di 20 minuti quello dedicato alla visione di programmi televisivi, e nei più giovani diventa addirittura un’ ora e mezzo. Per questo, secondo alcune indiscrezioni, anche Facebook starebbe lavorando per rafforzare l’ esperienza video sul social. TELEGIORNALI Il colosso di Menlo Park starebbe collaborando – anche in ottica anti fake news – con diverse reti televisive per produrre notiziari originali. Si tratterebbe di veri e propri telegiornali pubblicati in rete sull’ applicazione Watch: una costola di Facebook dedicata esclusivamente ai video, attiva negli Stati Uniti dall’ estate scorsa. Si tratta dell’ ennesimo capitolo della sfida tra Facebook Inc. e Alphabet – holding a cui fa capo l’ impero Google – iniziata con la creazione del social Google Plus e continuata con la spartizione del mercato pubblicitario, dove Google Adwords e Facebook ads hanno trovato un precario equilibrio. Il futuro terreno di scontro potrebbe essere lo streaming musicale: YouTube ha da poco annunciato la nuova piattaforma Music, entrando nel mercato dominato da Spotify e Amazon. Ancora una volta, la prossima mossa sta a Mark Zuckerberg. Francesco Malfetano © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Un occhio scova le prove contro le truffe sulla Rete

Il Sole 24 Ore
Gianni Rusconi
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Nasce in Friuli ed è un servizio, utilizzabile direttamente in cloud, che permette di certificare e validare le prove raccolte online contro i crimini commessi sul web. Una sorta di garante digitale ideato da Marco Alvise De Stefani e altri due soci fondatori, tutti consulenti nel campo della digital forensics e dell’ information security. Legal Eye ha debuttato a maggio 2015 con una missione ben precisa: rendere facilmente accessibili strumenti in grado di “fotografare” con valore legale ogni contenuto presente in Rete, sui social, le chat e nelle mail che possa essere utilizzato a tutela dei diritti e della reputazione di ogni soggetto giuridico, privato o pubblico. I vantaggi? Ovviare all’ oggettiva difficoltà di raccogliere e produrre prove legate a truffe, azioni diffamatorie, stalking e anche attacchi da parte di cybercriminali (come il ransomware, un malware che cifra i dati personali e chiede un riscatto per restituirli), evitando che un errore umano che possa invalidare l’ efficacia delle prove. Il servizio è indirizzato a professionisti, avvocati, aziende, agenzie investigative e Forze dell’ ordine. Di recente si è arricchito (per la versione Pro) di funzionalità che permettono di semplificare la cristallizzazione dei profili su Facebook, Instagram, Linkedin e altri social e di acquisire anche i contenuti Web riservati a specifici ambienti di navigazione. https://www.legaleye.cloud/public.

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